Giovedì 8 giugno 2000 pag. 2Quella sana pazzia che anima i Radicali di Gualtiero Vecellio
Pubblichiamo il primo dei tre articoli in cui Gualtiero Vecellio ripercorre le tappe più significative della storia dei Radicali.
"Tutti ne parlano, li deprecano, non vogliono prenderli sul serio e ascoltarli. Infastidiscono, costringono a riflettere. Ma che pagliacci, pensa l'italiano sicuro di sé, per il quale il buon senso è la virtù nazionale. La maggioranza, convinta che le cose vadano a posto da sé, tergiversa, poi s'accorge che certi problemi esistono anche se sono inconciliabili con l'Italia eternamente soddisfatta di risposte accademiche, magari formulate col linguaggio dei sociologi e dei poeti, mistura di successo certo. Ma che seccatori, parlano sempre di Costituzione, non hanno nemmeno il fascino dei ribelli extraparlamentari, vorrebbero regolare con nuove leggi cose che un paese d'antica saggezza, il nostro, aggiusta privatamente ". Così scriveva sul "Corriere della Sera" del gennaio 1975 Arrigo Benedetti. Ai più, oggi, il nome di Benedetti dice poco: è un tempo di smemorati e di cancellati, questo. E bisognerà un giorno decidersi a fare un discorso serio sul triste fenomeno che sembra essere la caratteristica di questo P
aese: che tutto omogeneizza, tritura e impasta, fino ad annullare ogni cosa; e quando proprio non vi riesce, allora "riscrive" e rimodella; e ci si trova nella situazione descritta da William Shakeaspeare in "Measure for measure": "E dì quel che vorrai: la mia menzogna soffocherà la tua verità!". Ma per tornare a Benedetti: di chi, tutti parlavano, deprecandoli, senza prenderli sul serio? Dei radicali; e s'interrogava, Benedetti, su di loro: che all'apparenza sembravano così diversi e lontani dai radicali anni Cinquanta che lui aveva frequentato: quelli che s'incontravano alla redazione del "Mondo" di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi; i Bruno Villabruna, i Leopoldo Piccardi, i figli, i reduci, i sopravvissuti del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà
Chi erano, cosa volevano, da dove venivano, e dove andavano? "Si diventa radicale", annotava Benedetti, "non soltanto per aver letto Croce, Gramsci, Salvemini, ma soprattutto per aver saputo guardare le cose che sono sotto i nostri occhi e che i dottrinari non notano mai ". E ancora: "I radicali, comunque vestano, quale sia il loro ideale di vita privata, hanno sempre il merito di cogliere in anticipo temi in seguito d'interesse nazionale fino ad appassionare le masse Molti anni fa, ai tempi dell'ottimismo della sinistra crociana, Mario Ferrara scrisse sul "Mondo" un articolo intitolato: "Date un matto ai liberali". Purtroppo Ferrara non c'è più ora che è stato accontentato ". Già: perché per Benedetti quel "matto" era Marco Pannella; e poi concludeva il suo articolo: "...i liberali si chiamano radicali". Un anno prima, era il 1974, e sempre sul "Corriere della Sera", Benedetti si era occupato di Pannella, impegnato in un lungo digiuno. La televisione aveva fino allora ignorato le battaglie per i diritti civ
ili, per il divorzio e l'aborto. Pannella chiedeva quindici minuti riparatori per la LID, la Lega Italiana Divorzio. Dovette digiunare per una novantina di giorni, prima che riuscisse a vincere il muro dell'omertà e del silenzio. Benedetti aveva conosciuto Pannella alla redazione del "Mondo" molti anni prima; e aveva preso a stimarlo, "perché è uno di quegli italiani seri nell'intimo che non hanno paura di essere presi per buffoni. E perché crede in un'altra Italia che esiste, appena celata dal velo degli opportunismi. Quando qualcuno mormora: tanto siamo in Italia!, m'indigno, e sono sicuro che anche a lui succede".
In quell'articolo Benedetti ragionava sulle presunte e apparenti mattane di Pannella; e si chiedeva che cosa avrebbero pensato, se avessero potuto vedere e sapere, i vecchi "padri" nobili del radicalismo italiano. E rispondeva: avrebbero approvato; sarebbero stati al fianco di quei pagliacci matti, a chiedere quello che loro chiedevano. Perché i radicali seri, quelli di cui si riconosceva (ma alla memoria) capacità, ingegno, stile, educazione e bon ton, anche loro, come Pannella e prima di Pannella, erano stati, in vita, additati come pazzi, buffoni; personaggi di cui diffidare. Per dire: Togliatti, su "Rinascita" aveva accusato Gaetano Salvemini di farsi portavoce "delle più infami calunnie della libellistica anticomunista"; Ernesto Rossi, con i suoi ragionamenti "contribuisce al trionfo dei clericali e dei reazionari"; Aldo Garosci era un travisatore della verità, "obbediente protagonista dell'anticomunismo"; i fratelli Carlo e Nello Rosselli avevano sviluppato "una concezione quasi libertaria di una pueri
lità inconsistente, inadatta soprattutto a un paese come l'Italia e alle lotte che nel mondo e in Italia erano ormai imminenti". E se questo era "il Migliore", si immagini cosa potevano vomitare gli altri, che migliori non erano. Non per nulla Salvemini aveva coniato, a mò di medaglia, la definizione, calzantissima, di "pazzi melanconici".
E oggi, per ripetere la simulazione di Benedetti, cosa direbbero, se potessero vedere e sapere, i Pierpaolo Pasolini e i Leonardo Sciascia che, fin che vissero, non ebbero timore o vergogna a mescolare i loro nomi con quelli dei radicali di quel Pannella allora come ora svillaneggiato e deriso? "Non dovete far altro che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi; e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso: a scandalizzare; a bestemmiare", esortava Pasolini concludendo il testo che avrebbe dovuto leggere al congresso radicale a Firenze del novembre 1975. In quel testo, che la cugina Graziella lesse a una platea muta e dolente (Pasolini infatti, era stato assassinato qualche giorno prima), si denunciava un grave pericolo: quello di un nuovo conformismo di sinistra che "si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili, creando un
contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo".
Gualtiero Vecellio