Sabato 10 giugno 2000La contro-cultura liberale di Pannella rischia di essere inefficace senza un nuovo progetto politico che superi la vecchia logica della "forma-partito"
I RADICALI HANNO BISOGNO DI UN RESTYLING
di Gualtiero Vecellio
Pubblichiamo l'ultimo dei tre articoli in cui Gualtiero Vecellio ripercorre le tappe più significative della storia dei Radicali. (Il primo articolo, "Quella sana pazzia che anima i radicali", è stato pubblicato giovedì 8 giugno)
Di recente, intervistato dal "Corriere della Sera" un anziano leader sindacale e da sempre militante della sinistra, Vittorio Foa, ha parlato di una CGIL conservatrice; e di una sinistra che si è tagliata fuori dai giovani, che ha difeso l'esistente; ha puntato sui "vecchi", sacrificando i "giovani"; e che bisogna sciogliere il nodo costituito dal conservatorismo del sindacato. Una intervista che- come un precedente articolo pubblicato su "La Repubblica" da Massimo Cacciari, era un mettere il dito là dove c'era la piaga. Ebbene, la riflessione di Cacciari è stata accolta da una avvilente indifferenza. Per Foa l'oltraggio è stato maggiore: l'unica reazione è stata di un patetico Guglielmo Epifani, dirigente della CGIL, intervistato da "Il Messaggero". Qualche giorno dopo è sceso in campo un mostro sacro come Norberto Bobbio; su "La Stampa" dice che alla sinistra manca la convinzione di essere portatrice di un progetto; e le rimprovera di oscillare tra arroganza e irresolutezza. Ebbene: ancora silenzio. Sono,
evidentemente, tutti contenti di aver battuto "il partito americano". Dite che è poca cosa aver acquisito questo certificato di morte della sinistra? Dite che non è positivo aver fatto chiarezza, e sgomberato il terreno da equivoci?
Intanto la FIAT trasferisce parte del suo sistema impresa in Olanda. Significherà qualcosa? Un rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro ci avverte: pensionati a rischio; povertà per il 90 per cento degli occupati non coperti da piani previdenziali. Significherà qualcosa?
E vero o no che il forum per l'Economia Mondiale di Davos ha stimato l'Italia al trentacinquesimo posto per competitività, tra Costa Rica e Filippine da una parte; e Perù e Indonesia dall'altra? E vero o no che da un'indagine condotta dall'OCSE emerge come - quale sia il criterio scelto - l'Italia risulta essere il Paese con la peggiore economia? E vero o no che un rapporto dell'UNICE (un gruppo europeo di ricerca sul mondo del business), l'Italia è il Paese che rasenta i livelli peggiori in molti aspetti importanti della formazione aziendale e per gli ostacoli posti all'imprenditoria? Dice sciocchezze o merita attenzione la riflessione di Rudi Dornbusch, docente del Massachusetts Institute of Technology, che ci avverte: "L'Italia ha bisogno di un cambiamento radicale come quello che hanno affrontato il Regno Unito e gli Stati Uniti negli ultimi vent'anni. E sconcertante come i responsabili di questa situazione siano riusciti a mantenere il consenso tenendo a galla un modello di corporativismo. Questo consen
so non fa bene al paese: c'è bisogno di una contro-cultura che abbracci vigorosamente la riforma economica. L'Italia ha bisogno di reinventare se stessa in modo che ognuno possa lavorare; e ha bisogno che il governo smetta di fare favori a propria discrezione, di limitare la concorrenza a piacimento, di sostenere l'inefficienza e la rigidità in nome dell'equità o semplicemente per piatta convenienza....". E il delirio di un folle, o sono invece folli, i nostri governanti, che nascondendo la testa sotto la sabbia si illudono così di esorcizzare e risolvere i problemi?
Dopo la debacle referendaria, i radicali sono stati messi sul banco dell'accusa. Certo, sono, letteralmente, responsabili. Responsabili lo sono sempre stati, e proprio nel senso che venticinque anni fa aveva colto Benedetti. Responsabili di aver proposto e raccolto le firme per dei referendum come quelli sulla Giustizia; quello sulla separazione delle carriere, per esempio: voluta e prefigurata da Giovanni Falcone. Responsabili di aver indicato all'Italia un modello di sviluppo di tipo olandese che Cofferati o Sergio D'Antoni valutano una mostruosità. Una mostruosità che viene descritta e teorizzata da Jelle Visser, docente alla Amsterdam School for Social Research, e da Anton Hemerijik, della Erasmus University di Rotterdam, in un libro che merita senz'altro di essere letto; si chiama "Il miracolo olandese", questo libro. In Italia - quando si dice!- lo pubblica la casa editrice della CISL, il sindacato di D'Antoni. E che dire di Win Kok, il premier olandese tra i maggiori protagonisti della creazione di ta
le modello, venuto in Italia a dirci: "Il mio modello funziona anche per l'Italia", e a spiegarci che la finanziaria olandese del 2000 taglia le imposte alle imprese, riduce l'IVA sulle attività ad alta intensità di lavoro, porta l'aliquota al 30 per cento?
Ma di queste responsabilità, i radicali devono essere orgogliosi, rivendicarle a pieno e giusto titolo. Devono rivendicare ed essere orgogliosi di avere una visione dinamica della questione relativa all'immigrazione; e non perché ci si vuole guadagnare il paradiso. Piuttosto perché si pensa seriamente all'al di qua. Uno studioso dell'University College di Londra, il professor Nigel Harris, ha appena licenziato per il Mulino un poderoso saggio, nel quale si sostiene che non abbiamo altra alternativa se non quella di utilizzare gli immigrati come risorsa: perché loro hanno bisogno di noi, ma noi, forse di più, abbiamo bisogno di loro. Bisogna essere orgogliosi, rivendicare a pieno titolo l'aver sollevato la questione della "pillola del giorno dopo" da distribuire alle studentesse, in modo da evitare il più possibile gli aborti, siano essi clandestini o legali; come già accade in Francia e in Gran Bretagna. Bisogna essere orgogliosi e rivendicare a pieno titolo il fatto di aver sollevato la questione dell'illeg
alità delle consultazioni elettorali: dai brogli consumati nel raccogliere le firme per le liste alle elezioni amministrative, ai quorum raggiunti anche grazie ai morti votanti e ai non aventi diritto che ugualmente figurano nelle liste elettorali. Bisogna essere orgogliosi e rivendicare a pieno titolo l'aver puntualmente, ossessivamente sollevato la questione dell'informazione. In effetti è una grave colpa, e va senz'altro sanzionata, il voler credere a quanto diceva un liberale come Luigi Einaudi, nelle sue "Prediche inutili": "Conoscere, condizione fondamentale per poter correttamente deliberare".
Il problema dei radicali non è il fare, o l'aver fatto; e neppure il saper fare. Il problema di sempre è costituito dal far sapere. Sono tra quelli- lo confesso- che ha un po' nostalgia per quello che dieci, vent'anni fa era il buon vecchio Partito Radicale. Ma tutto, con i tempi, cambia; e non si può restare cristallizzati nella vecchia e superata "forma-partito". Sarebbe, oltretutto, un assurdo, nel momento in cui anche gli altri, con grande ritardo, prendono atto della sua inadeguatezza. Occorre certamente inventare uno strumento più adatto e rispondente alla situazione; ed è un nodo che prima o poi bisognerà cominciare a sciogliere. Negli anni Sessanta, i radicali d'allora si inventarono uno statuto e un modello di partito che ancora oggi per tanti versi è straordinario; e che meriterebbe d'essere più studiato e analizzato di quanto non sia accaduto. Oggi serve uno strumento nuovo, come nuovo, allora, è stato quello statuto e quel modello di partito. Sarà un parto lungo e, presumibilmente, travagliato; m
a è una questione che non vedo come si possa eludere. D'una cosa si può essere certi: non ci priveranno di slanci generosi e sogni "matti". Per fortuna.