Da La Repubblica, 20 giugno 2000di ADRIANO SOFRI
SE non vi piacciono le storie tristi, andate via. Questa all'inizio e' la cronaca di una domenica in un carcere di secondaria importanza, in cui arrivano voci di novita'. Voci di amnistia, di indulto. Anche voci di solidarieta' di persone libere, che hanno convocato a Roma un digiuno pubblico, a turno, fino al 9 luglio, quando il papa visitera' Regina Coeli. Si ritroveranno, dicono i giornali, a Castel Sant'Angelo, ospiti di una Fiera del Libro. Bella coincidenza, penso, dato che quella mole fu una galera dei papi, e a sovrastarla c'e' l' angelo che sembra snudare la spada come un vendicatore, e invece la sta rinfoderando per una minaccia debellata. Ci raduniamo, noi del carcere di Pisa, nel sole a picco del cortile. Dobbiamo far qualcosa anche noi, no? Come capita nelle adunanze, le persone fanno a gara di oltranzismo. Si decide, per ora, un digiuno totale da fare in due turni, fra le sezioni del carcere, per dieci giorni ciascuna. Cominciamo la sera del 20 giugno, finiamo il 10 luglio.
L'IDEA di astenersi solo dal vitto del carcere e' respinta perche' i detenuti stranieri e poveri, che non hanno pacchi di famiglia ne' denaro per la spesa, sarebbero ancora piu' discriminati. E poi, tutti hanno voglia di mostrarsi capaci di sacrificio. In questi giorni c'e' un' eccitazione a fior di pelle nel carcere, e rischia l'euforia molesta. Sabato sera, i servizi dei successivi telegiornali dalle prigioni e sull'amnistia erano seguiti in silenzio, e poi grida e applausi volavano fuori dalle grate delle celle. Strano entusiasmo, che mette in ansia chi non grida e non applaude.
Domenica, dunque: mentre concordiamo il digiuno ne arriva un'altra, di notizia. Dapprima e' una voce, il carcere e' pieno di correnti d'aria e di voci che corrono, proprio perche' e' cosi' maniacalmente chiuso. Si e' impiccato uno stanotte, dicono, un ragazzo tunisino. Si chiamava Samir, aveva ventisette anni, era ricoverato al Centro Clinico per un qualunque guaio a una gamba. Si era rotto un tendine giocando a pallone, nel carcere siciliano di San Cataldo, e li' era stato curato per sei mesi, diceva, con iniezioni antidolorifiche. Poi finalmente era stato mandato a Pisa, e ne era stato grato e pieno di fiducia. Era ricoverato da mesi: la sala operatoria del Centro Clinico di Pisa -il piu' prestigioso d'Italia, dell'Italia delle galere, intendo- e' chiusa da piu' di un anno perche' mancano i soldi per metterla a norma di igiene e sicurezza. La gente non viene operata, semplicemente, ne' dentro, ne' fuori. Faceva esami, perche' non si trovava una spiegazione adeguata ai dolori che lamentava. Aveva appena fat
to una risonanza magnetica, di cui non c'era ancora l' esito, e temeva che non volessero farglielo conoscere. Gia' altre volte si era tagliato, o aveva cominciato lo sciopero della fame: i medici gli parlavano, lo rassicuravano, e lui ricominciava ad aspettare.
Ma non era questo il problema, dicono. Allora qual era? Voci. Era disperato di essere rimandato al suo paese zoppo, sabato si era infilzato con due spille le labbra, aveva litigato col suo compagno di cella, era stato isolato ieri notte al GS 2, la sezione di sicurezza riservata ai "pentiti" -e li', dopo aver ingoiato frantumi di vetro di una finestra rotta, si e' impiccato. In una cella nuda di tutto. Non aveva niente con se', neanche il lenzuolo: ha usato il pigiama dei ricoverati. Doveva uscire fra quindici giorni. Uno di vent'anni, che uscira' fra quindici giorni, e si impicca col brutto pigiama di cotone a righe, nella notte in cui gli altri detenuti si sono messi a dormire contenti, dopo aver applaudito i telegiornali sull'amnistia. A Pisa -non a Locri, o a San Vittore: nel carcere morbido di Pisa. Sabato mattina erano venuti l'eurodeputato Dell'Alba e una sua collaboratrice, avevano visitato le sezioni, interpellato i detenuti sulle loro aspettative riguardo ad amnistia e indulto, ascoltato le storie
piu' drammatiche. Raccomando, ai due visitatori, di passare dal Centro Clinico, per vederne quello che c'e' di buono, e quello che c'e' di cattivo: moribondi tenuti dentro "perche' si'", nonostante le certificazioni mediche; sala operatoria chiusa; e anche, gli dico, i pigiami. Obbligatori e spesso senza ricambio, da mettere a letto e a passeggio, e di taglie ridicolizzanti: siete un malato di un metro e sessanta, puo' toccarvi il pigiama lavato da un metro e novantasette, perche' non ce n'e' altri. Scherzo, ma non tanto. Pero' non immagino, ne' immaginano loro, che stanotte un ragazzo arabo sapra' farne un capestro, di quel pigiama insulso, nella cella nuda in cui e' stato messo per proteggerlo da gesti inconsulti. Povero lui, povero l'agente che era di guardia.
Mi dispiace di scrivere, invece di darvi una fotografia del ragazzo coi capelli scuri, lo sguardo spaesato e le stampelle. Magari avreste pensato: "Potrebbe essere mio figlio". Sapete qual e' il problema ogni volta che ci si trova col cadavere di un ragazzo arabo? Che non si sa che farsene. Ammesso che si rintracci la famiglia, e' raro che abbia i soldi necessari a rimpatriare la salma. Quella di un giovane algerino morto qui dentro di overdose, all'isolamento, l'inverno scorso, e' rimasta per mesi in non so quale deposito di obitorio. Questo nome tecnico, isolamento, vuol dire poi davvero che quando si muore si muore soli.
Cosi' va la mia cronaca di una domenica di giubileo. Le voci, quando cominciano, chi le ferma piu'. Un giovane maghrebino, all'isolamento, ha ingoiato stamattina dieci batterie di pila. Un altro ragazzo arabo, al giudiziario, si e' tagliato, dicono, cosi' gravemente che non riuscivano a suturarlo. A Pisa -come altrove- c'e' un abisso fra la situazione del reparto giudiziario e quella del penale. Al giudiziario ci sono gli imputati, nella gran maggioranza sono giovani stranieri, non hanno nessuno -parenti, avvocati, imam del loro Dio, soldi. Una suor Cecilia assidua come un passerotto si affanna a procurar loro l'essenziale, con l' aiuto di qualche volontario, e a volte degli stessi agenti. Per attenuare la tensione si sono messi tre detenuti nelle celle da due alla sezione penale, dove tira un' aria piu' tranquilla e socievole -al confronto, voglio dire.
Un mese fa era morto di meningite Antonio S., uno degli ultimi detenuti all'antica, uno che aveva deciso davvero di farla finita con la malavita, ma non avrebbe barattato la propria scontrosa dignita' con nessun beneficio. Era stato dentro per mezza vita, solitario, finche' qualcuno non gli offri' l'occasione di lavorare e di prendersi qualche responsabilita', e ne scopri' il valore. Aveva cinquant'anni, ottenne la semiliberta', di giorno andava a governare una casa d' accoglienza volontaria per ex-detenuti, di notte tornava dentro. Prima, l'avrebbero considerato come uno "pericoloso". Poi, lo riconobbero come il piu' degno di fiducia, semplicemente perche' non avrebbe mancato alla propria parola. Ebbe una febbre forte, non capirono che cos'era, e quando fu ricoverato era tardi. Lo incontrai, di passaggio in un corridoio, che era gia' via: "Vogliono rimettermi in carcere", disse, con un tono avvilito, come di un evento incomprensibile. E' brutto stare in galera, ma e' orribile morirci. E' come aver risparmia
to per anni e anni, a costo dei piu' penosi sacrifici, e tutto d'un tratto e' stato per niente. La galera e' per niente: fondo perduto.
Posso continuare? La casa d'accoglienza di cui Antonio S. era stato custode, sostenuta dal Comune, si chiama "Oltre il muro", titolo che fu inventato da Marcello, un detenuto sardo che si prodigava per gli altri, aveva trascorso in galera mezza vita per il rosario di condanne che toccano a un tossicomane. Usci' a fine pena, invento' il titolo, e si ammazzo' in una notte solitaria, libero e disperato, scrivendo il diario del proprio commiato. Ho qui un distintivo del Cagliari che mi lascio' per ricordo.
Sto per finire. Voglio dire una cosa sull'indulto, e su certe posizioni della politica. L'umanita' e la clemenza verso i detenuti sono impopolari, fanno perdere voti. C'e' chi si apposta per intascarli, quei voti, facendo il duro. Per chi fa il politico di mestiere la preoccupazione di perdere voti non e' affatto da deplorare. Perche' non dirlo? Perche' non dire: siccome ci preme raccogliere quanto di fondato c'e' nell'allarme sociale attorno alla sicurezza, intendiamo collegare le misure di clemenza ad altre che riducano davvero le occasioni di recidiva e favoriscano la conversione legale degli scarcerati (e' la ispirazione dei progetti cui lavorano cosi' tenacemente Cusani e Segio, e studiosi e magistrati come Pavarini e Maisto). Mi delude il ricorso ad argomenti esteriori, di convenienza o di necessita'. Il sovraffollamento, l'accumulo di pratiche giudiziarie, il rischio di rivolte dei detenuti: tutte cose vere, ma un po' meschine. E' davvero cosi' difficile dire, e sentire, che ogni tanto puo' venire nel
la vicenda degli umani un giorno speciale? Che un giubileo o un passaggio di millennio o un altro ricorso delle stelle o della storia, il natale di un principe ereditario o dell'anonimo seimiliardesimo bambinello africano abitatore del mondo, possano essere scelti per un appuntamento di liberazione e di ricominciamento? Che ci sia un anno di grazia - una cosa gratis, come un dono, prezioso per chi lo fa quanto per chi lo riceve?
Parlano di sovraffollamento e di tribunali intasati e di rischio di rivolte, perche' si vergognano di parlare di fraternita', o se ne sono dimenticati il linguaggio. Pensano che siano cose di suore generose come passerotti, di preti, di vescovi, del papa. Al papa l'umanita', la grazia, la misericordia: al braccio secolare lo smaltimento d'emergenza dei corpi giacenti in sovrannumero, il disbrigo d'eccezione dell'intasamento degli armadi. Peccato. Eppure e' come con la remissione del debito al Sud povero del mondo. Coraggio: si puo' essere umani anche senza essere papi.