Vorrei poter dire, come di regola è giusto dire: aspettiamo le motivazioni della sentenza, per poterla discutere con cognizione di causa. Questa volta no. Leggerò con attenzione le motivazioni, ma difficilmente aggiungeranno o toglieranno qualcosa a quanto credo già ora di sapere. A voler trovare una data d'inizio, questa vicenda comincia il 17 maggio 1972, quando il commissario Luigi Calabresi è assassinato a Milano da un commando di terroristi. Per sedici anni si brancola nel buio. E' solo il 28 luglio 1988, infatti, che un ex militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, si "pente" e confessa. Vengono arrestati tre ex dirigenti della stessa organizzazione: appunto Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Da allora una sconcertante altalena di processi, appelli e contrappelli, condanne, assoluzioni, fino alla sentenza del 24 gennaio di quest'anno, emessa dalla corte d'Appello di Venezia: NO alla richiesta di revisione del processo, conferma della condanna a 22 anni di carcere.
In tutto undici sentenze, cui va aggiunta quella di ieri della Corte di Cassazione.
Una montagna di carte, ma alla fine, la situazione è di una semplicità sconcertante: Sofri e Pietrostefani sono accusati d'essere i mandanti del delitto, che sarebbe stato materialmente consumato da Bompressi e da Marino. Quest'ultimo si auto-accusa e accusa; gli altri tre negano e respingono ogni addebito. La parola di uno contro la parola di tre. Perché la parola di uno, in questo caso, ha più valore di tre? Vorrei che qualcuno mi spiegasse come si può essere assolti dall'accusa d'essere complici della mafia e di aver ordinato un delitto, quando ad accusare sono una decina di "pentiti", come nel caso del senatore Giulio Andreotti; e invece si può essere condannati per omicidio sulla parola di un solo "pentito", com'è accaduto a Sofri, Bompressi e Pietrostefani.
Perché tutta l'impalcatura contro i tre ex dirigenti di Lotta Continua si regge solo sulla parola del "pentito" Marino; che però ha confessato ben sedici anni dopo, e nel vigore delle leggi che beneficano i "pentiti".
Non dico che il delitto non sia da attribuire alla sinistra estrema di allora; e specificatamente a qualche elemento di Lotta Continua. Quello che dico è che per condannare un imputato, si chiami Sofri, Andreotti, Rossi o Verdi, occorrono prove, riscontri, testimonianze precise, verificate e verificabili. Nulla di tutto questo si coglie nell'annosa vicenda che ha portato in carcere Sofri, Bompressi e Pietrostefani.
Né è possibile negarsi altri, inquietanti interrogativi, a cui i tanti dibattimenti non hanno voluto, saputo o potuto dare risposta: in che misura, una volta accertata, Marino ha pagato la sua partecipazione al delitto? Quali sono stati i suoi rapporti con Sofri nei sedici anni tra il delitto Calabresi e il giorno del "pentimento"? Fino a quando Marino si rivolse a Sofri per avere qualche soccorso finanziario, e a partire da quando, fu respinto? Quale la sua situazione economica e morale al momento in cui va ad autoaccusarsi e ad accusare, la sua situazione familiare, i suoi rapporti con la moglie Antonia Bistolfi in particolare?
"Piccoli" interrogativi, come si vede, la cui risposta può tuttavia fornire elementi decisivi per nuovi e sorprendenti scenari. Un tribunale aveva il dovere di sviscerare anche questi aspetti; per ragioni imperscrutabili non è stato fatto. Non averlo fatto è stato grave. Sono stati Ulpiano, Gaio e Seneca a insegnarci che in dubio pro reo: nei casi dubbi si deve decidere a favore dell'imputato. Ma forse anche loro appartenevano a quella che viene definita "la lobby di Lotta Continua". Per tutto questo mi permetto di dire: che schifo.