Libertà senza più idee
di Barbara Spinelli
Quel che sta accadendo in Italia comincia a incuriosire gli alleati dell'Unione europea, e non di rado a preoccuparli. L'ingresso di Berlusconi a Palazzo Chigi è dato per scontato, come testimonia una lunga intervista al capo del Polo sul Financial Times di lunedì, ma interrogativi e inquietudini si moltiplicano. E' veramente singolare infatti, l'Italia che sta prendendo forma a undici anni della caduta del Muro.
Da una parte è un paese mutante, alle prese per la prima volta con un gran numero di immigranti e privo di qualsiasi cultura laica capace non solo di controllare i nuovi venuti, ma di convivere con essi in maniera educata, e di fronteggiare i sentimenti di paura che assalgono la popolazione indigena. Dall'altra è una nazione senza più centro di gravità, senza guida visibile: non sono più i politici di professione a prender decisioni, a impartire direttive, a interpretare le violenze o le ingiustizie di una guerra, ma una serie di rappresentanti sostitutivi.
Gli ultimi eventi nel Vicino Oriente sono una prova evidente di questa assenza del centro: giornalisti o ambasciatori fanno politica estera al posto dei governi, esprimendo giudizi che danneggiano non solo l'Italia ma l'Unione europea. E lo stesso succede per l'immigrazione: per anni è stata la Chiesa - attraverso istituzioni come la Caritas - a prendersi cura di emigranti economici o di popolazioni in fuga dalle guerre . Lo Stato nella sostanza era assente: non forniva indicazioni, non costruiva alloggi, non aveva una politica estera coordinata con quella della sicurezza interna, della giustizia, del territorio.
Difendeva valori ai quali teneva, ma che non avevano rapporto con i fatti. Non era in grado di organizzare la coesistenza fra tradizioni e culti religiosi diversi, spesso antagonisti, che oggi si scontrano senza mediazioni riordinatrici. Si parla molto dell'opportunità di una diplomazia che sia bipartisan, ma il condiviso senso di responsabilità è senza senso, quando è la politica stessa a farsi latitante.
In non pochi settori si è giunti in effetti a una serie di politiche parallele, sostitutive, controllate e gestite da piccole patrie, parrocchie, da gruppi di pressioni, corporazioni. Corporazioni dotate di un'ideologia forte, cristiana o neo-pagana ma mai laica. Come è avvenuto nell'epoca della guerra fredda sono i partiti estremi, provvisti di idee possenti, a esercitare l'egemonia culturale sui moderati. Nella guerra fredda il compito veniva svolto dal Pci.
Oggi è assicurato dalla Lega, e da vescovi che profittano dell'inesistenza in Italia di tradizioni aconfessionali. Di fronte a queste forze, Berlusconi ha un atteggiamento nel quale si mescolano l'impotenza, la corrività, il disinteresse. Il candidato a Palazzo Chigi somiglia a un guscio vuoto o a una spugna: fin quando la sua ascesa non è ostacolata, lo si può riempire di qualsiasi contenuto.
E' precisamente questo che rende inquieti gli europei. I militanti leghisti possono dire impunemente quel che vogliono, senza temere rimproveri del capo del Polo. Possono gettare letame sulle spianate destinate alle moschee, dare agli immigrati il nome di invasori, organizzare cortei razzisti contro la religione musulmana, e Berlusconi liquida gli incidenti con tranquilla impassibilità.
Bossi può anche anche dichiarare che la libertà di culto non è un diritto fondamentale della Costituzione, ma complementare. Nulla di essenziale distingue il suo vocabolario da quello di Haider, e tuttavia il Polo tace imbarazzato. Il più sincero forse è Casini, erede della vecchia democrazia cristiana, ma la sua efficacia è inesistente. Ecco quel che si teme fuori dai confini: lì dove dovrebbe parlare un leader, a destra, c'è un vuoto che Forza Italia impersona.
Vuoto di pensiero, di sapienza della civiltà europea e dei suoi fallimenti. Berlusconi non è stato eletto alla guida del centro-destra in seguito a dibattiti interni di idee, di culture. Si è autoproclamato padrone della Casa delle Libertà, aggirando gli itinerari classici di selezione, e oggi ne paga il prezzo dando l'impressione di non saper vigilare sui propri alleati. Significativo da questo punto di vista è il disprezzo, radicato, che egli nutre per la politica in quanto tale.
E' una ripugnanza che sottolinea in ogni circostanza: se per due volte ha deciso di candidarsi alla guida dell'Italia - ripete quando viene interrogato - non è certo per passione dell'arte politica, ma per una missione i cui contenuti restano inspiegati. Il mestiere nobile della politica, la sua vocazione a governare i conflitti cittadini senza spirito missionario e senza violenze verbali, sembrano essergli profondamente estranei.
Partecipano di tale disprezzo i reiterati rifiuti di risolvere la questione del conflitto di interessi, come anche l'indifferenza verso le xenofobie della Lega. E' come se Berlusconi dicesse alla classe dirigente italiana: questi non sono più tempi per la politica tradizionale, ma per una gestione affidata a lobbies, imprenditori di successo, sindacati. L'ingresso nell'arena partitica di D'Antoni, e l'adesione di parte della Cisl al suo partito-fondazione, confermano la degenerazione, acuta, cui sta soccombendo la politica in Italia.
E' una degenerazione cui il centro-sinistra ha di fatto consentito, per anni: nella speranza di consolidare la propria legittimità, e di avere di fronte un rivale permanentemente indebolito dalla mescolanza tra convenienze pubbliche e private, l'Ulivo ha evitato di affrontare subito la questione del conflitto di interessi. E anche sulla laicità ha condotto battaglie incerte, intimidite: ha confuso laicità e anticlericalismo, non ha osato né l'una né l'altro, e ha permesso che si rafforzasse l'idea di un'identità italiana dominata esclusivamente dal patrimonio cristiano oltre che etnico.
Il candidato Berlusconi non sembra turbato dalle conseguenze di simili confusioni, e dai rischi connessi all'ignoranza italiana dell'esperienza laica. Rischi ai quali Prodi ha alluso due volte, ultimamente: una prima volta quando ha ricordato che la civiltà europea si è costruita con l'apporto del cristianesimo, dell'ebraismo, e dell'Islam.
Una seconda a Seul, giovedì, quando ha ricordato che la Lega al governo - dopo l' "odiosa e volgare" marcia di Lodi - "potrebbe destare preoccupazione nell'Unione, qualora sui temi riguardanti i rapporti con l'Islam si passasse dalle parole ai fatti". Berlusconi si dice sicuro, che non si passerà ai fatti. Ma forse non valuta il danno che sta arrecando a se stesso e allo Stato, quando lascia che la Lega abbia l'egemonia culturale sul centro-destra. All'Europa spetta in effetti un grande compito nei prossimi mesi e anni: aiutare a pacificare le violenze nel Vicino Oriente, senza inimicarsi né Israele né le nazioni arabe.
E' un passo che gli Stati Uniti possono difficilmente far proprio, ma che gli Europei potrebbero un giorno compiere: riconoscendo lo Stato della Palestina, e varando un piano Marshall affinché i territori oggi occupati possano prosperare e smettere di minacciare la sicurezza di Israele. L'Italia corre il pericolo di divenire un protagonista non solo inaffidabile ma pericoloso, se insisterà a oscillare fra due estremi incompatibili. Da una parte il vocabolario antimusulmano di sapore razzista, che permea ormai settori importanti del centro-destra.
Dall'altra una politica fortemente squilibrata sul Vicino Oriente, di autentica subalternità alle esigenze dei dirigenti palestinesi e dei loro integralismi. E qui giungiamo all'ulteriore particolarità italiana, e alla misera vicenda del giornalista Rai - Riccardo Cristiano - che ha creduto opportuno di dimenticare l'etica del mestiere, e di fare politica in prima persona chiedendo perdono alle Autorità palestinesi per il servizio girato dagli inviati delle Tv private italiane sui due soldati israeliani linciati a Ramallah da estremisti palestinesi, il 12 ottobre.
Anche in questo caso siamo di fronte a evidenti fenomeni di supplenza: ci sono giornalisti del servizio pubblico che si sentono abilitati a far politica estera al posto dei governi, e così accade anche agli ambasciatori incaricati di rappresentare il Paese. Questo accade nel momento in cui il ruolo strategico italiano si fa cruciale, nel Vicino Oriente, e in cui è richiesto un ripensamento profondo delle politiche sin qui seguite da Roma. E' un ripensamento non ancora avvenuto, e il comportamento del giornalista Rai non stupisce oltre misura.
Sono anni che la diplomazia italiana fatica a comprendere le nuove minacce degli integralismi e delle guerre etniche, e l'inviato della Rai non ha usato un linguaggio differente da quello dell'ambasciatore italiano all'Onu, secondo cui Barak avrebbe sacrificato i due soldati linciati allo scopo di "vincere la battaglia delle immagini" dopo l'uccisione del piccolo palestinese Mohammed al-Doura. Le guerre etniche e integraliste danno fastidio perché trovano le diplomazie impreparate, non rassicurate dai vecchi equilibri fra potenze avverse, a est e ovest. E' il motivo per cui se la prendono in genere con la stampa, cui vengono attribuite responsabilità politiche che non le competono.
E' quello che disse il ministro degli Esteri De Michelis, quando - pur di non assumersi la responsabilità di guardare in faccia la nuova aggressività serba nei Balcani - accusò i media di aver "inventato" la guerra in ex Jugoslavia. A molti anni di distanza, l'ambasciatore italiano all'Onu si comporta allo stesso modo, quando è chiamato a giudicare le brutalità vicino-orientali: " Le guerre dei media sono oggi più importanti delle guerre militari", così commenta il linciaggio dei soldati israeliani, e ancora una volta lo spregio del giornalismo serve per non dover prendere posizioni chiare.
Filmati e reportage non sono considerati quel che sono: preziose testimonianze, rivelazioni di realtà che altrimenti passerebbero inosservate, o impunite. Sono considerati armi di una battaglia detta mediatica, affinché i politici possano sbarazzarsi delle responsabilità e del dovere di giudicare e agire. Se non ci fossero tutti questi cameramen, le guerre si potrebbero ignorare con vantaggi non indifferenti per diplomatici e governi. L'ambasciatore è stato redarguito dalla Farnesina, ma in fondo la sua responsabilità è marginale.
E' il governo che fa la politica dello struzzo, e lascia vuoti spazi in cui si infilano i non-politici giornalisti o ambasciatori. Tanto più importante è la battaglia vinta dal governo Amato e dallo stesso ambasciatore Vento, per mantenere nell'Onu il partito radicale transnazionale di Emma Bonino e Marco Pannella che Mosca voleva cacciare. In questo caso si è saputo resistere con vigore alle pressioni di Stati autoritari come la Russia, la Cina, Cuba, il Sudan. E si è reso omaggio a un giornalismo veramente eroico, che nulla aveva a che spartire con le diplomatiche riluttanze dei governi italiani.
E' il giornalismo di Antonio Russo, un inviato di Radio radicale trovato ucciso in Georgia, probabilmente picchiato e liquidato dai servizi segreti di Putin, a causa del materiale che aveva raccolto sulla guerra in Cecenia. Il mestiere del giornalista e anche della politica è stato per fortuna rinobilitato nei giorni scorsi , mentre franava su altri fronti. L'altro punto debole di Berlusconi concerne l'Europa, e la difficoltà di una politica bipartisan dei due schieramenti. Le responsabilità non sono tuttavia solo italiane, ma anche europee.
L'Unione non traversa probabilmente una crisi grave, e alcuni passi avanti si fanno. Ma ancora una volta, i tempi del suo agire sono assolutamente sfasati rispetto all'urgenza del divenire storico. Ci sono voluti dieci anni perché gli europei si rendessero conto della pericolosità di Milosevic. Non si sa quale altro avvenimento debba intervenire, perché l'Unione capisca che sta procedendo troppo lentamente sulla Carta dei diritti e sulla Costituzione. I pericoli di derive autoritarie vanno estendendosi, dopo il caso austriaco.
Destre xenofobe si rafforzano in Belgio, Danimarca, Italia. Non c'è dunque molto tempo, e al più presto sarebbe opportuno che la Carta dei diritti divenisse vincolante sul piano giuridico. Ma gli europei prendono tempo, si limitano a fare proclamazioni. E con ciò lasciano libero spazio a chi chiede solo diritti e respinge i doveri, come Haider in Austria e la destra di Bossi in Italia.