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Conferenza Tibet
Verni Piero - 2 dicembre 1994
Perché il Tibet viva
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Perché il Tibet viva

Secondo una corispondenza da Dharamsala (India settentrionale) del giornale indiano 'The Tribune' del 14 novembre, la comunità degli esuli tibetani starebbe preparando una "marcia in Tibet" per il Marzo del prossimo anno. La posizione di intransigente chiusura dei dirigenti comunisti cinesi nei confronti delle proposte più che moderate avanzate dal Dalai Lama nel corso degli ultimi 14 anni per cercare di risolvere il drammatico problema del Tibet, hanno esasperato la comunità tibetana sia in patria sia in esilio. Lo stesso Dalai Lama ha recentemente ammesso in diverse occasioni che i suoi tentativi di risolvere la questione tibetana sono falliti a causa della totale sordità dei dirigenti di Pechino che si sono sempre rifiutati di aprire dei veri colloqui sull'argomento con il governo tibetano in esilio. Oggi la comunità dei profughi sente che ogni giorno che passa le possibilità di liberare il loro Paese diminuiscono e che la cinesizzazione e il genocidio culturale del Tibet si fanno sempre più evidenti. P

er questo alcune importanti organizzazioni, riunite sotto l'egida della Tibetan U-Tsang Association hanno deciso di organizzare una marcia che dovrebbe partire da Nuova Delhi e terminare a Lhasa il prossimo 10 Marzo, 35· anniversario della insurrezione nazionale tibetana. Nei programmi degli organizzatori la marcia dovrebbe svolgersi in puro stile gandhiano ed essere assolutamente non-violenta e pacifica. Nonostante l'esasperazione crescente tra i giovani tibetani, gli organizzatori sono riusciti, ancora una volta, a incanalare la protesta nell'alveo della tradizione non-violenta di battaglie civili e democratiche che contraddistingue l'azione politica della comunità tibetana in esilio. "Non sarà una marcia di routine ma un gesto di coraggiosa determinazione da parte di discepoli di Buddha", ha dichiarato al 'Tribune' un portavoce dell'organizzazione. "Solo quanti sono totalmente devoti ai principi della verità e della non-violenza potranno partecipare alla marcia. Attualmente vi sono volontari che stanno a

ttuando un training di autopurificazione che permetterà loro di agire con coraggio e dedizione. Questi volontari praticheranno la meditazione e altre tecniche spirituali durante un processo di purificazione che durerà diversi mesi".

Certamente non sfugge agli organizzatori la difficoltà di portare a compimento un progetto del genere. Non solo le autorità cinesi impediranno con la forza delle armi ad una manifestazione del genere di entrare in Tibet ma con tutta probabilità le stesse autorità indiane saranno costrette a fermare i dimostranti prima che essi varchino la frontiera tra India e Cina. E' quindi molto probabile che la situazione possa prendere una piega drammatica ma questo non ferma il movimento di protesta tibetano che per bocca di uno dei suoi più eminenti rappresentanti, il lama Samdog Rinpoche, Presidente dell'Assemblea dei Deputati Tibetana in esilio, afferma, "Oggi o mai più. Il tempo ci scivola tra le dita. Dobbiamo ottenere dei risultati immediati in un modo o nell'altro".

Oggi è chiaro alla totalità dei tibetani, in esilio e in Tibet, che il progetto di occupazione cinese mira direttamente all'annichilimento della identità culturale del Tibet attraverso una politica di genocidio culturale e il trasferimento di milioni di coloni cinesi sul Tetto del Mondo. Una aggressione demografica massiccia sta riducendo il popolo tibetano a una minoranza sempre più insignificante nel suo stesso Paese, una totale mancanza di libertà politiche, sociali e religiose, la chiusura dei dirigenti di Pechino a qualsivoglia ipotesi di dialogo con il Dalai Lama, mostrano chiaramente quale sia il progetto strategico della Cina per il Tibet: occupazione definitiva del territorio tibetano, sfruttamento di ogni suo patrimonio e confinamento della popolazione in una sorta di riserva indiana dove uomini e donne sempre più privi di ogni speranza dovrebbero fungere unicamente da attrazione per i turisti.

A questa terribile, ma purtroppo assai realistica, prospettiva la comunità dei profughi tibetani in India tenterà nei prossimi mesi ed anni di rispondere. Nonostante disperazione, rabbia e sgomento, ancora una volta la risposta segue i nobili sentieri della non violenza e delle battaglie civili. La comunità internazionale, il Parlamento Europeo, i Parlamenti delle nazioni del cosidetto 'mondo libero', i governi, i partiti e le organizzazioni umanitarie non dovrebbero più lasciare il popolo tibetano solo nella sua difficile battaglia. Le scelte responsabili dei dirigenti tibetani potrebbero divenire un esempio per le lotte di liberazione di tutti i popoli che non vogliono cadere nella trappola della soluzione armata e del fanatismo integralista. Ma con la nostra solidarietà attiva e concreta dobbiamo far sentire al popolo tibetano che partecipiamo realmente al suo dramma e che siamo disposti a metterci effettivamente al suo fianco per aiutarlo in questo che è il momento più difficile di tutta la sua storia m

illenaria. Se la comunità internazionale non lo vorrà fare o non ne sarà capace, ai ragazzi di Dharamsala o di Lhasa non rimarrà altro che la propria solitaria disperazione. Quella solitaria disperazione che conduce sempre a scegliere metodi di lotta politica violenti e suicidi. Dopo aver miseramente fallito nella ex Yugoslavia e in tante altre aree di questo pianeta vogliamo sperare che la parte più sensibile e cosciente dell'opinione pubblica e della comunità internazionale voglia e sappia intervenire per salvare il Paese delle Nevi e la sua gente dal genocidio. Aiutando il Tibet ad ottenere la propria liberazione, attraverso gli strumenti della lotta non violenta, della democrazia e dell'impegno civile, aiuteremo anche noi stessi a non dimenticare che questi valori dovrebbero governare anche le nostre esistenze.

Piero Verni

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