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Conferenza Tibet
Partito Radicale Silvja - 10 gennaio 1995
Lhasa

L'ultimo lembo della capitale del mistero

da Internazionale, 7 gennaio 1995

Jean-Claude Buhrer, Le Monde, 3 dicembre 1994

Dovrebbe essere un sito protetto, ma la capitale del buddismo tibetano sta scomparendo lentamente. Sommersa dal cemento dei nuovi edifici e invasa dai cinesi.

Lhasa, un tempo vibrante centro della spiritualità in alta Asia, sta per diventare una città cinese qualsiasi. Sommersi dall'afflusso dei coloni han, i tibetani sono al massimo un terzo dei circa centocinquantamila abitanti della loro capitale storica. Mentre i limiti dell'agglomerato urbano continuano a estendersi e la presenza militare si fa sempre più pesante, l'area tibetana continua a restringersi. Tanto che alcuni architetti norvegesi, insieme a dei ricercatori francesi e tedeschi, hanno preso l'iniziativa di lanciare una campagna mondiale urgente per salvaguardare quel che ancora rimane della città vecchia di Lhasa [Association Gedun Chompel pour la protection et le développement du patrimoine culturel tibétain: 127, Rue de Sèvres, 75006 Paris].

Gli ultimi bastioni

Ai piedi del Potala, la grande cittadella bianca e rossa di Lhasa, la pittoresca frazione di Shol praticamente non esiste più. Il piccolo villaggio malfamato, in cui il sesto Dalai Lama si divertiva a correre la cavallina, a condividere le canzoni conviviali con le sue guardie e a partecipare ai tornei di tiro con l'arco, scompare dietro a chioschi messi a casaccio, alla bell'e meglio. I suoi ultimi bastioni di pietra, riparati con cura nel corso dei secoli e sormontati dalle ultime coppie di corna di yack, vengono cancellati dal cancro del cemento e della plastica, in un miserabile trompe-l'oeil che dà ai dintorni un tono da villaggio Potemkin.

La mezza dozzina di santuari rannicchiati tra la base della collina e le abitazioni civili è tornata polvere da molto tempo, anche se la memoria rimane e mani devote sanno ancora ornare di fiori i luoghi sconsacrati. E in tutta la capitale del Tibet, un tempo città proibita e misteriosa, il vagabondaggio prende piede sempre più rapidamente.

Anche se l'alone di mistero si è offuscato e la città-sole ormai si scioglie nello stampo riduttivo di un presunto modernismo che si è adattato assai poco alle sue peculiarità geografiche e culturali, arrivare sull'altopiano tibetano rimane un'esperienza avvincente. La profondità del cielo sorprende a ogni momento, e la trasparenza dell'aria conferisce al paesaggio una potenza senza pari. Il percorso dall'aerostazione nuova fiammante - sovradimensionata e dai muri già crepati - fino a Lhasa, in un'ora e mezzo risveglia sensazioni assopite.

Un ponte, dei vessilli da preghiera sui tetti piatti delle frazioni, il canto alternato degli uomini e delle donne che battono le messi, l'autunno dorato negli alberi - i ricordi si ravvivano. Prima dello choc.

Il cemento avanza

Poco dopo la veloce tappa al santuario di Atisha, uno dei pochissimi a essere sfuggito alla tempesta, giusto il tempo di un'occhiata al reliquiario del saggio, lo sguardo trova la grande effige di Budda scolpita nella roccia. Essa segnala che ci si sta avvicinando al limitare della città: il luogo in cui, tradizionalmente, il viaggiatore intravede finalmente il Potala. Sorpresa: l'orizzonte è arretrato, è come velato, malgrado l'implacabile limpidezza dell'atmosfera, una fila di edifici uniformi, grigi e tristi, parallelepipedi di cemento posti sulla nuda terra e traforati da una miriade di finestrelle, fa da schermo alla vista.

L'asfalto si frantuma e, nel roboante andirivieni dei camion traballanti, le immagini si confondono, mentre il minibus costeggia un grande campo militare che si arresta al bordo di un cementificio il quale, per parte sua, è raddoppiato di volume. Una polvere fine imbianca uniformemente i dintorni e, passando, l'occhio distingue soltanto a malapena il grande monastero di Daupung aggrappato alle sue colline. Nel 1988 la celebre università religiosa distava circa 6 chilometri dal centro della città, oggi è accerchiata dai sobborghi.

All'incrocio delle due strade, la gigantesca statua di una coppia di lavoratori nel più puro stile realismo socialista monta un'incongrua guardia, sotto lo sguardo indifferente dei soldati accasciati al bar dell'angolo e sotto gli occhi sbalorditi di un gruppo di pellegrini che scuotono la polvere dai loro abiti.

Il Potala si staglia finalmente sulla collina, subito nascosto da una sfilza di palazzi nuovi lungo l'arteria su cui viaggiano minibus, camion, biciclette e risciò. Dei pannelli con grandi ideogrammi cinesi e piccoli caratteri tibetani indicano direzioni sconosciute. A un altro incrocio, come sorta dall'incudine di un fabbro senz'anima, un'enorme coppia, di yack irsuti e dorati, su un alto basamento, sembra cercare disperatamente una via di fuga.

Casamenti informi, magazzini, rimesse e negozi, senza dimenticare bettole, karaoke e night-club, si succedono senza soluzione di continuità sugli irregolari marciapiedi fino alla grande piazza dello Jokhang, nel cuore della città vecchia. Persino qui, Lhasa è ormai soltanto il pallido riflesso della propria alterità. Davanti al santuario si sfiorano due mondi. I risciò si fermano sul bordo della piazza invasa da venditori ambulanti cinesi e Hui musulmani, che offrono mele, mandarini, frutta secca e minestra di pasta ai passanti.

Vicino al tempio centrale, la folla si fa più fitta ed esclusivamente tibetana. Tutti in ghingheri, con i berretti di pelliccia, e sconvolti dall'evidente emozione di essere lì, nomadi e pellegrini si accalcano sul sagrato, fermandosi soltanto per far girare il pesante mulino da preghiera all'entrata. Davanti al pesante portale, alcuni fedeli ripetono instancabilmente la grande prosternazione tradizionale. Alcuni monaci, nel cortile interno, vegliano su migliaia di lumicini allineati in coppette da burro. Nelle numerose cripte e cappelle, la fiumana dei pellegrini scorre pacificamente.

Sotto stretto controllo

Eppure, quel che si nota subito sono i poliziotti in divisa nei paraggi. Le forze dell'ordine sono in agguato tra venditori e clienti, sotto l'occhio impassibile di varie telecamere installate in bella evidenza sui tetti adiacenti. Basta che tre o quattro tibetani si accalchino un momento attorno a qualcuno che brucia incenso perché spunti un rappresentante dell'ordine: "Circolare, non c'è nulla da vedere!". L'instancabile deambulazione allora ricomincia.

Ma non è esposta nessuna foto del Dalai Lama, c'è appena qualche cliché ingiallito del defunto Panchen Lama o del giovane Karmapa: sono sfuggiti alla vigilanza dei servitori dell'ordine incaricati di una grande opera di pulizia alla fine di settembre, prima del massiccio afflusso dei nomadi e dei contadini, che generalmente raggiungono la loro città santa dopo la mietitura. E' certamente per questa ragione che alcuni, quando vedono uno straniero, colgono l'occasione per avvicinarlo e chiedergli una foto della guida spirituale e temporale in esilio. Un gesto a volte pericoloso per loro se vengono sorpresi a intrattenersi con dei turisti, e anche per il visitatore che in buona fede aderisce alla loro richiesta.

Talvolta, alcune guide ufficiali arrivano fino ad avvertire i gruppi di stranieri, cui fanno da ciceroni, di mostrarsi circospetti nel tale o talaltro santuario. Cosa che, d'altronde, non è priva di conseguenza per i dipendenti completamente sottoposti ai propri datori di lavoro: una circolare inviata di recente a tutte le agenzie turistiche della cosiddetta Regione autonoma del Tibet ordina ai responsabili di licenziare tutti i tibetani che esercitano il mestiere di guida, con il pretesto che molti di loro hanno una formazione scolastica troppo completa o che sono figli di rifugiati educati in India e rientrati nel paese, e che rifiutano di conformarsi alle istruzioni stabilite.

Tra le indicazioni da rispettare rigorosamente: riferire alla direzione dell'agenzia le azioni e i gesti dei turisti, le loro osservazioni sulla situazione locale, se sono in possesso di foto del Dalai Lama o se si fermano per fotografare luoghi giudicati delicati - naturalmente a rischio di sanzioni o misure disciplinari.

Il monastero di Ramocé, nei pressi dello Jokhang, ormai rientra nell'itinerario dei circuiti organizzati. Dieci anni fa, avevamo avuto bisogno di stratagemmi abilissimi per trovare la strada e scoprire al suo interno, tra ragnatele e calcinacci, un gigantesco ritratto di Mao. Un anno dopo, il quadro era sparito e dei falegnami si davano da fare per fabbricare nuovi architravi, mentre alcuni giovani raschiavano pazientemente lo strato di pece nerastra che ricopriva i muri.

Se non per ri suoi fasti, oggi Ramocé ha ritrovato almeno una parte delle sue funzioni religiose. Ma per accedervi sia i tibetani che gli stranieri devono pagare un biglietto d'ingresso. Alcuni vecchi lhasani vedono in questo l'espressione della trasformazione del santuario in museo, e altri arrivano persino a sostenere che, se Ramocé beneficia in questo modo delle attenzioni ufficiali, è per ragioni ben precise. Il santuario, che risale al Settimo secolo, è stato infatti costruito secondo le istruzioni di Wen Cheng, la famosa principessa cinese data in moglie al gran re Song-tsen Gampo al fine di assicurare ai figli del cielo la benevolenza del bellicoso vicino...

Una città accerchiata

In realtà, la tibetana Lhasa ormai è solo un ultimo lembo che poco a poco si restringe. Edifici falsamente moderni si insinuano nei suoi vicoli, elevandosi con insolenza fino a tre o quattro piani, senza il minimo rispetto per la tradizione architettonica locale, secondo cui nessuna costruzione doveva superare in altezza gli edifici religiosi. Sarebbe servito il rumoreggiante scontento della popolazione, unito alla minaccia concreta di disordini, perché fossero risparmiati alcuni piccoli santuari, per esempio quello di Palden Lhamo, la divinità tutelare del Dalai Lama. Ma oggi essi sono fiancheggiati da orrende case popolari o da bazar i cui utenti parlano tutti cinese.

Talvolta si leva qualche voce per lanciare un grido di allarme di fronte a questa esecuzione annunciata, se non altro per cercare di allertare l'opinione pubblica. Così, in un documento rivolto all'Unesco, la signora Heather Stoddard, direttrice degli studi tibetani e professoressa associata all'Istituto di lingue orientali, osserva: "Se non verrà fermato o invertito, nel giro di poco tempo questo afflusso [di coloni cinesi] ridurrà i tibetani a una piccola minoranza priva di importanza sul proprio territorio ancestrale.

Sembrerebbe che il governo cinese stia adottando questa tattica come soluzione finale della difficile questione del Tibet". E aggiunge: "La città di Lhasa è stata fondata nel Settimo secolo, e figura nella lista delle ventiquattro città storiche protette della Cina.

A dispetto del suo particolarissimo status di luogo santo del buddismo tibetano e dell'Asia centrale, si dice che ha bisogno di essere modernizzata. Tuttavia, la distruzione sempre più rapida di edifici perfettamente conservati è allarmante. Alcune carte del Progetto di sviluppo della valle di Lhasa (1980-2000) indicano persino la scomparsa completa della città vecchia nell'anno Duemila, in flagrante contraddizione con il suo status di sito protetto. Dovrebbe essere perfettamente possibile salvaguardare quel che rimane della magnifica tradizione architettonica del Tibet, sviluppando al contempo un nuovo stile estetico adatto a un ambiente di elevata altitudine, invece di sacrificare l'identità tibetana in nome di un modernismo da paccottiglia".

Tesori nascosti

In questo panorama desolante, un improvviso miracolo: piccolo o grande, ma comunque un miracolo, come uno sberleffo silenziosamente complice. Durante il plenilunio dello scorso settembre, quando centinaia di tibetani si accalcavano davanti allo Jokhang per bruciare erbe e incenso come vuole il rituale di purificazione di quel giorno, videro srotolarsi sul tetto del santuario due immensi rotoli di seta ricamata, che facevano parte di una serie di tre e di cui gli specialisti erano d'accordo nel dire che se ne erano perdute le tracce. Uno di essi era apparso durante un'asta qualche mese prima a New York, dove un tale era riuscito ad acquistarlo per un milione di dollari, ma nessuno conosceva la sorte degli altri due.

E tuttavia... Un collezionista francese tanto accorto quanto ostinato conservava nella memoria la brutta copia di una cattiva foto in bianco e nero intravista anni prima in una rivista cinese di archeologia. Appassionato di arte tibetana, costui, debitamente munito di tutte le autorizzazioni concesse da un capo delle antichità locali convinto che l'amatore inseguisse una chimera, vagabondò nei corridoi dello Jokhang, appostandosi e interrogando senza sosta monaci, cantori e artigiani. Fino al momento in cui un vecchio scultore intento alla creazione di immagini sacre non ricordò: la singolare cornice della foto era quella di una vecchia rimessa sprangata in un angolo oscuro nel quale non metteva mai piede nessuno...

Inutile cercare le parole per descrivere la folle corsa e l'agitazione che seguirono l'apertura del locale, la meraviglia della folla sbalordita di fronte a un simile splendore, così come l'emozione dei guardiani e lo stupore dei responsabili accorsi in fretta al santuario.

Quanto al fine segugio all'origine di questo scompiglio, oggi è in possesso delle foto che testimoniano l'evento, mentre i preziosi rotoli, sistemati a dovere, sono ora ben custoditi. Vero è che la tradizione tibetana è ricca di grandi scopritori si "termas", i tesori nascosti che non possono riapparire se non quando è arrivato il momento. Forse in questo bisognerebbe rilevare il segno di una presa di coscienza dell'urgenza di proteggere in modo efficace una cultura minacciata di annientamento, e di recensirne sistematicamente le ricchezze ancora poco note, se non altro per evitare che scompaiano per sempre.

 
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