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Conferenza Tibet
Sisani Marina - 15 marzo 1995
TIBET, PAESE DISPERATO TRA MASSACRI E OBLIO
da L'Informazione, domenica 12 marzo '95, pag. 22

di Giorgio Torchia

Il Dalai Lama é costretto dall'indifferenza mondiale a cercare comunque la via del dialogo con Pechino.

Trentasei anni sono passati da quel marzo del 1959 che vide la disperata rivolta dei tibetani all'occupazione cinese. Un muro di silenzio é sceso sulla tragedia di un popolo che la geografia, un altipiano circondato dai massicci himalayani, sembra aver condannato all'oblio. Con generosità Marco Pannella e il partito radicale hanno organizzato su scala internazionale una settimana di mobilitazione che si é conclusa ieri a che ha avuto il merito di proiettare un po' di luce su una pagina buia della storia contemporanea.

L'Asia non ha ancora beneficiato dello scongelamento determinato dalla fine del comunismo in Europa. La Corea del Nord, il Vietnam ed il Laos (la Cambogia é un caso a parte), con la Cina continuano ad essere retti da regimi comunisti, pur alla ricerca di soluzioni pragmatiche. Il Tibet, considerato un tempo la "Ungheria dell'Asia" non ha così avuto la fortuna toccata al paese europeo. Budapest é oggi libera. Lhasa resta una capitale occupata di un paese oppresso.

Da parte cinese non si colgono segni di un'attenzione di una politica rigida ed intransigente sia sulla questione tibetana che su quella dei diritti umani. Proprio in questi giorni a Ginevra il regime di Pechino, per la prima volta nella storia della Nazioni Unite, si è salvato per un solo voto, (21 contro 20), da una condanna della Commissione dei diritti dell'uomo. Se il problema del dissenso politico viene giudicato dalle autorità cinesi come un'ingerenza negli affari interni del paese da parte di un Occidente che deve farsi perdonare una lunga storia di aggressività nei confronti della Cina, quello tibetano é assolutamente inesistente. La Cina si rifiuta di accettarne la realtà e quindi la possibilità di una soluzione negoziale.

Davanti a questa chiusura ermetica delle autorità cinesi il Dalai Lama, che capeggia il governo in esilio (con sede Dharamsala nel Nord dell'India), sta riconsiderando la strategia da adottare. Grande assertore della nonviolenza, e premio Nobel per la pace, il Dalai Lama si trova davanti al dilemma di come affrontare una situazione che, allo stato delle cose, non presenta alcun ragionevole sbocco. Così la massima autorità religiosa e politica tibetana chiede agli esuli, in centomila lo seguirono dal Tibet nel 1959, ed al popolo segretamente, di pronunciarsi sull'opportunità o meno di proseguire una politica di opposizione pacifica, oppure di adottare una strategia "difensiva". Il che significa, tradotto in termini politici, se si insiste sulla soluzione di piena indipendenza, non resta che combattere, se si accetta una ipotesi autonomista, allora si può cercare il negoziato con Pechino.

Una cosa é certa: i governanti cinesi non sono disponibili ad alcuna trattativa che abbia come base un qualsiasi processo indipendentista del Tibet "storico", oggi spezzato in tre distinte regioni. Il motivo di questa intransigenza non solo é da ricercarsi in argomentazioni di carattere geopolitico, ma anche di generale equilibrio interno. Con il controllo del Tibet, avviato progressivamente nel 1950, ed ultimato in maniera definitiva nove anni dopo, la Cina ha portato i suoi confini sulle valli himalayane che immettono nel subcontinente indiano. Una posizione strategica, che l'Esercito, sempre più condizionante dei giochi di potere a Pechino, non intende abbandonare per nessuna ragione. C'é poi nella classe dirigente cinese l'ossessione per una frantumazione di un tessuto nazionale che, nonostante l'omogeneità Han della maggioranza della popolazione, é continuamente a rischio. Il »Quotidiano del Popolo del 29 novembre scorso denunciava a chiare lettere la minaccia di esplosione dell'unità nazionale. E s

e il discorso prioritariamente era riferito alle spinte autonomistiche delle regioni economiche autonome, specialmente quelle del sud, apparve evidente che il Tibet é in prima linea in una valutazione del genere.

Fu nel 1987, il che avviò un processo esploso poi nel 1989 con i fatti della Tienanmen, che i tibetani effettuarono l'ultimo disperato tentativo di sottrarsi alla dominazione cinese. Più esattamente ad attirare l'attenzione del mondo sul loro destino. Le conseguenze furono altri massacri, altre violenze, un'ulteriore distruzione del patrimonio artistico e religioso nazionale. E poi a partire da questo decennio un massiccio trasferimento di popolazione han, al punto che oggi a Lhasa i cinesi sono maggioritari nei confronti dei tibetani.

Le speranze degli esuli che la fine del comunismo in Europa, e la scomparsa dell'Urss, potessero avere effetti positivi su un'evoluzione in senso democratico del regime di Pechino, sono ormai svanite. Proprio la sorte toccata all'Urss, e quella che minaccia ora la Russia, convince i successori di Deng (il patriarca é ormai uscito di scena), ad assestarsi sull'intransigenza a proposito del Tibet. Né c'é da sperare che da parte del mondo venga molto di più di qualche platonica dichiarazione di condanna.

I paesi asiatici non intendono inimicarsi Pechino e l'Occidente ha in atto, e potenzialmente, enormi interessi economici con la Cina che, in un'epoca di ultraliberismo, non verranno certo compromessi dalla sorte di un popolo sfortunato, dai più ignorato. Da quasi tutti dimenticato.

In questa situazione, lo sforzo del Dali Lama sembra rivolto a cercare con Pechino la via di un dialogo rivolto essenzialmente alla salvaguardia della realtà storico-religiosa ed etnica del Tibet "intero", vista l'impossibilità per ora di lottare per un'indipendenza che non trova il sostegno né dei governi, né dell'opinione pubblica internazionale. E gli sforzi del partito radicale, in definitiva, mirano a favorire questo tentativo del Dali Lama di salvare quel che resta del suo popolo prima che l'etnocidio sia compiuto.

TIBET, PAESE DISPERATO TRA MASSACRI E OBLIO

da L'Informazione, domenica 12 marzo '95, pag. 22

di Giorgio Torchia

 
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