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Conferenza Tibet
Pobbiati Paolo - 26 aprile 1995
Intervista a Palden Gyatso

Intervista a Palden Gyatso, ex-prigioniero di coscienza

adottato da Amnesty International - Milano, 15/3/95

a cura di Paolo Pobbiati

e Piero Verni

Il mio nome e' Palden Gyatso; sono nato a Panam, nel Tibet.

Quando avevo 10 anni sono diventato monaco nel monastero di

Gadrong, a Shigatze, dove sono rimasto sino a 17 anni; poi, sino

al 1959, a 28 anni, sono vissuto nel monastero di Drepung, nel

Tibet centrale. Da allora sono stato in prigione o in campo di

lavoro per trentatre anni, dal 1959 al 1992.

- Quali sono state le circostanze del tuo arresto ?

Nel marzo 1959 scoppio' una rivolta a Lhasa quando i cinesi

cercarono di costringere il Dalai Lama a recarsi con loro.

Ricordo che la citta' era presidiata dai militari cinesi. Io

capitai casualmente a Lhasa in quei giorni. Il Norbulinka era

invece circondato dalla popolazione di Lhasa: uomini, donne,

ragazzi giovani, monaci per impedire che il Dalai Lama venisse

portato via dai cinesi. Partecipai anch'io a questo presidio e la

sera tornai al mio monastero, a Drepung. Era evidente che i

cinesi volevano rendere totale il loro dominio sul Tibet; cosi'

ci preparammo alla resistenza; io fui messo a capo di un gruppo

di cento monaci. Insieme siamo andati a Lhasa e siamo rimasti li'

sino alla sera dell'undici, quando tornammo al monastero. Mentre

io cercavo di portare in salvo, caricandomelo sulle spalle, il

mio maestro Rigzin Jampa, che allora aveva 72 anni, al monastero

di Panam, i cinesi entrarono a Drepung ed arrestarono tutti i

miei compagni; alcuni di loro cercarono di far credere ai cinesi

che io ero morto durante la sollevazione, ma altri dissero che

ero tornato a Panam. I cinesi vennero allora a cercarmi per

arrestarmi.

Mi trovarono: erano due ufficiali e otto soldati; mi accusarono

di aver partecipato alla rivolta e, dopo avermi ammanettato, mi

arrestarono. C'e' un monastero che era stato trasformato in

prigione e io, dopo essere stato picchiato molto duramente, sono

stato portato la'.

- Cosa successe dopo ?

Il giorno successivo mi hanno chiesto perche' avevo partecipato a

questa manifestazione. Io risposi che avevo partecipato perche'

il Tibet appartiene ai Tibetani e non ai Cinesi, e che noi

lottavamo per i nostri diritti. Cosi' mi hanno picchiato ancora.

In tutti i trentatre anni in cui sono stato in carcere o in campo

di lavoro sono stato interrogato per molte volte su questo

argomento, ma io ho continuato a dire che il Tibet appartiene ai

Tibetani. Ogni volta, dato che la risposta non era quella che

volevano, venivo poi torturato. Ho subito vari tipi di tortura;

le prime volte procedevano in questo modo: dopo avermi fatto

spogliare mi ammanettavano mani e piedi dietro alla schiena, mi

appendevano al soffitto e mi picchiavano molto violentemente con

il calcio dei fucili, o con dei bastoni chiodati. Dopo un po' mi

facevano scendere, ma era solo per rifarmi la stessa domanda, e

siccome la risposta non cambiava, mi riappendevano al soffitto;

quindi mi versavano addosso acqua bollente (o gelata, se era

inverno) e accendevano dei fuochi sotto di me. Il dolore era

terribile.

Poi mi dicevano: "Ti diamo tempo per pensarci". Dopo qualche

giorno mi richiamavano e mi rifacevano la stessa domanda: "A chi

appartiene il Tibet ?"; io dicevo che apparteneva ai Tibetani e

loro ricominciavano.Questo e' successo per tutti i ventiquattro

anni che ho passato in prigione: questi episodi si ripetevano, in

alcuni periodi piu' frequentemente (ogni due o tre giorni) e in

altri meno (una o due volte al mese); per me, come per tutti gli

altri prigionieri politici. Ogni volta che venivo torturato

prendevo nota del giorno, dell'ora e del nome dei torturatori.

Molti di questi appunti mi sono stati sequestrati, ma molti altri

li ho tenuti; sapevo che un giorno avrei potuto mostrarli a

qualcuno ...

Queste sono manette; queste piu' grandi sono uguali a quelle che

hanno usato quando mi hanno arrestato; sono fatte in modo di

stringere i polsi del prigioniero e possono fare molto male.

Queste sono piu' piccole; dopo avermi fatto la solita domanda e

sentito la solita risposta me le agganciavano ai pollici,

fissandomi un braccio che passava dall'alto e l'altro dal basso

dietro la schiena. Questa posizione e' gia' di per se molto

dolorosa ma poi cominciavano a picchiarmo su tutto il corpo. Come

cercavo di muovermi i pollici venivano stretti sempre di piu' e

il dolore si faceva insopportabile. Mi e' capitato molte volte di

perdere conoscenza e di non riuscire a trattenere urina e feci.

Le mie spalle sono rovinate e tuttora sono molto limitato nei

movimenti che posso fare con le braccia per colpa di questa

terribile tortura.

- Com'erano le condizioni di prigionia, al di la' della

tortura ?

Terribili. Molti miei amici sono morti a causa della tortura; ma

non solo per questo. Noi prigionieri tibetani venivamo fatti

lavorare nei campi come animali. I cinesi usano un termine

dispregiativo per i tibetani, che significa tibetano-bestia.

Cosi' in prigione dovevamo tirare a gruppi di quattro un aratro

come fossimo degli yak; era un lavoro molto faticoso e il cibo

che i cinesi ci davano era molto scarso: una ciotola di brodo di

verdura molto diluito ogni giorno; se poi eravamo troppo deboli e

non riuscivamo a lavorare venivamo picchiati. Molti morivano in

queste condizioni e molti miei amici si sono suicidati perche'

non ce la facevano piu'. Per sopravvivere cercavamo di rubare il

cibo ai maiali, ma spesso non ci riuscivamo, e dovevamo

accontentarci di insetti o di pezzi di ossa di animali, o anche

umane, che rompevamo in pezzettini che succhiavamo. Io tagliavo

strisce di cuoio dalle mie scarpe, le lasciavo ammorbidire

nell'acqua e poi le mangiavo: mi facevano sentire meno i morsi

della fame. Per fortuna, essendo un monaco, avevo avuto la

possibilita' di studiare e di praticare quelle tecniche che,

quando ero in prigione, mi hanno consentito di alleggerire la

sofferenza. Ma sono molti quelli che non sono sopravvissuti ...

- Come avvenivano le esecuzioni in carcere ?

Ogni anno, quando, durante i mesi invernali, non dovevamo

lavorare nei campi, dovevamo partecipare alle "lezioni d'inverno"

che, in pratica, erano sessioni di "rieducazione". Durante queste

lezioni, venivamo radunati e alcuni di noi subivano un

interrogatorio. A volte, se le risposte non erano quelle che i

cinesi si aspettavano, o se i prigionieri erano accusati di

mancanze disciplinari, o solo se non si erano "corretti" a

sufficienza, queste lezioni spesso si concludevano con la

condanna a morte e l'esecuzione di questi prigionieri. Prima

venivano picchiati ripetutamente e gli veniva fatta firmare una

confessione dei loro "crimini". Poi gli venivano legati addosso

due cartelli uno davanti e uno dietro, con sopra degli ideogrammi

cinesi; non so cosa ci fosse scritto. Ma ad alcuni veniva

tracciata una croce, una croce di colore rosso, e questo

significava che erano condannati a morte. Venivano gettati come

fossero dei sacchi su degli autocarri e portati sul luogo

dell'esecuzione. Ma prima di venire uccisi dovevano ballare

davanti ai loro famigliari e noi tutti che assistevamo eravamo

obbligati a festeggiare come se fossimo contenti. Una umiliazione

terribile e un grande dolore. Poi alla famiglia del condannato

veniva mandata la fattura con il costo dei proiettili da pagare e

delle altre spese per l'esecuzione.

Molti fanno fatica a credere a questa testimonianza, tanto e'

terribile, ma e' tutto vero: io lo posso dire perche' l'ho visto

con i miei occhi; non dico bugie. E' successo veramente. E questo

succede ancora, succede ancora oggi. Tutti i prigionieri tibetani

conoscono bene queste "lezioni".

- Perche' i cinesi non ti hanno ucciso ?

Penso che la ragione sia perche' e' aumentata la pressione

internazionale. Anche tu hai contribuito a crearla, del resto.

Sino agli anni '70 era molto facile essere uccisi, ma dopo la

pressione internazionale ha contribuito a far diminuire di molto

le esecuzioni in carcere.

- Una volta hai tentato di scappare ...

Si; nel 1962 io ed alcuni amici, siamo riusciti a fuggire dalla

prigione e a raggiungere il confine con l'India dove, purtroppo,

ci hanno ripreso. Per punizione mi hanno ammanettato con le mani

dietro alla schiena e mi hanno lasciato appeso al soffitto per

due giorni. Quando mi hanno tirato giu' mi hanno lasciato le

manette con le mani dietro allla schiena e mi hanno incatenato

anche le caviglie. Era il 13 ottobre del 1962. Mi hanno lasciato

cosi' sino al 15 di febbraio 1964. Avevo bisogno di aiuto per

mangiare, per andare in bagno o per qualsiasi altra cosa; tutto

questo per due anni e mezzo. Inoltre mi hanno dato altri otto

anni oltre ai sette a cui ero gia' stato condannato.

- Cosa e' successo quando hai finito di scontare la pena ?

Nel 1975, scontata la pena, sono stato inviato a un campo di

lavoro a Nyethang; le condizioni non erano molto migliori che in

prigione: eravamo sempre ai limiti della sopravvivenza ed era

facile cadere preda della disperazione; 28 miei amici si sono

tolti la vita in quel luogo negli anni in cui sono stato li'..

Pero' avevamo un po' piu' di liberta' di movimento, cosi' a volte

andavo di notte a Lhasa ad affiggere dei manifesti in cui si

chiedeva l'indipendenza del Tibet. Cosi' sono stato arrestato per

la seconda volta, nel 1983. Dato che, alle loro domande, io

rispondevo sempre la stessa cosa, ho continuato a subire lo

stesso trattamento, ma ero oramai diventato quasi insensibile; i

cinesi pero' cominciarono ad usare questi altri attrezzi: i

bastoni elettrici; alcuni di questi bastoni generano un calore

molto intenso, altri invece danno una forte scossa. Ce ne sono di

piccoli, lunghi circa 30 cm., ma ne esistono di lunghezze

differenti, sino ad un metro. Quando ero in Inghilterra, durante

una conferenza, un signore mi ha detto che alcuni tipi di bastoni

che stavo mostrando sono prodotti li' e vengono venduti ai

cinesi. Mi ha chiesto scusa per questo, ma io credo che non

vengano prodotti per torturare. Hanno due pulsanti: se viene

schiacciato quello che corrisponde alla potenza massima, il

dolore e' cosi' forte da far svenire subito una persona; se usato

per alcuni minuti, possono anche ucciderla. Se viene usato a

potenza ridotta, genera un calore che fa molto, molto male.

Questi bastoni non vengono usati solo durante gli interrogatori,

ma i poliziotti li usano anche come sfollagente: basta che un

prigioniero non si comporti bene o che non stia in fila che viene

subito brutalmente percosso con questi. Ma il loro utilizzo piu'

bestiale e' nei confronti delle donne. Io conosco delle monache

che ora sono scappate a Dharamsala che, dopo essere state

stuprate dalle guardie, sono state violentate anche con questi

bastoni. Ora il loro apparato genitale e' completamente distrutto

e anche le vie urinarie sono gravemente danneggiate. Sono molte

le monache e le ragazze laiche che hanno subito questo

trattamento. Su di me sono stati usati diverse volte: il 13

ottobre del 1990 mi chiesero se volevo ancora l'indipendenza; io

non risposi e mi diedero diversi colpi sulla bocca con un bastone

come questo. Ho subito perso due o tre denti; poi l'hanno usato

su tutto il mio corpo e ancora sulla bocca e io ho perso

conoscenza per il dolore. Dopo qualche ora, quando mi sono

ripreso, mi sono ritrovato questo bastone elettrico in bocca; ero

pieno di sangue e vomito e mi ero urinato addosso. Sentivo la

lingua bruciare e ho cominciato a sputare i denti. Nel giro di

qualche giorno li ho persi tutti; la lingua era ustionata. Per

quasi sei mesi non ho potuto ingerire cibi solidi e anche oggi

non posso sentire piu' alcun sapore se non e' fortissimo, solo

molto dolce o molto amaro.

- Cosa sono questi altri attrezzi ?

Questi sono coltelli in dotazione ai militari; vengono usati

durante le manifestazioni; il primo e' un coltello normale; la

sua lama viene cosparsa di una sostanza tossica, in modo che le

ferite provocate siano molto dolorose e che guariscano con piu'

difficolta'. L'altro e' un coltello con una lama a dente di sega,

in modo che, oltre a ferire, quando viene estratto, strappi

brandelli di carne alla vittima. Io non ho mai provato l'effetto

di questi coltelli su di me, ma ho provato tutti gli altri

strumenti di tortura che ho portato con me in Europa. E il mio

corpo e' pieno di segni e di cicatrici provocate da questi

attrezzi.

- Eri a conoscenza dell'attivita' che Amnesty svolgeva sul tuo

caso ?

Un giorno, nel 1987, sono stato chiamato. Ero molto preoccupato

perche' non sapevo cosa volessero da me; mi hanno fatto salire su

di una macchina e mi hanno portato in un ufficio. C'erano alcune

autorita' cinesi, qualche ufficiale e alcuni militari; erano

stranamente gentili e sorridenti. Ero molto stupito di questo

insolito atteggiamento. Mi hanno chiesto se mi trovavo bene, se

avevo problemi di salute, se il cibo era buono. Io risposi che

non mi trovavo bene e che il cibo era scarso e cattivo; mi

dissero che non potevano fare niente per me, ma che la situazione

sarebbe presto migliorata, e che riguardassi la mia salute.

Rientrato in carcere, sia io che i miei compagni non riuscivamo a

spiegarci tutte queste gentilezze. Un secondino tibetano mi disse

che qualcuno di importante si era probabilmente interessato di

me, e che forse stavano per liberarmi, ma poi venne fuori che

c'erano dei gruppi in Europa, i "Liberatori dei Prigionieri

Tibetani", che si stavano occupando di noi. Solo dopo la mia fuga

in India avrei saputo che si trattava di Amnesty International e

che delle persone in Italia si erano occupate del mio caso.

Quando l'attivita' era piu' forte, i cinesi miglioravano di un

poco le nostre condizioni. Percio' io devo ringraziare Amnesty

International per quello che ha fatto per me e per avermi

invitato qui in occidente a testimoniare la mia esperienza nelle

carceri cinesi. Quindi voglio chiedere a tutti coloro che si

occupano di diritti umani in Tibet di continuare a lavorare

perche' in Tibet possano terminare queste gravi violazioni.

- Cosa e' successo dopo la tua liberazione ?

Sono stato liberato il 25 agosto 1992: in effetti avevo scontato

la mia pena, ma credo che la pressione di Amnesty International

sia stato un elemento determinante; e' probabile che non mi

avrebbero lasciato andare, altrimenti. Dopo 13 giorni, il 7 di

settembre sono scappato verso il confine nepalese con una

macchina; avevo acquistato da una guardia cinese corrotta gli

attrezzi di tortura, perche' ero determinato a mostrare al mondo

cosa sta succedendo in Tibet. Ho dovuto stare alcuni giorni

vicino al confine perche' la strada era bloccata per il brutto

tempo. Nel frattempo era arrivata la notizia che ero scappato e i

cinesi mi stavano cercando. Mi sono nascosto e, dopo dieci

giorni, un nepalese mi ha fatto accompagnare da due suoi

portatori con cui ho camminato per due giorni nei boschi sino in

Nepal, dove il nepalese ci aspettava con due moto. Ogni volta che

c'era un posto di blocco scendevo e passavo a piedi fuori dalla

strada, sino a quando non siamo arrivati a Katmandu. Dopo due

giorni sono poi fuggito anche da li', perche' avevo sentito che

una ragazza tibetana che era scappata in Nepal era stata

arrestata e reimpatriata qualche giorno prima, e avevo paura che

la stessa cosa sarebbe potuta capitare anche a me. Cosi' sono

partito subito per Dharamsala, dove sono arrivato il 30

settembre.

- Cosa provi per i tuoi carnefici ?

Non ho nessun sentimento di vendetta nei confronti delle guardie

cinesi; io so che loro ubbidiscono agli ordini. Io lo capisco.

Non ce l'ho nemmeno con il popolo cinese, perche' anche lui

patisce.Chiedo pero' che il governo cinese smetta questa

repressione, e vorrei proprio chiedere ai governanti cinesi se

non si vergognano a fare queste cose che non succedono in nessun

altro paese del mondo.

Io so di essere molto fortunato ad essere uscito di prigione e a

scappare. Ho anche avuto la fortuna di incontrare il Dalai Lama.

Ora sono in Occidente per raccontare la mia esperienza, che non

e' solo mia, ma anche di molti miei compagni, che sono ancora in

prigione e subiscono ancora quello che vi ho raccontato. Alcuni

di loro sono ridotti cosi' male da non poter nemmeno alzarsi e

camminare. Io sono qui per chiedere a tutti i gruppi che lavorano

per il Tibet e ad Amnesty International, che lotta per i diritti

umani in tutto il mondo, di continuare a lavorare per la

liberazione di questi prigionieri dalle carceri cinesi. Questa

mattina sono stato in Duomo; non per visitarlo, ma per pregare;

io credo che ci siano molti punti in comune tra Buddismo e

Cristianesimo: sia Cristo che il Buddha sono venuti sulla terra

per liberarci dalla sofferenza: Cristo e' addirittura morto per

questo. Io sono molto grato ad Amnesty International, e in

particolare alla sezione italiana, perche' e' grazie a voi che io

sono ancora vivo: voi proseguite l'opera di Cristo e di Buddha,

perche' lottate per liberare gli altri dalla sofferenza; voi fate

delle buone azioni, e sono le buone azioni che conducono alla

felicita'. Ora io sto bene, ma non posso fare a meno di pensare,

ogni volta che mangio, a tutti i miei compagni che sono ancora in

carcere e che non hanno da mangiare a sufficienza, e mi viene

sempre da piangere quando penso che devono ancora subire i

maltrattamenti e le torture che vi ho descritto prima e che mi

costa cosi' tanto ricordare. Quindi vi prego di non abbandonare

queste persone che hanno molto bisogno del vostro aiuto.

*---- Amira V1.00 ----* - NR

 
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