Intervista a Palden Gyatso, ex-prigioniero di coscienza
adottato da Amnesty International - Milano, 15/3/95
a cura di Paolo Pobbiati
e Piero Verni
Il mio nome e' Palden Gyatso; sono nato a Panam, nel Tibet.
Quando avevo 10 anni sono diventato monaco nel monastero di
Gadrong, a Shigatze, dove sono rimasto sino a 17 anni; poi, sino
al 1959, a 28 anni, sono vissuto nel monastero di Drepung, nel
Tibet centrale. Da allora sono stato in prigione o in campo di
lavoro per trentatre anni, dal 1959 al 1992.
- Quali sono state le circostanze del tuo arresto ?
Nel marzo 1959 scoppio' una rivolta a Lhasa quando i cinesi
cercarono di costringere il Dalai Lama a recarsi con loro.
Ricordo che la citta' era presidiata dai militari cinesi. Io
capitai casualmente a Lhasa in quei giorni. Il Norbulinka era
invece circondato dalla popolazione di Lhasa: uomini, donne,
ragazzi giovani, monaci per impedire che il Dalai Lama venisse
portato via dai cinesi. Partecipai anch'io a questo presidio e la
sera tornai al mio monastero, a Drepung. Era evidente che i
cinesi volevano rendere totale il loro dominio sul Tibet; cosi'
ci preparammo alla resistenza; io fui messo a capo di un gruppo
di cento monaci. Insieme siamo andati a Lhasa e siamo rimasti li'
sino alla sera dell'undici, quando tornammo al monastero. Mentre
io cercavo di portare in salvo, caricandomelo sulle spalle, il
mio maestro Rigzin Jampa, che allora aveva 72 anni, al monastero
di Panam, i cinesi entrarono a Drepung ed arrestarono tutti i
miei compagni; alcuni di loro cercarono di far credere ai cinesi
che io ero morto durante la sollevazione, ma altri dissero che
ero tornato a Panam. I cinesi vennero allora a cercarmi per
arrestarmi.
Mi trovarono: erano due ufficiali e otto soldati; mi accusarono
di aver partecipato alla rivolta e, dopo avermi ammanettato, mi
arrestarono. C'e' un monastero che era stato trasformato in
prigione e io, dopo essere stato picchiato molto duramente, sono
stato portato la'.
- Cosa successe dopo ?
Il giorno successivo mi hanno chiesto perche' avevo partecipato a
questa manifestazione. Io risposi che avevo partecipato perche'
il Tibet appartiene ai Tibetani e non ai Cinesi, e che noi
lottavamo per i nostri diritti. Cosi' mi hanno picchiato ancora.
In tutti i trentatre anni in cui sono stato in carcere o in campo
di lavoro sono stato interrogato per molte volte su questo
argomento, ma io ho continuato a dire che il Tibet appartiene ai
Tibetani. Ogni volta, dato che la risposta non era quella che
volevano, venivo poi torturato. Ho subito vari tipi di tortura;
le prime volte procedevano in questo modo: dopo avermi fatto
spogliare mi ammanettavano mani e piedi dietro alla schiena, mi
appendevano al soffitto e mi picchiavano molto violentemente con
il calcio dei fucili, o con dei bastoni chiodati. Dopo un po' mi
facevano scendere, ma era solo per rifarmi la stessa domanda, e
siccome la risposta non cambiava, mi riappendevano al soffitto;
quindi mi versavano addosso acqua bollente (o gelata, se era
inverno) e accendevano dei fuochi sotto di me. Il dolore era
terribile.
Poi mi dicevano: "Ti diamo tempo per pensarci". Dopo qualche
giorno mi richiamavano e mi rifacevano la stessa domanda: "A chi
appartiene il Tibet ?"; io dicevo che apparteneva ai Tibetani e
loro ricominciavano.Questo e' successo per tutti i ventiquattro
anni che ho passato in prigione: questi episodi si ripetevano, in
alcuni periodi piu' frequentemente (ogni due o tre giorni) e in
altri meno (una o due volte al mese); per me, come per tutti gli
altri prigionieri politici. Ogni volta che venivo torturato
prendevo nota del giorno, dell'ora e del nome dei torturatori.
Molti di questi appunti mi sono stati sequestrati, ma molti altri
li ho tenuti; sapevo che un giorno avrei potuto mostrarli a
qualcuno ...
Queste sono manette; queste piu' grandi sono uguali a quelle che
hanno usato quando mi hanno arrestato; sono fatte in modo di
stringere i polsi del prigioniero e possono fare molto male.
Queste sono piu' piccole; dopo avermi fatto la solita domanda e
sentito la solita risposta me le agganciavano ai pollici,
fissandomi un braccio che passava dall'alto e l'altro dal basso
dietro la schiena. Questa posizione e' gia' di per se molto
dolorosa ma poi cominciavano a picchiarmo su tutto il corpo. Come
cercavo di muovermi i pollici venivano stretti sempre di piu' e
il dolore si faceva insopportabile. Mi e' capitato molte volte di
perdere conoscenza e di non riuscire a trattenere urina e feci.
Le mie spalle sono rovinate e tuttora sono molto limitato nei
movimenti che posso fare con le braccia per colpa di questa
terribile tortura.
- Com'erano le condizioni di prigionia, al di la' della
tortura ?
Terribili. Molti miei amici sono morti a causa della tortura; ma
non solo per questo. Noi prigionieri tibetani venivamo fatti
lavorare nei campi come animali. I cinesi usano un termine
dispregiativo per i tibetani, che significa tibetano-bestia.
Cosi' in prigione dovevamo tirare a gruppi di quattro un aratro
come fossimo degli yak; era un lavoro molto faticoso e il cibo
che i cinesi ci davano era molto scarso: una ciotola di brodo di
verdura molto diluito ogni giorno; se poi eravamo troppo deboli e
non riuscivamo a lavorare venivamo picchiati. Molti morivano in
queste condizioni e molti miei amici si sono suicidati perche'
non ce la facevano piu'. Per sopravvivere cercavamo di rubare il
cibo ai maiali, ma spesso non ci riuscivamo, e dovevamo
accontentarci di insetti o di pezzi di ossa di animali, o anche
umane, che rompevamo in pezzettini che succhiavamo. Io tagliavo
strisce di cuoio dalle mie scarpe, le lasciavo ammorbidire
nell'acqua e poi le mangiavo: mi facevano sentire meno i morsi
della fame. Per fortuna, essendo un monaco, avevo avuto la
possibilita' di studiare e di praticare quelle tecniche che,
quando ero in prigione, mi hanno consentito di alleggerire la
sofferenza. Ma sono molti quelli che non sono sopravvissuti ...
- Come avvenivano le esecuzioni in carcere ?
Ogni anno, quando, durante i mesi invernali, non dovevamo
lavorare nei campi, dovevamo partecipare alle "lezioni d'inverno"
che, in pratica, erano sessioni di "rieducazione". Durante queste
lezioni, venivamo radunati e alcuni di noi subivano un
interrogatorio. A volte, se le risposte non erano quelle che i
cinesi si aspettavano, o se i prigionieri erano accusati di
mancanze disciplinari, o solo se non si erano "corretti" a
sufficienza, queste lezioni spesso si concludevano con la
condanna a morte e l'esecuzione di questi prigionieri. Prima
venivano picchiati ripetutamente e gli veniva fatta firmare una
confessione dei loro "crimini". Poi gli venivano legati addosso
due cartelli uno davanti e uno dietro, con sopra degli ideogrammi
cinesi; non so cosa ci fosse scritto. Ma ad alcuni veniva
tracciata una croce, una croce di colore rosso, e questo
significava che erano condannati a morte. Venivano gettati come
fossero dei sacchi su degli autocarri e portati sul luogo
dell'esecuzione. Ma prima di venire uccisi dovevano ballare
davanti ai loro famigliari e noi tutti che assistevamo eravamo
obbligati a festeggiare come se fossimo contenti. Una umiliazione
terribile e un grande dolore. Poi alla famiglia del condannato
veniva mandata la fattura con il costo dei proiettili da pagare e
delle altre spese per l'esecuzione.
Molti fanno fatica a credere a questa testimonianza, tanto e'
terribile, ma e' tutto vero: io lo posso dire perche' l'ho visto
con i miei occhi; non dico bugie. E' successo veramente. E questo
succede ancora, succede ancora oggi. Tutti i prigionieri tibetani
conoscono bene queste "lezioni".
- Perche' i cinesi non ti hanno ucciso ?
Penso che la ragione sia perche' e' aumentata la pressione
internazionale. Anche tu hai contribuito a crearla, del resto.
Sino agli anni '70 era molto facile essere uccisi, ma dopo la
pressione internazionale ha contribuito a far diminuire di molto
le esecuzioni in carcere.
- Una volta hai tentato di scappare ...
Si; nel 1962 io ed alcuni amici, siamo riusciti a fuggire dalla
prigione e a raggiungere il confine con l'India dove, purtroppo,
ci hanno ripreso. Per punizione mi hanno ammanettato con le mani
dietro alla schiena e mi hanno lasciato appeso al soffitto per
due giorni. Quando mi hanno tirato giu' mi hanno lasciato le
manette con le mani dietro allla schiena e mi hanno incatenato
anche le caviglie. Era il 13 ottobre del 1962. Mi hanno lasciato
cosi' sino al 15 di febbraio 1964. Avevo bisogno di aiuto per
mangiare, per andare in bagno o per qualsiasi altra cosa; tutto
questo per due anni e mezzo. Inoltre mi hanno dato altri otto
anni oltre ai sette a cui ero gia' stato condannato.
- Cosa e' successo quando hai finito di scontare la pena ?
Nel 1975, scontata la pena, sono stato inviato a un campo di
lavoro a Nyethang; le condizioni non erano molto migliori che in
prigione: eravamo sempre ai limiti della sopravvivenza ed era
facile cadere preda della disperazione; 28 miei amici si sono
tolti la vita in quel luogo negli anni in cui sono stato li'..
Pero' avevamo un po' piu' di liberta' di movimento, cosi' a volte
andavo di notte a Lhasa ad affiggere dei manifesti in cui si
chiedeva l'indipendenza del Tibet. Cosi' sono stato arrestato per
la seconda volta, nel 1983. Dato che, alle loro domande, io
rispondevo sempre la stessa cosa, ho continuato a subire lo
stesso trattamento, ma ero oramai diventato quasi insensibile; i
cinesi pero' cominciarono ad usare questi altri attrezzi: i
bastoni elettrici; alcuni di questi bastoni generano un calore
molto intenso, altri invece danno una forte scossa. Ce ne sono di
piccoli, lunghi circa 30 cm., ma ne esistono di lunghezze
differenti, sino ad un metro. Quando ero in Inghilterra, durante
una conferenza, un signore mi ha detto che alcuni tipi di bastoni
che stavo mostrando sono prodotti li' e vengono venduti ai
cinesi. Mi ha chiesto scusa per questo, ma io credo che non
vengano prodotti per torturare. Hanno due pulsanti: se viene
schiacciato quello che corrisponde alla potenza massima, il
dolore e' cosi' forte da far svenire subito una persona; se usato
per alcuni minuti, possono anche ucciderla. Se viene usato a
potenza ridotta, genera un calore che fa molto, molto male.
Questi bastoni non vengono usati solo durante gli interrogatori,
ma i poliziotti li usano anche come sfollagente: basta che un
prigioniero non si comporti bene o che non stia in fila che viene
subito brutalmente percosso con questi. Ma il loro utilizzo piu'
bestiale e' nei confronti delle donne. Io conosco delle monache
che ora sono scappate a Dharamsala che, dopo essere state
stuprate dalle guardie, sono state violentate anche con questi
bastoni. Ora il loro apparato genitale e' completamente distrutto
e anche le vie urinarie sono gravemente danneggiate. Sono molte
le monache e le ragazze laiche che hanno subito questo
trattamento. Su di me sono stati usati diverse volte: il 13
ottobre del 1990 mi chiesero se volevo ancora l'indipendenza; io
non risposi e mi diedero diversi colpi sulla bocca con un bastone
come questo. Ho subito perso due o tre denti; poi l'hanno usato
su tutto il mio corpo e ancora sulla bocca e io ho perso
conoscenza per il dolore. Dopo qualche ora, quando mi sono
ripreso, mi sono ritrovato questo bastone elettrico in bocca; ero
pieno di sangue e vomito e mi ero urinato addosso. Sentivo la
lingua bruciare e ho cominciato a sputare i denti. Nel giro di
qualche giorno li ho persi tutti; la lingua era ustionata. Per
quasi sei mesi non ho potuto ingerire cibi solidi e anche oggi
non posso sentire piu' alcun sapore se non e' fortissimo, solo
molto dolce o molto amaro.
- Cosa sono questi altri attrezzi ?
Questi sono coltelli in dotazione ai militari; vengono usati
durante le manifestazioni; il primo e' un coltello normale; la
sua lama viene cosparsa di una sostanza tossica, in modo che le
ferite provocate siano molto dolorose e che guariscano con piu'
difficolta'. L'altro e' un coltello con una lama a dente di sega,
in modo che, oltre a ferire, quando viene estratto, strappi
brandelli di carne alla vittima. Io non ho mai provato l'effetto
di questi coltelli su di me, ma ho provato tutti gli altri
strumenti di tortura che ho portato con me in Europa. E il mio
corpo e' pieno di segni e di cicatrici provocate da questi
attrezzi.
- Eri a conoscenza dell'attivita' che Amnesty svolgeva sul tuo
caso ?
Un giorno, nel 1987, sono stato chiamato. Ero molto preoccupato
perche' non sapevo cosa volessero da me; mi hanno fatto salire su
di una macchina e mi hanno portato in un ufficio. C'erano alcune
autorita' cinesi, qualche ufficiale e alcuni militari; erano
stranamente gentili e sorridenti. Ero molto stupito di questo
insolito atteggiamento. Mi hanno chiesto se mi trovavo bene, se
avevo problemi di salute, se il cibo era buono. Io risposi che
non mi trovavo bene e che il cibo era scarso e cattivo; mi
dissero che non potevano fare niente per me, ma che la situazione
sarebbe presto migliorata, e che riguardassi la mia salute.
Rientrato in carcere, sia io che i miei compagni non riuscivamo a
spiegarci tutte queste gentilezze. Un secondino tibetano mi disse
che qualcuno di importante si era probabilmente interessato di
me, e che forse stavano per liberarmi, ma poi venne fuori che
c'erano dei gruppi in Europa, i "Liberatori dei Prigionieri
Tibetani", che si stavano occupando di noi. Solo dopo la mia fuga
in India avrei saputo che si trattava di Amnesty International e
che delle persone in Italia si erano occupate del mio caso.
Quando l'attivita' era piu' forte, i cinesi miglioravano di un
poco le nostre condizioni. Percio' io devo ringraziare Amnesty
International per quello che ha fatto per me e per avermi
invitato qui in occidente a testimoniare la mia esperienza nelle
carceri cinesi. Quindi voglio chiedere a tutti coloro che si
occupano di diritti umani in Tibet di continuare a lavorare
perche' in Tibet possano terminare queste gravi violazioni.
- Cosa e' successo dopo la tua liberazione ?
Sono stato liberato il 25 agosto 1992: in effetti avevo scontato
la mia pena, ma credo che la pressione di Amnesty International
sia stato un elemento determinante; e' probabile che non mi
avrebbero lasciato andare, altrimenti. Dopo 13 giorni, il 7 di
settembre sono scappato verso il confine nepalese con una
macchina; avevo acquistato da una guardia cinese corrotta gli
attrezzi di tortura, perche' ero determinato a mostrare al mondo
cosa sta succedendo in Tibet. Ho dovuto stare alcuni giorni
vicino al confine perche' la strada era bloccata per il brutto
tempo. Nel frattempo era arrivata la notizia che ero scappato e i
cinesi mi stavano cercando. Mi sono nascosto e, dopo dieci
giorni, un nepalese mi ha fatto accompagnare da due suoi
portatori con cui ho camminato per due giorni nei boschi sino in
Nepal, dove il nepalese ci aspettava con due moto. Ogni volta che
c'era un posto di blocco scendevo e passavo a piedi fuori dalla
strada, sino a quando non siamo arrivati a Katmandu. Dopo due
giorni sono poi fuggito anche da li', perche' avevo sentito che
una ragazza tibetana che era scappata in Nepal era stata
arrestata e reimpatriata qualche giorno prima, e avevo paura che
la stessa cosa sarebbe potuta capitare anche a me. Cosi' sono
partito subito per Dharamsala, dove sono arrivato il 30
settembre.
- Cosa provi per i tuoi carnefici ?
Non ho nessun sentimento di vendetta nei confronti delle guardie
cinesi; io so che loro ubbidiscono agli ordini. Io lo capisco.
Non ce l'ho nemmeno con il popolo cinese, perche' anche lui
patisce.Chiedo pero' che il governo cinese smetta questa
repressione, e vorrei proprio chiedere ai governanti cinesi se
non si vergognano a fare queste cose che non succedono in nessun
altro paese del mondo.
Io so di essere molto fortunato ad essere uscito di prigione e a
scappare. Ho anche avuto la fortuna di incontrare il Dalai Lama.
Ora sono in Occidente per raccontare la mia esperienza, che non
e' solo mia, ma anche di molti miei compagni, che sono ancora in
prigione e subiscono ancora quello che vi ho raccontato. Alcuni
di loro sono ridotti cosi' male da non poter nemmeno alzarsi e
camminare. Io sono qui per chiedere a tutti i gruppi che lavorano
per il Tibet e ad Amnesty International, che lotta per i diritti
umani in tutto il mondo, di continuare a lavorare per la
liberazione di questi prigionieri dalle carceri cinesi. Questa
mattina sono stato in Duomo; non per visitarlo, ma per pregare;
io credo che ci siano molti punti in comune tra Buddismo e
Cristianesimo: sia Cristo che il Buddha sono venuti sulla terra
per liberarci dalla sofferenza: Cristo e' addirittura morto per
questo. Io sono molto grato ad Amnesty International, e in
particolare alla sezione italiana, perche' e' grazie a voi che io
sono ancora vivo: voi proseguite l'opera di Cristo e di Buddha,
perche' lottate per liberare gli altri dalla sofferenza; voi fate
delle buone azioni, e sono le buone azioni che conducono alla
felicita'. Ora io sto bene, ma non posso fare a meno di pensare,
ogni volta che mangio, a tutti i miei compagni che sono ancora in
carcere e che non hanno da mangiare a sufficienza, e mi viene
sempre da piangere quando penso che devono ancora subire i
maltrattamenti e le torture che vi ho descritto prima e che mi
costa cosi' tanto ricordare. Quindi vi prego di non abbandonare
queste persone che hanno molto bisogno del vostro aiuto.
*---- Amira V1.00 ----* - NR