da Il Sole-24 ore, 4 giugno '95, pag.5
di Michele Calcaterra
Nell'anniversario della strage di Piazza Tienanmen, si moltiplicano in Cina i segnali di apertura.
Nel sesto anniversario della strage di Piazza Tienanmen c'è chi parla di una "nuova primavera" e chi invece, più cauto, smorza i recenti segnali di cambiamento in direzione di una maggiore libertà dell'individuo o almeno di una certa tolleranza. Fatto sta che mai come in questa occasione la data del 4 giugno è stata oggetto di tanto interesse da parte della comunità internazionale e dei media. Sta, quindi, la Cina realmente voltando pagina?
In effetti le recenti petizioni (si dice una decina) firmate da oltre un centinaio di persone di ogni grado e ceto sociale (spiccano fra gli altri i nomi del padre dell'atomica cinese, Wang Ganchang, e del fisico Xu Liangying) e indirizzate al numero uno del Governo, Jiang Zemin, e al numero tre, Qiao Shi (e, fatto rilevante, non al numero due, Li Peng, considerato il principale responsabile del massacro dell'89), nelle quali si chiede sostanzialmente che non vengano più ritenuti elementi ostili coloro che manifestano opinioni proprie, sarebbero dei segnali concreti e positivi del cambiamento in atto in Cina.
Non si tratta ovviamente di un rovesciamento di 180 gradi rispetto al passato, perché le repressioni e gli arresti sono continuati nei confronti dei dissidenti, così come sono stati rafforzati i controlli nelle università e il presidio di Piazza Tienanmen, proprio con l'avvicinarsi della scadenza del 4 giugno (come era del resto avvenuto negli scorsi anni). Ma il cambiamento di atteggiamento da parte delle autorità di Governo, quello sì, è stato avvertito. Almeno così ci è stato riferito da alcuni residenti esteri che hanno tenuto a precisare come la situazione, ieri a Pechino, fosse di totale calma.
Si respira, in altri termini, un'aria diversa, forse più accomodante se non proprio di apertura. E' evidente che nell'attuale situazione, con il vecchio leader Deng ormai uscito dalla scena e gravemente malato, nessuno intende compiere delle scelte nette, delle mosse azzardate o premature, ben sapendo che il futuro è quanto mai incerto e i "giochi" per il controllo del Paese e del potere ancora in alto mare.
La Cina rimane un Paese difficile, dalle mille sfaccettature, in cui tutto è anche il contrario di tutto. La lotta contro la corruzione, le riforme, l'economia che corre, ma anche i problemi riguardanti i diritti umani, la proprietà intellettuale, la sovranità su Taiwan e sulle isole Spratlys. E ancora, un Paese nel quale la "casta" militare e il settore difesa conservano un ruolo di predominio, ma anche una nazione che si è permessa recentemente di uscire dai rigidi schemi del passato esprimendo, con un buon numero di voti contrari, la propria delusione per la nomina di due importanti figure del nuovo establishment politico. Una nebulosa, quindi, che si sta evolvendo e che si sta preparando al dopo-Deng, non senza una profonda crisi di identità interiore e, anche, sociale.
In discussione, almeno per il momento, non c'è di certo l'unità nazionale, anche se sarà necessario qualche aggiustamento per mantenere sotto controllo la crescente voglia di indipendenza delle sue numerose province. Così come in un futuro, ormai prossimo, sarà necessario affrontare i crescenti problemi sociali esistenti e in particolare la forte sperequazione tra i centri industriali "ricchi" e le aree agricole "povere". Problemi che l'attuale vertice conosce bene e che cerca di gestire al meglio per evitare il nascere di pericolose sommosse destabilizzanti della pace sociale.
In questo quadro il ruolo dell'esercito rimane centrale, legato a logiche del passato, ma necessario per mantenere sotto stretto controllo la situazione e quindi il periodo di naturale instabilità che seguirà la morte di Deng. Per questo le spese militari crescono e così gli esperimenti nucleari. Ed è, anche, in questa logica che si deve valutare la presenza "forte" della Cina in situazioni delicate quali quelle relative alle Spratlys e a Taiwan. Così come nella stessa logica rientra il problema, stringente, legato alla repressione della libertà e quello relativo ai diritti umani.
Per tenere unita una popolazione di 1,2 miliardi di persone nel momento in cui il Paese sta compiendo una scelta per il passaggio da un'economia pianificata a una di mercato, le logiche occidentali non sempre sono applicabili e accettabili. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti, che tutti gli anni si irrigidiscono sul problema dei diritti umani e puntualmente ogni anno confermano alla Cina lo "status" di nazione privilegiata.
Trattare con Pechino é un gioco sottile di diplomazia nel quale bisogna saper concedere, con misura, ma essere altrettanto fermi. Accettando le frequento ondate di riflusso verso i vecchi schemi e dando, dall'altro, il giusto peso agli sforzi che il Paese sta compiendo in direzione di una maggiore libertà individuale, pur in una logica di sostanziale mantenimento dei valori del collettivismo.
Il fatto che, quest'anno, siano state presentate delle "lettere aperte" che chiedono una maggiore libertà dell'espressione dell'individuo e una revisione dei fatti del recente passato è sicuramente un segnale importante di un cambiamento di atteggiamento da parte della popolazione e dello stesso Governo che le ha in qualche modo 2accettate", senza scatenare delle pesanti rappresaglie. Però, da qui a dire che una nuova primavera è alle porte, bisogna andarci cauti. Di sicuro, comunque (e questo é già un fatto rilevante) la classe politica attualmente al potere si sta avvicinando alle masse. Prova ne é che la corrente dei conservatori, legata al premier Li Peng, è stata negli ultimi mesi quasi completamente esautorata.
Sei anni dopo, un soffio di libertà a Pechino
da Il Sole-24 ore, 4 giugno '95, pag.5, di Michele Calcaterra.