Trascrizione di Giorgia Passarelli
LIMES, n. 1/95
Rivista italiana di geopolitica
La Cina un giallo
Il Tibet libero utile anche a Pechino (pag. 131 e segg)
Colloquio di Henry STERN con Sua Santitß il DALAI LAMA
D: Mi permetta di esprimerle le mie domande in modo concreto e specifico .
Poich conosco la sua esperienza personale, non sto parlando ad un popolo,
sto parlando ad un uomo, a lei. I nostri lettori vorrebbero capire il suo
punto di vista. Nella nostra rivista pubblichiamo due tipi di opinioni:
quelle degli specialisti (geografi, sociologi, ecc.) ma anche quelle di
importanti leader, perch vogliamo capire la logica della loro azione.
E per cominciare, io volevo molto semplicemente chiederle: la geografia
stata parte importante della sua istruzione quando era giovane?
R: Non molto. Naturalmente i testi buddhisti danno una visione del mondo,
che ora per inutile per i nostri scopi. Ma personalmente, fin
dall'infanzia, ho avuto un profondo interesse ad essere informato sul
mondo.
D: Quando era giovane fu educato in un monastero, nella stessa Lhasa?
R: Nel 1939, venni dal mio luogo di nascita a Lhasa e cominciai i miei
studi nel 1940. Sono nato ad Amdo, vicino a Koko Nor, una regione che oggi
non fa parte di quella che i cinesi chiamano "la Regione autonoma del
Tibet".
D: Durante la sua istruzione era consapevole del problema tibetano?
R: vede, io avevo un profondo interesse per la meccanica e leggevo libri
illustrati; questo mi attrasse verso materie occidentali e verso la guerra
allora in corso. C'era anche un giornale tibetano, pubblicato a Kalimpong,
che ricevevamo regolarmente a Lhasa. Riportava notizie sulla guerra, con
immagini di bassissima qualitß. Allora ho iniziato ad essere informato
sulla Germania, l'Inghilterra, l'Italia, la Russia, il mondo. Ma tutto ci
non stato parte dei miei studi, piuttosto un hobby.
D: Pensava che il Tibet facesse parte della Cina o avesse un rapporto molto
speciale con essa? o piuttosto pensava che il Tibet fosse un paese e la
Cina un altro?
R: SI, effettivamente, nessun tibetano sente di essere un cinese a parte
ogni motivazione politica. E' solo negli ultimi due secoli che le parole
"Cina", "India", "Tibet", designano entitß ben definite.
D: Ma mi permetta di chiederle; quando lei parla di "Tibet", a quale Tibet
si sta riferendo? A quello che ora chiamato "Regione autonoma del Tibet"
o al Tibet storico? Ed in particolare vi include la regione dove nato,
che la regione nord-orientale di Amdo?
R: Naturalmente, o logicamente dal momento che provengo da una regione non
inclusa nella cosiddetta Regione autonoma del Tibet (cosø come altri Lama
provenivano dalle regioni orientali di Kham) mi riferisco al Tibet storico.
E' vero, politicamente a quel tempo quelle due regioni erano amministrate
dai cinesi, dai signori della guerra locali. Ma per parte nostra, noi ci
consideravamo tibetani. Parlavamo la stessa lingua, con differenze solo nel
dialetto. Le nostre abitudini e la nostra religione erano le stesse.
Effettivamente, anche ora, la maggior parte delle persone dotte a Lhasa
proviene da Amdo e Kham . Molti degli importanti monasteri erano e restano
lß. A quel tempo i tre pi· importanti monasteri di Lhasa, con
approssimativamente 20 mila monaci , avevano una maggioranza proveniente da
Amdo e da Kham.
D: Cosø ora il problema : nelle future trattative che lei spera di avere
con il regime che prevarrß in Cina, qualunque esso sia, metterß sul tavolo
del negoziato il destino di quelle parti del Tibet?
R: Si.Non solo una nostra intenzione: ne abbiamo giß parlato con i
cinesi. Una delle mie proposte stata che noi dovremmo trattare con il
Tibet come un insieme, come un'unica entitß. Perch la mia preoccupazione
pi· grande per la cultura tibetana. Io penso che la cultura sia pi·
importante della politica. Perci se le aree "esterne" del Tibet
rimarranno parte delle grandi province limitrofe cinesi come lo Xinjiang,
esse formeranno, in termini di popolazione, solamente una minuscola
porzione di immense province (su cento milioni di persone, a malapena un
milione di tibetani). Ci renderebbe la conservazione della cultura
tibetana estremamente problematica.
Solo il congiungimento di quelle province con il Tibet centrale preserverß
la vera cultura tibetana.
D: Mi consenta di farle una domanda in qualitß di studioso della cultura
indiana e ind·: direbbe che c' un atteggiamento specificamente buddhista
verso il territorio? Tenga a mente che noi, in Occidente, tendiamo a
considerare il territorio in termini di confini, di periferia e di centro.
E' mia impressione quando si studia la cultura ind· , che tale visione non
vi sia presente: il re ind· incarna il centro politico del territorio. Egli
si muove senza limiti, conosce solo direzioni di movimento. Negli ultimi
secoli, quando la cultura buddhista lamaista form il Tibet, i monasteri
ovviamente erano centri di cultura, ma da un punto di vista politico, li
rappresenterebbe come "centri"?
R: Lei deve ricordare che al di lß del Tibet le regioni della Mongolia
interna ed esterna erano, da un punto di vista religioso, parte di una
stessa cultura lamaista; proprio come i mongoli tangusi o calmucchi (oggi
inseriti nella Russia). Ma da un punto di vista nazionale, politico, si
potrebbe dire che avevano una propria cultura. Cosø la cultura buddhista e
il controllo politico tibetano erano chiaramente due cose separate.
Effettivamente, l'attuale governo indipendente del Tibet non ha neppure
cercato di influenzare o controllare politicamente le parti remote del
Tibet, quali Amdo o Kham, anche se, osservando i precetti religiosi, alcuni
monaci furono mandati nei monasteri di quelle regioni.
D: Come lei sa, in Europa diffuso pensare che il Vaticano ha un approccio
e un'influenza geopolitica ben determinata, e anzi si arrivati fino a
parlare di un' "Europa vaticanizzata". Oggi il Vaticano considerato molto
influente nelle relazioni che si stanno sviluppando fra Europa occidentale
ed Europa orientale nell'era postcomunista. Lei direbbe che, in qualitß di
Lama, come guida spirituale., ha un approccio geopolitico alla questione
tibetana?
R: Qui vedo importanti differenze tra concezione cattolica e concezione
buddhista. Naturalmente nel passato, si sono visti alcuni Lama usare la
fede religiosa per scopi politici. Ma generalmente gli atteggiamenti e i
concetti buddhisti implicano maggiore tolleranza, con riferimento alla
nozione di ahimsa (non violenza). Come ho accennato prima, anche
all'interno del territorio storico del Tibet, ci sono sempre stati dei
regni indipendenti, ma non hanno mai costituito una minaccia contro il
"controllo politico" centrale.
D: Si, ma oggi lei non si trova in una situazione difficile, essendo sia la
guida spirituale del popolo buddhista tibetano sia il leader politico della
lotta dei tibetani contro la Cina?
R: A questo riguardo, ho giß ufficialmente affermato che non appena il
Tibet raggiungerß un determinato livello di autogoverno, mi spoglier dei
miei poteri temporali e mi consacrer , per il resto della mia vita, a scopi
spirituali e culturali come la pace, non solo in Tibet ma anche in altre
aree. Perch io sento di appartenere al mondo nel suo complesso pi· che
solo ad una comunitß. E non solo all'umanitß, ma a tutte le cose, in
accordo con il precetto buddhista. Ora io non escludo che , nel futuro, una
guida spirituale quale un Lama possa diventare un leader politico. Ma, in
linea di principio, penso che i domini spirituali e temporali dovrebbero
essere chiaramente separati.
D: Ma direbbe lei che c' una "carta buddhista" da giocare? Particolarmente
in riferimento alle regioni mongoliche confinanti, ma anche alla stessa
Cina? Pu la presenza del buddhismo fare da leva per un sommovimento
geopolitico?
R: No, non credo. L'uso della fede buddhista per vantaggi politici non
funziona. Certo, se prende la Mongolia esterna di oggi, alcuni politici
locali cercano aiuto dal Dalai Lama. Sicch lø ci potrebbe essere la
possibilitß di usare il buddhismo come strumento politico. Ma mi permetta
di dirle che in tali casi noi rimaniamo strettamente neutrali.
Inoltre, in tutte quelle aree dell'India del Nord dove c' una forte
presenza del buddhismo (da Ladhak a Arunachal Pradesh, attraverso Nepal,
Sikkim e Bhutan), noi restiamo strettamente neutrali e ci rifiutiamo di
essere accondiscendenti verso qualsiasi politica locale.
D: Che mi dice dei suoi rapporti con gli altri rami del buddhismo? Quale
maggiore rappresentante del buddhismo Mahayana, come si rapporta a tutte
quelle chiese del Sud-Est asiatico che appartengono all'altro ramo del
buddhismo, quello Hinayana?
R: Ufficialmente, istituzionalmente, non c' nessuna relazione speciale. Ma
secondo me c' una determinata affinitß. Quando ho visitato per la prima
volta la Thailandia, nel 1964, era chiaro che, individualmente, noi
seguivamo lo stesso insegnante. Avevamo la stessa fede buddhista. Ma l'idea
che questa vicinanza religiosa implicasse una relazione politica
particolare, questa non c'era assolutamente.
D: Nessuna solidarietß politica?
R: No, non in quel senso. Sembra che tale senso di solidarietß esista fra i
popoli musulmani. Ma non c' fra i buddhisti. Per esempio fra i thai,
monaci buddhisti, c' decisamente comprensione per l'opposizione dei monaci
buddhisti birmani alla giunta militare, ma non c' assolutamente un senso
di solidarietß violenta. Inoltre quando incontrai il Supremo Patriarca
della Thailandia, sollevai la questione dell'impegno nel lavoro sociale,
nella salute, nell'istruzione (citando l'esempio dei fratelli e delle
sorelle cristiani), e lui dissentø fermamente da questa posizione. Per lui
la vera vocazione di un monaco e di una suora buddhista sono la
meditazione, la devozione e lo studio. Questo vero. Ma i tempi cambiano.
Capisco che la cosa migliore, per i monaci che sono in grado di farlo,
dedicare completamente se stessi alla meditazione. Ma questo al giorno
d'oggi eccezionale. La maggior parte non riesce a farlo e dovrebbe allora
assumere maggiori responsabilitß in altri campi. E, naturalmente, singoli
monaci potrebbero farsi coinvolgere nella "sporca politica".
D: Da questo punto di vista cosa pensa dell'esperienza gandhiana nella
politica indiana, ovviamente ispirata da movimenti religiosi e per le
riforme sociali quali Brahmo Samaj e Arya Samaj? Mi piacerebbe sapere se la
separazione stabilita da Gandhi tra politica e meditazione spirituale pu
essere di qualche ispirazione per lei.
R: Bene, nel tantrismo Mahayana si dovrebbero per prima cosa seguire le
regole dello Hinayana. Quindi abbiamo una regola comune. Per prima cosa il
Mahayana esorta a coltivare l'altruismo, a porsi al servizio della societß
e anche dell'economia. Generalmente nel concetto Mahayana non c'
contraddizione fra meditazione spirituale e servizio sociale. Nelle
scritture buddhiste sono menzionati anche problemi di denaro. La sfera
spirituale e quella temporale non sono in contraddizione.
D: Che mi dice del lavoro missionario iniziato in Europa con la fondazione
dei monasteri?
R: In Europa come in America ci sono in effetti diverse centinaia di centri
buddhisti. Ma non sono istituzioni monastiche. La mia posizione sempre
stata di chiedere agli occidentali che appartenevano originariamente a fedi
differenti di considerare che cambiare la propria religione il problema
pi· delicato. Generalmente meglio seguire la propria tradizione
religiosa: pi· sicuro. E' naturalmente un diritto individuale scegliere
la propria religione ma ci si dovrebbe pensare due volte; se infine si
realmente convinti che la nuova religione pi· adatta ed efficace, allora
un proprio diritto sceglierla. Ma dopo aver cambiato la propria religione
c' sempre il pericolo di tornare alla precedente in modo da
autogiustificarsi; questo non dovrebbe mai succedere.
Generalmente parlando, dopo il periodo Ashoka, non stata pi· un'abitudine
buddhista di avvicinare la gente per convertirla.
D: Ma la presenza di quei centri buddhisti in Occidente non gioca un ruolo
di supporto per il Tibet?
R: Potrebbe essere, ma c' anche chi sceglie di seguire il buddhismo
tibetano prendendo le distanze dalla lotta nazionale tibetana. Questo ci
riporta ai due aspetti della causa tibetana: quello spirituale e quello
politico. ed ovvio che una volta persa la libertß nazionale anche la
libertß spirituale andata. Io stesso, dedito alla libertß spirituale,
penso che un grado minimo di autogoverno sia una garanzia per preservare la
cultura tibetana, compreso il buddhismo. Cosø considero il mio
coinvolgimento nella lotta nazionale come parte della mia pratica
spirituale. Solo se fossi ulteriormente coinvolto nel potere quotidiano e
nella politica di partito sorgerebbero problemi per me in quanto monaco
buddhista.
D: Lei stato recentemente in Italia, ricevuto dal capo del governo. E'
stato invitato in qualitß di guida spirituale o di leader politico di un
movimento nazionale per l'autogoverno? Quale stata la sua sensazione?
R: Non glielo so dire in questo caso, ma le potrei dire che, nelle mie
visite in giro per il mondo, a volte stato per il primo e a volte per il
secondo motivo. Anche alcuni tibetani all'estero partecipano con forza alla
lotta nazionale, senza avere particolare interesse per il lato spirituale.
D: Ora mi permetta di tornare a problemi pi· strettamente geopolitici
concernenti la "decade nera": il periodo 1949-1959, dall'occupazione cinese
all'insurrezione e al suo esilio. in particolare come potrebbe spiegare
l'apparente assenza di una decisa reazione militare all'occupazione cinese
del 1949?
R: Ci fu una battaglia, con numerose vittime, condotta dal piccolissimo
esercito tibetano, che era per completamente inadeguato alla resistenza. A
quel tempo l'esercito era sotto l'effettiva responsabilitß del reggente,
Poi, alla fine del 1950, io ne assunsi la responsabilitß. Dalla fine del
1955-1956 fino a circa il 1962, in zone isolate, ci fu resistenza militare
attiva fino alla morte. Non una resistenza organizzata, ma una resistenza
isolata in ogni villaggio raggiunto dall'avanzata dell'esercito cinese. Non
c'era una strategia complessiva.
D: Come pensa che i tibetani vedano i cinesi?
R: Tradizionalmente, i tibetani sono una nazione fiera. Negli anni Sessanta
ho incontrato un vecchio monaco e ho ascoltato la sua storia di sofferenze,
di distruzioni di villaggi e monasteri: una quantitß di tibetani furono
uccisi dai soldati cinesi, anche per mezzo di bombardamenti aerei. In una
provincia come Amdo alcuni monasteri sono stati distrutti tre volte. Cosø
quando gli chiesi: "Come consideri i cinesi in relazione ai tibetani?",
enfaticamente mi disse che, preso singolarmente un tibetano pu vincere
un cinese in qualsiasi momento. Come vede, una mentalitß molto fiera.
D'altra parte, tradizionalmente, c' un profondo rispetto per l'India, dal
momento che il buddhismo viene da lø.
D: Malgrado tutte le sofferenze inflitte e a parte ogni problema politico
di indipendenza o autonomia, molti pensano che la Cina abbia portato il
"progresso" nel Tibet in termini di tecniche moderne o di amministrazione
burocratica. Condivide in qualche modo queste opinioni?
R: Le condivido. Almeno per certi aspetti: per esempio il cinese pu aver
costruito strade per i propri scopi militari, e per il paese una rete di
strade si dimostrata molto utile per rendere accessibili le zone di
campagna. Nelle grandi cittß, gli ospedali sono stati contributi molto ben
accolti. Per quel che riguarda la scuola, secondo alcuni tibetani il grado
di istruzione si abbassato. Prima ogni villaggio aveva l'istruzione
fornita dal monastero; particolarmente in inverno, stagione "morta", la
gente poteva leggere le scritture, se non scrivere, mentre con
l'istituzione delle scuole non c' stato altro modo per imparare e in molti
villaggi il grado di istruzione si abbassato. E tuttavia noi abbiamo
bisogno di sviluppare la ricerca scientifica.
Nel complesso, io penso che abbiamo bisogno di riforme. Se tali riforme le
realizzassimo noi, potremmo trovare molta resistenza.
Il mio predecessore, il quattordicesimo Dalai Lama, inizi alcune riforme
ma trov molta resistenza fra i Lama conservatori cosø come fra gli
aristocratici. Cerc di creare un'istruzione moderna, occidentale,
importata da fuori grazie ad alcuni giovani tibetani colti (negli anni
Venti, sei studenti furono mandati in Inghilterra, ma poi la cosa finø lø).
Il mio predecessore trov difficoltß anche nel mandare studenti in India.
Cosø invit insegnanti dall'India britannica per aprire scuole a Gyangtse,
ma anche questa iniziativa fu bloccata dalle pressioni di alcuni monasteri.
Dell'iniziativa cinese in questo campo qualche tibetano, come me, apprezza
alcuni benefici. Ci nonostante, nel complesso, la rovina stata
infinitamente maggiore.
Anche il Panchen Lama, die giorni prima della sua morte, afferm
pubblicamente che la sofferenza non pu essere ripagata da nessun
progresso.
D: Torniamo pi· direttamente alla politica. Secondo le sue informazioni,
direbbe che la leadership cinese divisa sul Tibet o no?
R: Qualche tempo fa, abbiamo sentito di alcune differenze di opinioni fra
di loro. Ma oggi non pi·. Almeno l'ultimo Hu Yaobang e alcuni leader da lui
influenzati avevano un approccio pi· liberal; se fosse ancora vivo, sono
convinto che il problema tibetano sarebbe giß stato risolto. Lui era
straordinario.
D: Quando Deng Xiaoping sparirß dalla scena, molti specialisti pensano che
la Cina potrebbe dividersi in svariate regioni. E allora la leadership
cinese potrebbe anche assumere una prospettiva pi· ampia e accorgersi che
ci sono giß diverse Cine: Taiwan, Singapore, Hong Kong, senza contare le
comunitß cinesi da un capo all'altro del Sud-Est asiatico e del Pacifico.
R: E'' difficile da dire. Ci sono opinioni diverse su questo punto
D: Ma state discutendo fra voi in questi termini?
R: Si, questa una possibilitß di cui dobbiamo tenere conto.
D: Taiwan rivendica oggi il Tibet quale parte della sua "Repubblica di
Cina"?
R: No, perch si regolano ancora sulla loro costituzione della fine degli
anni Quaranta. Ma fra i loro governanti, ce ne sono alcuni che stanno
cambiando opinione nei nostri confronti e pensano al problema tibetano in
termini pi· liberali.
D: E' in contatto con loro?
R: Si, certamente
D: Trova pi· possibilitß di dialogo con loro che con la leadership
comunista cinese?
R: Certamente si. Vede, a Taiwan c' la libertß, e cosø la possibilitß di
scambiare vedute e opinioni. Mentre a Pechino non c' niente di tutto ci .
Il presidente di Taiwan ha sostenuto la mia ultima proposta per l'autonomia
interna e l'autogoverno.
Ma mi lasci sottolineare un punto. In Occidente come in altre parti del
mondo ci sono leader che in termini di Realpolitik si chiedono se valga la
pena "disturbare" la leadership comunista cinese con il problema di una
popolazione cosø minuscola come quella del Tibet.
Bene, io sento che si, la popolazione considerata piccola per numero. Ma
a causa della collocazione geografica del Tibet, se esso sopravviverß con
il suo peculiare patrimonio culturale di equilibrio non-violento non solo
verso gli altri gruppi umani, ma anche verso gli altri esseri viventi e
verso la natura, esso potrß giocare un ruolo importante come zona di pace
in questa parte del mondo.
D: Che cosa pensa dei democratici in Cina, della "Primavera di Pechino" del
1976 e poi del movimento di Tienanmen, nel 1989? Sono in qualche modo
consapevoli del problema tibetano?
R: Si. Alla fine sono anche venuti apertamente in sostegno della mia
ultima proposta per il negoziato. Voglio anche menzionare un piccolo gruppo
di 54 persone di Shanghai che nel maggio 1994 hanno rivolto una petizione
in 19 punti al governo di Pechino. Il quindicesimo punto dichiara che alle
cosiddette "minoranze" si deve concedere un autentico autogoverno,
menzionando in modo specifico il Tibet. A questo scopo invitano il governo
ad aprire il dialogo con il Dalai Lama. Fra loro ci sono intellettuali,
scrittori, studenti e lavoratori. E bisogna aggiungere che noi manteniamo
contatti con molti gruppi fuori della Cina.
E poi, Wei Jingsheng nella sua lunga lettera a Deng Xiaoping fa riferimento
chiaramente all'indipendenza del Tibet. Si rende conto che il Tibet una
nazione separata.
E quest'anno un piccolo gruppo di stimati, colti cinesi di Hong Kong,
Singapore, Taiwan e d'America ha abbozzato una costituzione per una Cina
federale: e ha menzionato il diritto all'autodeterminazione per il Tibet
attraverso un referendum dando ai tibetani la scelta fra la separazione o
la federazione con la Cina.
Tutte queste dichiarazioni sono, credo, molto incoraggianti.
D: Ora, forse, un'ultima domanda: come sa molti statisti occidentali sono
affascinati dalla Cina, dalle sue dimensioni, dalla sua potenza, dal suo
mercato potenziale, ma anche forse da una certa immagine di ordine sociale;
un ordine controllato da uno Stato degno di ammirazione per un certo numero
di filosofi europei. Questi, quando non sono semplicemente indifferenti
all'ottica tibetana, considerano che la difesa della causa tibetana sia in
effetti un modo per attaccare ingiustamente la Cina. Alcuni, in Occidente,
forse in modo paradossale, pensano di assumere cosø un punto di vista
"anti-imperialista", riallacciandosi al tempo in cui la Cina era vittima
dell'imperialismo occidentale. Pensano che la difesa della causa tibetana
sia un altro modo per attaccare la Cina. Abbiamo un esempio recente. Nel
1992, l'allora ministro degli Esteri italiano, Gianni De Michelis, protest
vivacemente contro quello che giudicava l'uso strumentale della causa
tibetana. Cosa ha da dire a questa gente?
R: Spesso dico alla gente che il sostegno che abbiamo ricevuto nel 1959 e
nei primi anni Sessanta alle Nazioni Unite, quel tipo di sostegno
effettivamente era un attacco alla Cina: era anticinese e anticomunista.
L'appoggio al Tibet allora voleva dire attaccare la Cina. Questo tipo di
sostegno sbagliato.
Oggi l'appoggio che riceviamo, credo, veramente sincero. Io spesso dico
alla gente che ci sostiene che noi non consideriamo il loro sostegno per il
Tibet come "pro-Tibet"; noi lo consideriamo come pro giustizia, pro
veritß.
Ora, se io insistessi sulla completa separazione dalla Cina, anche se
questa linea contenesse una certa parte di veritß e di giustizia, potrebbe
avere implicazioni anticinesi. In realtß, io non esigo una separazione
completa. Il mio approccio " un paese, due sistemi", un modello
sviluppato per la prima volta da Deng Xiaoping per Hong Kong. In tale
prospettiva l'attuale comportamento della leadership cinese, a lungo
termine, controproducente dallo stesso punto di vista cinese.
E questo non si applica solamente al Tibet: pensi agli altri grandi
territori quali lo Xinjiang o la Mongolia. A causa dell'attuale politica
cinese, sembra esserci una sorta di "avvelenamento" degli spiriti in
quest'area. Come pu nel futuro prevalere l'armonia fra i cinesi e quelle
minoranze? Sarß molto difficile. D'altra parte, se la cultura tibetana
buddhista sopravvivesse, ci sarebbe un grande potenziale per aiutare
milioni di cinesi. Consideri la corruzione in Cina: l'intransigenza
comunista ha fallito nel controllarla. Consideri invece la comunitß dei
nostri rifugiati in india: non abbiamo leggi, non abbiamo polizia, solo
autodisciplina.
Recentemente sono stato nell'India del Sud. I banchieri locali mi hanno
proposto di incoraggiare i rifugiati imprenditori, perch , negli ultimi
trent'anni, tutti i tibetani che avevano ottenuto prestiti dalle banche non
avevano ma compiuto alcuna truffa: "Sono molto pi· fidati dei comuni
indiani". E ci , suppongo, a causa della cultura buddhista. Questa potrebbe
essere la base di un'etica laica. C' un grande potenziale da offrire a
milioni di cinesi: i valori della vita che il comunismo non riuscito a
dare.
All'inizio degli anni Cinquanta, c'era fiducia nel fine e nella societß
"socialista"; pertanto una certa rigiditß poteva essere giustificata. Ma
oggi tutto ci finito. E con ci finita la giustificazione del regime a
partito unico e dell'uso della forza militare, del puro crudo terrore.
Oggi in ogni caso il comunismo ha fallito, ideologicamente, nel dare un
significato alla vita. Il sistema inflessibile ha fallito nel controllo
della corruzione.
Nello stesso tempo il sistema di mercato di tipo occidentale ha ugualmente
fallito nell'arginare la corruzione.
Quale ideologia basata sulla compassione, il buddhismo tibetano ha un gran
potenziale per promuovere il rispetto. Il Tibet pu giocare un ruolo-chiave
quale zona di pace, per una stabilitß a lungo termine della regione. Pu
aiutare l'India e la Cina a diventare veramente buoni amici, senza nessun
esercito, ma sulla fiducia. Ci puntando alla smilitarizzazione della
regione dell'Himalaya. L'India e la Cina risparmierebbero una gran quantitß
di denaro. Inoltre, una volta che il problema tibetano fosse saggiamente
risolto dal governo cinese, l'immagine della Cina nella comunitß
internazionale sarebbe enormemente valorizzata. Tanto per cominciare, le
unificazioni con Hong Kong e poi con Taiwan sarebbero straordinariamente
facilitate. Questo permetterebbe ai comunisti cinesi di raggiungere lo
scopo desiderato, cio l' "unitß cinese".
D: Lei ha dunque fiducia che nelle relazioni internazionali,
l'interdipendenza prevalga sui particolarismi ostili?
R: Certamente si.
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