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Conferenza Tibet
Sisani Marina - 26 luglio 1995
DENG AFFONDA LA BORSA DI TAIWAN

di Domenico Quirico

La Stampa, 26 luglio '95 pag. 6

Dietro lo schermo del collaudo di nuovi ordigni, Pechino ripropone brutalmente il confronto con Taipei.

Sei grandi sbuffi nelle solitudini del mare cinese, una altissima colonna di schiuma, neppure il boato di una esplosione perché i missili erano privi delle testate: con questo minuscolo wargame, Deng ha inflitto una sconfitta irrimediabile ai ribelli di Taiwan, fastidiosi e miliardari. Pechino ha dato una dimostrazione dei vecchi principi della strategia cinese, non è l'incerto esercizio della forza che porta alla vittoria ma la sua esibizione.

Soffiano venti di guerra nei pochi chilometri di mare che dividono le due Cine. Dietro lo schermo di normali prove di tiro per sperimentare nuovi ordigni teleguidati, i soldati di Pechino negli ultimi gironi hanno scagliato dalle basi nascoste nella provincia centrale dello Jangxi una piccola tempesta: prima quattro »piccoli missili con una portata di seicento chilometri, poi due ordigni da duemila chilometri. I bersagli erano naturalmente a grande distanza dall'isola dove gli eredi di Chang Kai Shek hanno costruito una operosa Shangri-la del miracolo economico asiatico.

Ma il fragore delle esplosioni ha squassato il cuore economico del piccolo drago come un uragano. Ad ogni ordigno che si inabbissava placidamente in mare l'indice della Borsa di taipei precipitava, fino a totalizzare un devastante sette per cento. Il governo è corso ai ripari riducendo il tasso di sconto e ha cercato di rianimare il coraggio degli investitori lanciando l'annuncio che »una potenza amica (pudica metafora per indicare gli Stati Uniti) stava prendendo sotto controllo con i satelliti i test cinesi e passava le informazioni a Taipei.

Un po' poco per ricostruire il tradizionale clima di operosa efficienza confuciana nelle vastità dell'International Trade Building, il Moloch in vetrocemento che Taiwan ha edificato al dio del business: migliaia di padiglioni computerizzati dove si possono vedere e comprare tutti i prodotti che l'isola mette in campionario dalla spilla al computer. Improvvisamente, con brutalità, l'isola, che ha fatto del successo economico la testimonianza del suo diritto ad esistere fuori dagli arzigogoli della guerra fredda, è stata messa di fronte alla prova della sua fragilità di fronte al Grande Fratello del continente. Basta un battere di ciglia alla Città proibita perché il cuore dell'altra Cina si fermi e il grande rivolo di denaro che lo alimenta si spenga. Un blocco navale che Pechino è in grado di organizzare significherebbe la fine dell'economia taiwanese, il ritorno ai tempi, che solo pochi nostalgici del genere rimpiangono, in cui tra l'invasione comunista e l'indipendenza stava solo la grande ombra america

na.

Il ritorno della tensione nel mar cinese, in fondo, è conseguenza della ricchezza di Taiwan. A fine giugno il governo aveva annunciato di essere pronto a pagare un miliardo di dollari per comprarsi un seggio alle Nazioni Unite; quel seggio che nel '71 aveva dovuto cedere al governo comunista. Non sarebbe un grande sacrificio per un Paese che in cassaforte custodisce novanta miliardi di dollari (più ricco c'è soltanto il Giappone). E il seggio al palazzo di vetro vale qualsiasi prezzo: il riconoscimento internazionale infatti cancellerebbe un umiliante ventennio di vita da fantasmi, costretti ad accontentarsi di scambi furtivi o di relazioni ufficiali con piccoli paesi sudamericani e africani. La sirena del miliardo di dollari poteva sembrare una stramba scivolata di gusto da nuovi ricchi; invece in poco tempo, animato dal profumo dei dollari, un bel gruppo di Paesi del Terzo Mondo ha annunciato che il seggio a Taiwan era un diritto sacrosanto.

Per i nazionalcomunisti di Pechino, già furibondi per il viaggio davvero poco »privato del presidente taiwanese Lee negli Stati Uniti, un vero riconoscimento clandestino, è stata una autentica provocazione. Da cancellare a colpi di missili.

DENG AFFONDA LA BORSA DI TAIWAN

di Domenico Quirico

La Stampa, 26 luglio '95 pag. 6

 
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