Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
mar 04 mar. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Tibet
Sisani Marina - 11 agosto 1995
Perchè sorride il Dalai Lama

di Franco Marcoaldi

Il Tibet è il regno della meditazione e delle magia ma adesso è anche il regno dei telefonini

La Repubblica, 10 agosto 1995, pagg. 30-31

Lhasa. Stupore, ammutolimento, quiete: il viaggiatore che per la prima volta metta piede in Tibet, va incontro a questa successione di sensazioni.

O meglio. Lo stupore comincia già prima, in cielo: quando arrivando da Katmandu, si vede il monsone sbattere contro la catena dell'Himalaya e rimbalzzare indietro, aprendo la vista a un paesaggio irripetibile: maestosamente desolato, lunare.

Poi, una volta a terra, ci pensa l'altitudine di Lhasa (tremilasettecento metri raggiunti troppo in fretta) a fare il resto: l'imbambolamento è assicurato per ventiquattr'ore almeno.

Ne approfitto per riguardarmi un po' di libri. Per ripercorrere le terribili traversie patite da questo paese nell'ultimo dopoguerra, a cominciare da un genocidio in piena regola inflitto dai cinesi, e passato bellamente in cavalleria nel mondo occidentale (/e poi dicono che centro e periferia non esistono più, nerl tanto declamato »villaggio globale ).

Comunque ora si è entrati i n una fase nuova, malgrado un'occupazione militare pesante e sfacciata: a ogni strada che imbocchi (e quelle tibetane sono le peggiori del pianeta) è infatti un via vai ininterrotto di convogli, camion, uomini, armi.

In compenso, lo stato di tensione permanente pare cessato a vantaggio di una »modernizzazione e di uno »sviluppo che i cinesi intendono perseguire a tutti i costi. Nel bene e nel male: costruendo scuole, strade ed ospedali. Ma anche smantellando foreste millenarie; installando testate nucleari; distruggendo il grosso delle antiche abitazioni tibetane, sostituite da edifici degni della Spectre di janmes Bond.

Insomma, prima il massacro (in quarant'anni - sostengono alcuni - un milione di morti), e poi una colonizzazione in piena regola, con i tibetani orami minoranza numerica del paese.

Una volta si sarebbe chianmata in causa l'ironia della storia. Che altro pensare vedendo l'ultima potenza »comunista che trasforma la capitale più remota del mondo, in una sorte di edge city americana, in una piccola Bangkok zeppa di prostitute, karaoke, Volvo. E telefonini, che neanche a Piaza del popolo...

Tutto questo, badate bene, nel regno per antonomasia della magia, del portentoso. Nel paese in cui i monaci più provetti possono compiere, grazie alla meditazione, cose dell'altro mondo. Come »l'iperpiresi , tecnicea che consente lo sprigionamento di una tale quantità di calore corporeo, da poter poi affrontare, completamente nudi, temperature rigidissime. (E se su quei corpi si posa una panno bagnato, quel panno prima fuma, dopodichè si asciuga).

Roba da non credere. Ma da non credere, prima ancora, sono questi telefonini che trillano in luoghi degni degli albori del pianeta. O, se preferite, della sua fine. In scenari talmente vasti che le stesse montagne di fronte ai vostri occhi (vette da sei, settemila metri), sembrano i Colli Berici. E sotto un cielo di un blu, talmente denso che la luce pare salire dal basso; da quelle stesse montagne intinte nei colori più strani: viola, grigio, ferro, oro.

Stordito dall'altitudine non meno che da questo paesaggio irreale, prendo un minibus (servizio eccellente: passano di continuo e miracolosamente vanno sempre nella direzione auspicata) per raggiungere il mercato di Barkhor, che corre tutt'intorno al più importante centro religioso del Tibet: Jockhang.

La differenza rispetto all'area cinese della città è impressionante. Là tutte le strade sottosopra per onorare l'imminente trentennale dell'autonomia (sic!) del Tibet, qui unica novità dell'arredo urbano i biliardi en plein air, nuovo sport nazionale.

Là la prostituzione, qui arcaici residui di poliandria. Là cappellini con veletta iperfroufrou che le donne non si tolgono neppure quando spaccano le pietre delle satrade, qui capelli tenuti insieme da lunghe strisce di cotone rosso e nero.

Al centro del mercato (oggi colorato e festoso, ma sempre in prima linea nei momenti caldi), c'è il tempio di Jockhang, per arrivare al quale si è costretti a saltabeccare sopra i corpi dei »prostatori , che si stendono a terra e si rialzano in piedi con una meccanicità più ginnica che religiosa.

Poi, oltre il portone, un incastro senza fine di cortili, scale, mezzanini, terrazzi. E infine, il tempio vero e proprio, decisamente scenografico: drappi colorati alle colonne, minuziosi affreschi di amplessi tantrici sulle pareti buie. E ovunque, enormi faccioni che ricordano quelli dei carri di Viareggio: immagini di Buddha dei più diversi formati e nelle più differenti posizioni, i capostipiti delle due sette principali (monaci dal berretto rosso e giallo), divinità mostruose e spettri della morte, la cui funzione apotropaica ricorda da vicino quella delle chimere nelle nostre cattedrali medioevali.

Ad accomunare questi volti, sono poche espressioni ricorrenti: o incutono paura, o mettono a distanza. Tutto il contrario delle facce allegre e sorridenti di una popolazione che dunque, almeno in questo, è molto poco montanara.

Coi monaci, non meno affabili e caciaroni dei loro fratelli laici, la comunicazione è piuttosto complicata. Quasi nessuno, infatti, parla inglese; anche se tutti avrebbero una gran voglia di sapere e raccontare. Come quetso giovane monaco di Jockhang, che mettendo insieme qualche parola, ne approfitta per darmi il suo personale quadro della situazione.

I cinesi, mi racconta, dopo aver distrutto centinaia di monasteri, ora non osteggiano più ricostruzioni e restauri. Ma non per questo il controllo sulla vita religiosa si è fatto meno spietato. E' sempre il governo, infatti, a stabilire se e quanti nuovi monaci possono essere accolti nelle diverse comunità. E poi a regolarne la vita quotidiana in modo rigidissimo, facendo in modo che essa si esaurisca nel semplice disbrigo di faccende pratiche: la custodia del monastero e la sua apertura per pellegrini e turisti eventuali.

Quanto allo studio, invece, è completamente bandito. Sia quello dell'inglese (per evitare appunto contatti tra monaci e stranieri). Sia, a maggior ragione, quello delle sacre scritture. Del resto, chi potrebbe più insegnare, visto che l'intera élite lamaista è stata decapitata nel corso della rivoluzione culturale? E quei pochi che si sono salvati è perchè sono fuggiti all'estero, a cominciare dal Dalai Lama?

Davvero un bel paradosso: quello stesso esodo che in Occidente ha acceso un nuovo interesse per un buddhismo finalemte toccato con mano, ha contemporaneamente lasciato campo completo, in Tibet, alle solo frome di devozione primitiva e popolare.

Tra i pochissimi ancora in grado di fare da cinghia di trasmissione tra canone buddhista e nuove generazioni, c'è il vecchio lama di Jockhang, autorità religiosa indiscussa. Azzardola richiesta di incontrarlo, e non senza sorpresa mi viene subito concessa, anche se mi si raccomanda la massima prudenza (le orecchie dei funzionari cinesi, dicono, sono molto "sensibili").

Saliamo le scale, passiamo attraverso un cunicolo basso e stretto, poi entriamo in un piccolo vestibolo pieno di valigie di ogni genere. Infine, eccosi nella sua stanza, con un bellissimo mandala alla parete e poco altro; una sveglia, un ventilatore, la vetrinetta dietro cui sono raccolti i testi della tradizione, il letto dove il vecchio maestro se ne sta già semisdraiato.

E' quasi cieco, la faccia sdentata e sorridente; la nostra conversazione, per quanto lunga ed amichevole, non sarà affatto facile. Agli intoppi linguistici del caso, si aggiunge infatti il disarmante candore con cui il monaco interprete dichiara di non poter cogliere tutte le sfumature del pensiero del maestro. »La conoscenza , dice, »è un cammino costante e faticoso di rischiaramento. E iosono ancora molto, molto indietro .

Dialogo, dunque, zoppo e nebuloso; in compenso, conservo un ricordo molto netto del tono del maestro: sempre ironico, mai ieratico, privo di qualunque pompa e solennità; lo stesso del Dalai Lama, insomma.

Il quale, di suo, ci aggiunge una spregiudicatezza e una libertà di giudizio francamente sorprendenti per una autorità religiosa di tale rilievo. Provate a leggere "La scienza della mente" (Editore Chiara Luce), che racconta il confronto (e l'incontro) tra il leader religioso ed eminenti scienziati di Harvard. Oppure il libro-intervista con lo sceneggiatore Jean-Claude Carrier (Rizzoli), nel quale dichiara senza reticenze le responsabilità buddhiste in occasione dell'invasione cinese del 1950. »La nostra ignoranza del mondo circostante era totale. Per di più, si partiva dal presupposto che quello tibetano fosse un popolo che sfuggiva alle elggi comuni. E alcuni alti dignitari, responsabili della difesa del paese, dicevano di non preoccuparsi. Ci avrebbero difeso i nostri protettori invisibili: una vera e propria aberrazione .

Francamente non si sa se stupirsi di più per il persistere di un comportamento tanto arcaico a così alti livelli, oppure per il fatto che l'accusa venga da chi, di quelle élite politico-religiose, era ed è - comunque - il massimo esponente.

Perchè sarà pur vero che »lamaismo (termine rifiutato dai tibetani) non è sinonimo di teocrazia. Ma per certo la plurisecolare forma di governo religioso di qui, proprio a quella fa pensare.

Basta visitare il luogo più celebre di Lhasa (il Potala), e ci si renderà subito conto di quale sia stata la pervasività del lamaismo nella vita tibetana, pubblica e privata. E di quali privilegi abbia goduto la gerarchia ecclesiastica.

Oggi il Potala, con gli ideogrammi cinesi che sovrastano ovunque le antiche iscrizioni tibetane, è ridotto a immenso museo, a centro nazionale di pellegrinaggio. Ma in passato era una specie di Escorial in salsa buddhista: un concentrato di tutte le funzioni politiche, militari, religiose, culturali e amministrative del paese.

Al punto che, percorrendo in lungo e in largo questo gigantesco edificio - visualizzazione plastica del Potere - sale alle labbra la più banale delle obiezioni, peraltro già formulata dal Buddha di Asvaghosa: »Come si concilia la legge della liberazione, la cui essenza è la pace interiore, con la legge del re, la cui essenza è l'esercizio dell'autorità?

Già, come si concilia? Con un particolare contesto storico e culturale, mi si risponderà: poteva forse andare altrimenti in un paese dove un cittadino su cinque prendeva i voti (anche perchè era l'unica speranza di sfangarla in qualche modo)? E poi: di che ci si meraviglia? Pure Agostino predicava una cosa mentre i papi ne facevano ben altre.

Tutto vero. Ma non eravamo partiti sottolineando proprio l'anomalia del buddhismo, »religione senza autorità ? Non avevamo elogiato la sua finezza nello smonatre quel formidabile e agghiacciante giocattolo occidentale che i filosofi chiamano »volontà di potenza ?

E allora la domanda resta. Anzi, mi piacerebbe girarla prorpio al Dalai Lama. Sono sicuro che lua sua risposta sarebbe imprevedibile; basta guardarlo in faccia: è l'unico leader religioso che sorride.

Perchè sorride il Dalai Lama

di Franco Marcoaldi

La Repubblica, 10 agosto 1995, pagg. 30-31

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail