Le enormi potenzialità del Paese asiatico sono frenate da problemi di burocrazia e di affidabilità. Italia in ritardo per investimenti e supporto finanziario. I casi vincenti: Ansaldo, Gft, Italtel.
dall'inviato Marco Calcaterra
Il Sole-24 Ore, sabato 26 agosto 1995, pag. 9
Pechino. Per l'industriale italiano che volesse per la prima volta affacciarsi sul mercato cinese, la lentezza burocratica, l'imprevedibilità e la scarsa affidabilità del quadro generale di riferimento sono problemi da tenere in debita considerazione. Ciononostante, la Cina rappresenta un mercato dalle grandi potenzialità e quindi da valutare attentamente e, nel caso, da privilegiare per chi voglia assicurarsi uno sviluppo nei prossimi anni.
Un Paese enorme, con 1,2 miliardi si abitanti e una crescita economica che negli ultimi anni è sempre stata a due cifre. Un mercato, però, in qualche modo difficile, che va "digerito" nel medio-lungo periodo; (molto spesso italiana) del "mordi e fuggi". Ancora, un mercato selettivo che richiede un attento studio di prodotto e un'attenta circoscrizione dell'area alla quale ci si vuole rivolgere. Basti considerare che ogni Provincia conta almeno un centinaio di milioni di abitanti ed è in sostanza un sistema Paese a sé stante. Pensare alla Cina come a una nazione monolitica rischia di essere in qualche caso fuorviante, oltreché dispendioso e controproducente.
Negli ultimi mesi, dichiara un investitore internazionale con sede a Hong Kong, la Cina ha alimentato qualche preoccupazione. Tanto che nel primo semestre del '95 il livello degli investimenti diretti esteri è sceso sensibilmente rispetto allo scorso anno. Il quadro generale è infatti diventato più incerto. Sia politicamente, in attesa di che cosa succederà dopo la morte di Deng (il potere centrale ha ripreso vigore dopo il tentativo di decentralizzazione degli ultimi anni); sia economicamente, dopo che sono stati abbandonati o rallentati una serie di progetti, tra cui spicca quello della privatizzazione di buona parte degli asset pubblici.
Forti sul piano commerciale, gli italiani - secondo quanto ci è stato dichiarato nel corso di alcune interviste - sono invece deboli negli investimenti e nel supporto finanziario che operazioni di questa natura generalmente richiedono. Basti considerare che non è ancora presente alcuna filiale operativa di nostre banche, un vuoto sicuramente da colmare, e in tempi brevi, se non si vuole rimanere inesorabilmente indietro rispetto alla concorrenza: giapponese, statunitense, ma anche europea. Gran Bretagna, Germania e Francia sono decisamente avanti e altri, quali ad esempio Olanda, sono in espansione.
Un'altra carenza del nostro Paese è quella che riguarda le istituzioni governative: le missioni politiche sono rare e sovente poco rappresentative. In altri termini, sembra di capire, manca un vero e proprio sistema Italia, "un gioco di squadra" tra industria, politica e finanza sul quale possono invece contare ad esempio i tedeschi. Va da sé che il nostro approccio verso la Cina sia il più delle volte volontaristico e sovente dilettantesco. Anche se non mancano le accezioni, le storie e i risultati di successo.
»La Cina - dichiara Alberto Chirieleison, dell'Italtel - non ha tempo da perdere, solo pochi minuti da dedicare a ciascuno. Per avere successo ci vogliono quindi determinazione e una conoscenza capillare del Paese. I problemi sono tanti e l'organizzazione cinese difficile da capire e da penetrare. Italtel, con i suoi sistemi Gsm, è sicuramente una storia di successo in Cina, così come quella dell'Ansaldo Energia con le sue centrali elettriche. Non senza grossi sacrifici e qualche problema: »La torta da spartire - spiega Mauro Tinello, responsabile della società Iri - è grossa, ma sul mercato ci sono tutti i principali operatori internazionali, per cui i margini di guadagno sono molto ridotti. Chi ha le spalle grosse riesce a resistere, mentre i piccoli si trovano a dover affrontare situazioni insormontabili: costi elevati diretti, sia in termini finanziari, sia di tempo speso nella ricerca del partner giusto e del mercato ideale .
Tutti i manager intervistati consigliano quindi un approccio alla Repubblica Cinese graduale, in modo da trovare un socio locale in grado di capire e di risolvere i problemi nel più breve tempo possibile. Senza però farsi troppe illusioni perché nella logica cinese le trattative sono lunghe e non rispecchiano necessariamente la retta, la via che collega due punti nel modo più diretto, ma più spesso sono tutta una serie di triangolazioni. E per triangolazioni vanno intesi gli intoppi, la burocrazia, i rischi propri dell'iniziativa.
»I cinesi - dichiara Enzo Frazzoli, rappresentante della Cmc di Ravenna - chiedono molto e in cambio si ha sovente una gestione rigida del contratto per gli stranieri, ma non per le aziende locali; una burocrazia elevata (ad esempio, trasferire del denaro da una banca all'altra non è sempre un'operazione facile o scontata); una gestione del personale buona, anche se nessuno vuole fare il team leader . Quasi tutte le aziende presenti in Cina lamentano, inoltre, una persistente vaghezza normativa e legislativa che rendono i contratti e il lavoro soggetti a improvvisi mutamenti.
Il gioco, però, sembra valere la candela. Chi è in Cina da almeno qualche anno ci resta e continua a investire. E' il caso della Jin Tak (Gruppo Gft), una delle prime joint venture italiane create in Cina. »Abbiamo avuto - spiega Antonio Siniscalchi - i nostri problemi, ma con il tempo siamo riusciti in buona parte a risolverli. Sia dal punto di vista dell'organizzazione e della gestione degli uomini, sia da quello finanziario, sia infine da quello contabile. Abbiamo dovuto creare un sistema ex novo e tutti i giorni siamo costantemente impegnati a fare rispettare le regole base della gestione di un'azienda che si muove in termini di concorrenza sul mercato internazionale . non a caso tutti i posti »chiave dell'azienda sono occupati dagli italiani che hanno portato la loro esperienza in termini di controllo della gestione, della produzione e della formazione del personale (non esiste, infatti, un vero e proprio mercato del lavoro e quindi il reclutamento dall'estero).
I consigli che sovente emergono, per coloro i quali pensassero alla Cina, sono di trovare il partner giusto, di mantenere possibilmente il controllo della Joint venture e, soprattutto, il controllo del know how: »L'unica garanzia - ci dice un manager italiano - perché il socio cinese non ti estrometta o entri direttamente in concorrenza con un'altra azienda di sua proprietà .
Un quadro generale, dunque, che non sembra del tutto confortante. E in parte è proprio così. Bisogna infatti pensare che l'approccio a ogni mercato è di per se stesso difficile, specie poi se lontano e di così ampie dimensioni. Se l'approccio verso la Cina è però sul medio-lungo termine, se ci si affida a un valido consulente e, soprattutto, all'esperienza di chi opera già in loco da qualche anno, Pechino offre delle opportunità e delle potenzialità che poche altre nazioni sono in grado oggi di garantire. E' evidente che ci vogliono tempo, determinazione, prudenza e in qualche modo voglia di nuove avventure. Ma tutto questo il più delle volte premia.
E' il caso a esempio della Coster, azienda trentina che produce macchinari per il riempimento, pompe e valvole (per profumi, lacche, saponi liquidi): dopo aver venduto alcune linee di produzione in Cina, ha deciso ora il grande salto con la costituzione di una joint venture e di uno stabilimento produttivo che dovrebbero vedere la luce entro la fine dell'anno. Un approccio alla Cina graduale, fatto di piccoli passi che, nella logica, ha tutte le carte in regola per avere successo.
IN CINA BUSINESS A OSTACOLI
dall'inviato Marco Calcaterra
Il Sole-24 Ore, sabato 26 agosto 1995, pag. 9