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Partito Radicale Centro Radicale - 29 agosto 1995
Biografia di Palden GYATSO

Palden Gyatso è nato a Panam, nel distretto di Gyantse (Tibet centrale). All'età di dieci anni decise di diventare monaco. E all'età di sedici lasciò il monastero di Drepung per rendersi nella capitale tibetana, Lhasa.

In occasione del sollevamento del popolo tibetano del 1959, Palden Gyatso organizzò un piccolo gruppo di volontari armati. E quando il governo tibetano istruí i monaci di Drepung affinché, se necessario, si preparessero a combattere, Palden Gyatso prese il comando di un centinaio di uomini. La sollevazione fu repressa molto rapidamente dalle forze cinesi, molto prima che i monaci potessero intervenire. E Palden Gyatso tornò nel suo monastero. Vi ritrovò il suo anziano maestro, Rigzin Jampa, che aveva allora 72 anni. Entrambi decisero di sfuggire alle repressioni cinesi. Fuggire... per sfuggire a repressioni sempre piú violente. Fuggire ancora... Lunghe ore di marcia, giorno dopo giorno. Palden Gyatso portava il suo anziano maestro sulle spalle. Fuggire sempre... Per non abbandonare il suo maestro nelle mani dei cinesi.

Quand'ebbero raggiunto Panam, il villaggio natale di Palden Gyatso, il monaco e il suo maestro furono arrestati. Torturato, colpito con dei bastoni ricoperti di chiodi alle estremità, fu condannato a sette anni di prigione. Passò i due anni seguenti in catene, le mani dietro la schiena.

Nel 1962, non potendo piú sopportare le torture e le condizioni di detenzione in prigione e soprattutto deciso a rivelare al mondo intero le esazioni cinesi, riuscí a evadere e a raggiungere la frontiera con sei amici. Sfortunatamente, fu di nuovo imprigionato a opera di militari di ritorno dal fronte. Era allora in corso la guerra tra la Cina e l'India. Ricondotti alla prigione del distretto di Panam, furono crudelmente puniti per aver cercato di fuggire. Dopo duri pestaggi, venivano legate loro le mani dietro la schiena ed erano cosí sospesi per le mani al soffitto. Palden Gyatso fu condannato a otto anni ulteriori di carcere, e cosí ritornò a una vita di duro lavoro con razioni da fame. I suoi compagni, soprattutto i piú anziani, soccombevano spesso alle torture, quando non era per sfinimento. Egli sopravvisse, sebbene la fame l'avesse condotto a mangiare le proprie scarpe.

Durante la Rivoluzione culturale, la situazione dei prigionieri politici in Tibet s'inasprí. Erano ancora privati di ogni diritto. Palden Gyatso fu trasferito a "Outilu Prison", chiamata oggi "Sangyip Prison Administration", situata all'esterno di Lhasa. Passava le sue giornate a spaccare pietre e, la sera, subiva lunghe sedute d'indottrinamento il cui scopo era spingere i prigionieri a criticare i valori tradizionali tibetani e a profanare le foto del Dalai-Lama. Molti di loro erano obbligati a firmare false confessioni che si traducevano in esecuzioni sommarie. I condannati a morte erano obbligati a ballare e cantare davanti agli altri detenuti, prima d'essere vilmente abbattuti: Palden Gyatso ricorda oggi il modo in cui lui e i suoi amici hanno pianto, vedendo quello spettacolo. Il giorno della loro esecuzione portavano intorno al collo pesanti blocchi di legno incisi con caratteri cinesi.

Nel 1975 Palden Gyatso fu "liberato", ma fu trattenuto in un campo di lavoro presso Lhasa, dove le condizioni di vita erano di poco migliori che nelle carceri. Ma molti prigionieri (diciotto, durante i nove anni che Palden Gyatso trascorse nel campo) preferivano il suicidio alla morte per sfinimento.

Qualche anno piú tardi, Palden Gyatso fu trasferito in una fabbrica di tappeti. Il suo assistente si chiamava Lobsang Wangchuk, un prigioniero politico molto influente in tibet, che nel 1987 sarebbe morto sotto tortura.

Ma come informare il mondo esterno? I due uomini si misero a scrivere dei pamphlet. Nel 1979 affissero un loro testo su un pannello utilizzato per la propaganda cinese sul Tibet. Quel testo era firmato con i loro veri nomi, atto coraggioso che mirava a incoraggiare altri tibetani a parlare contro il regime e anche a mettere alla prova i loro diritti "costituzionali".

Una viva emozione s'impadroní della popolazione di Lhasa. Temendo il peggio, le autorità cinesi rifiutarono di arrestare i due uomini. Ma Palden Gyatso sapeva che era soltanto una questione di tempo. Un anno dopo Ghen Lobsang Wangchuk fu arrestato di nuovo. Non lo si sarebbe visto piú. Quanto a Palden Gyatso, era spiato fin nelle sue piú piccole azioni, ovunque andasse. A rischio della vita, il monaco continuò comunque a distribuire pamphlet, nottetempo, a Lhasa.

Palden Gyatso fu nuovamente arrestato nel 1983 e condannato ad altri otto anni di prigione per le sue attività "controrivoluzionarie". Come in precedenza, fu sottoposto a un processo illegale. Di nuovo imprigionato a "Outilu Prison", prese molti appunti, riuscendo a nasconderli agli sguardi dei secondini i quali, eppure, sospettavano che facesse passare informazioni all'esterno. Resisté alle numerose torture praticate con l'elettrochoc e alle bastonate. Ciononostante le sue informazioni, a mezzo di alcuni dei suoi visitatori, riuscirono a raggiungere Dharamsala, dove siede il governo tibetano in esilio. Le autorità cinesi, sospettando Palden Gyatso di trasmettere informazioni all'esterno del carcere, lo condannarono a un ulteriore anno di reclusione.

Continuò a scrivere note, manifestando un grande coraggio. Un povero detenuto sopreso a inviare informazioni a dei parenti fu duramente torturato e condannato a nove anni supplementari di prigione, mentre i suoi familiari furono malmenati. Dopo quest'incidente, la brutalità delle autorità carcerarie aumentò. Palden Gyatso e i suoi compagni di reclusione furono di nuovo sottoposti a elettrochoc e colpiti con catene.

Nel 1990, trasferito nella prigione di Drapchi, chiamata anche Prigione n·1, continuò ad essere picchiato e a subire numerose torture con elettrochoc. Quando riprese coscienza in un bagno di sangue, di vomito e d'urina, il monaco s'accorse che gli mancavano ventidue denti.

Poco prima della sua liberazione nel 1992, Palden Gyatso riuscí a convincere i suoi aguzzini a vendergli gli strumenti di tortura, che furono pagati grazie ad alcuni amici che avevano capito l'importanza di mostrarli al mondo esterno, anche se un solo bastone elettrico costava loro l'equivalente di tre mesi di salario.

Liberato, Palden Gyatso raggiunse la frontiera nepalese, portando con sé gli elettrochoc. Sapeva che i cinesi possedevano la sua foto e quindi, grazie a un travestimento riuscí a passare la frontiera e poi a raggiungere Nepal, che abbandonò per l'India, essendo sempre in pericolo di essere rimandato in Cina. Oggi, Palden Gyatso lavora al centro per rifugiati tibetani di Dharamsala.

Ma il monaco ha un solo obiettivo. Informare l'Occidente su ciò che succede in Tibet, nelle prigioni e nei campi di lavoro.

 
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