SE LA FRANCIA RINNEGA LA FRANCIA
di Barbara Spinelli
La Stampa, 12 aprile '96, prima pagina
Parigi. Quasi si direbbe che le nazioni liberali non conoscano se stesse, e le forze che hanno, e la paura subitanea che può incutere nei regimi totalitari la sola idea di democrazia. L'allarme suscitato in Cina dalle elezioni di Taiwan, poche settimane or sono; la minacciosa offensiva della stessa Cina contro le istituzioni rappresentative di Hong Kong, dopo il voto del '95 nella colonia britannica che l'anno prossimo sarà restituita a Pechino; il disagio bellicoso che il comunismo nordcoreano prova di fronte alla consultazione elettorale in Corea del Sud, negli ultimi giorni: ovunque nelle periferie d'Occidente c'è questo panico crescente, provato dai despoti nei confronti dell'atto costitutivo della democrazia che sono le elezioni, e tuttavia gli occidentali si conducono come se i loro principi non avessero potere alcuno, né forza d'influenza, né peso.
E' così che la Francia di Chirac accoglie il primo ministro Li Peng, dimentica i diritti dell'uomo che pretende difendere universalmente, si compiace degli Airbus venduti. E' così che i dirigenti tedeschi o italiani promettono di dimenticare le migliaia di morti nel massacro di Tienanmen, e il Gulag cinese con i suoi milioni di prigionieri e lavoratori forzati, pur di avere accesso al Mercato Promesso del Terzo millennio, all'emporio di un miliardo e duecentomila clienti che la Cina prefigura, e garantisce. In queste tre nazioni Li Peng ha concluso accordi commerciali e consolidato alleanze, ultimamente. In queste tre nazioni ha saputo imporre il suo punto di vista: i diritti dell'uomo non sono che un valore formale, sconnesso dalla sostanza della politica reale. Non sono che etica della convinzione, incompatibile con l'etica della responsabilità che nasce dai bisogni dell'economia, del commercio. Soddisfatte di sé, le democrazie occidentali danno un nome a questo spirito di rinuncia, a questo loro persisten
te, pudibondo disarmarsi: chiamano l'uno e l'altro Realpolitica, e sono persino convinti che precisamente questo è far politica, questo è riconoscere il peso del reale, del fattibile. Non le sfiora l'idea che i Valori possano anche abitare il regno terreno, pesare su di esso, e no rintanarsi, inutili, nei cieli delle idee. Quel che l'asiatico dispotismo comunista teme di più è il semplice giudizio, espresso sulla natura totalitaria del proprio sistema: quello stesso giudizio che esprimono i taiwanesi o gli abitanti di Hong Kong o Seul, quando vanno alle urne. Quello stesso giudizio che potrebbero esprimere gli europei, se non avessero deciso di spegnere la propria presenza nel mondo e se sapessero che per tradizione è proprio qui la loro forza, non da oggi ma da secoli: nella capacità di tenere gli occhi aperti sugli eventi mondiali, di distinguere i pericolosi dai promettenti e dagli irrilevanti, di pronunciare su di essi un giudizio, di votarli.
E' questa vocazione giudicante che gli europei hanno sacrificato, dopo la caduta del muro di Berlino, e non stupisce che la rinuncia sia contestata soprattutto in Francia, che per definizione vuol essere la terra messianica; terra che »ha stretto un patto plurisecolare con i diritti dell'uomo come diceva de Gaulle; terra capace di una politica democratica globalizzante universalista, non diversamente dalla nazione americana. E' contestato Chirac, che alla conferenza euroasiatica di Bangkok e ancora di recente nei Paesi arabi ha negato o sospeso la natura universale dei diritti dell'uomo. E' contestato Alain Juppé, che mercoledì a Parigi ha dovuto rinunciare al brindisi di saluto in onore di Li Peng, e allo sgradito passaggio sulle libertà cinesi calpestate che esso conteneva. E' contestata una classe politica che in Francia si adegua al modo di comportarsi tedesco o italiano, si autoannulla in quanto ceto politico dirigente, rinuncia a esser Stato classico, diventa stato-azienda. I bisogni del commercio pre
valgono su quelli della politica, della geostrategia: quello che era homo politicus fa harakiri, e si fa soppiantare da homo ecomonicus. Il compito di preoccuparsi delle turbative militari o politiche è ancora una volta affidato agli Stati Uniti, come durante la guerra fredda.
Spetta a questi ultimi di mettere sulle spine l'Iran o la Cina o la Corea del Nord, e di difendere il normale svolgimento delle elezioni in Israele o a Hong Kong, a Taiwan o in Corea del Sud. I governanti europei hanno altri incarichi, secondari e più comodi: hanno l'incarico di dirigere non un'entità politica e militare che abbia peso, ma di rappresentare un'azienda, che commercia con Iran o Cina e cui è conferito il nome, solenne, di Unione Europea. I governanti europei, si dice, negoziano con Li Peng e lo corteggiano a dispetto di Tienanmen e del Tibet. In realtà negoziano e corteggiano a causa di Tienanmen e del Tibet: perché sono rassicurati e confortati alla stregua di capi aziendali dalla prevedibilità stabilizzante che Tienanmen ha garantito. Il nome solenne di Unione Europea non acquista per questo consistenza, e in realtà l'Europa ha un peso che scema sul teatro del mondo, nonostante le argute sue finezze diplomatiche, precisamente a causa delle rinunce ideali successive. Dietro la presunta sua Rea
lpolitik si nasconda infatti una debolezza più che una forza, una dipendenza dall'America più che un'autonomia: ed è per questo che gli europei sono così poco rispettati e temuti in Asia o in Russia postcomunista, in ex Jugoslavia o sul Medio Oriente e nel Golfo.
Sono poco rispettati i toni apaticamente tolleranti e impassibilmente realpolitici, è poco rispettato il nuovo relativismo sui diritti dell'uomo, è poco rispettata l'indifferenza etica che spinge gli europei ad accogliere la Russia nel Consiglio d'Europa, nonostante la Cecenia; ad accogliere l'Iran nel commercio mondiale, nonostante il terrorismo in Libano e Palestina; ad accogliere Li Peng nelle capitali del Vecchio Continente nonostante Tienanmen e Taiwan, nonostante Hong Kong e la colonizzazione violenta del Tibet. Si potrebbe capire una strategia così congegnata, se servisse a qualcosa. Ma non serve a molto, non è un'arma né un incentivo pacificante. Serve solo a creare precedenti, a confortare despoti di varia natura. La Russia nazional-comunista che ammira il totalitarismo capitalista di Li Peng sarà invogliata ad imitarlo e ad allearsi con esso, visto che gli europei sono tanto indulgenti. Nazioni nucleari emergenti come l'Iran o la Corea del Nord potranno tranquillamente farsi aiutare da Cina o Russi
a, per costruire la propria atomica.
Quanto all'Europa, nel frattempo sarà diventata un'entità dalle grandi ambizioni commerciali, aziendali: un'entità fiera di esser utilizzata come carta antiamericana, da Cina o Iran, e come carta infine gettata via. Un'entità che sembra aver dimenticato - lo ricorda un testo pubblicato mercoledì su Le Monde, scritto da funzionari che hanno servito in Asia - il monito pur evidente di Montesquieu: »Le potenze costruite sul solo commercio possono sussistere per lungo tempo, nella loro mediocrità. Ma la loro grandezza è di breve durata .
SE LA FRANCIA RINNEGA LA FRANCIA
di Barbara Spinelli
La Stampa, 12 aprile '96, prima pagina