COSI LA CINA ANNIENTA IL TIBET
Il Dalai Lama: rinuncio all'indipendenza pur di salvare l'identità
di Angelo Bonanni
Il Corriere della Sera, sabato 26 ottobre 1996
STRASBURGO - La terra senza tempo ha i giorni contati. Lentamente, ma inesorabilmente, il Tibet si sta piegando alla cinesizzazione forzata imposta da Pechino. Una spiritualità antica di secoli, che ha saputo resistere pacificamente all'occupazione militare e alla repressione poliziesca, evapora e svanisce di fronte all'immigrazione forzata, all'egemonia culturale imposta con la forza, alla spietata logica economica della nuova Cina, comunista e capitalista insieme. Ma anche così, anche sull'orlo del baratro, la resistenza buddista non vuole diventare una resistenza anti-cinese: E' sbagliato cercare di isolare la Cina: sbagliato non solo politicamente ma anche moralmente. I cinesi hanno il diritto di progredire. Verso i nostri fratelli e sorelle cinesi bisogna avere un atteggiamento amichevole. n vero ostacolo è la loro paura, prodotta dall'insicurezza e dai sospetti. Dobbiamo riuscire a superare la logica del sospetto. Ma è una strada difficile. E nel frattempo il Tibet continua a soffrire. La stessa soprav
vivenza dei tibetani come popolo a sé stante è minacciata. E' questo il messaggio che sua santità Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, la massima autorità del buddismo tibetano, è venuto a portare al Parlamento europeo di Strasburgo, dove sono stati appena approvati, grazie anche all'iniziativa degli eurodeputati Gianfranco Dell'Alba e Olivier Dupuis, finanziamenti per oltre sei miliardi di lire in favore dei profughi tibetani. E lo stesso messaggio, il Dalai Lama lo consegna in questa intervista al Corriere della Sera.
Santità, quanto tem-po resta ancora prima che la cultura tibetana venga completamente cancellata? E' difficile dire. Forse ancora dieci anni. Da quando hanno occupato il Tibet, i cinesi hanno usato molte armi: i soldi, l'indottrinamento, le minacce, i pestaggi e gli assassinii. Ma lo spirito tibetano non si è mai spezzato. Ora però i sei milioni di tibetani sono divenuti minoritari in casa propria. Quello a cui assistiamo è un vero e proprio genocidio culturale, forse in parte involontario. Il tempo a nostra disposizione sta per scadere. La situazione è molto grave. Genocidio culturale è un'accusa grave... Vede, nel buddismo lo studio e la pratica religiosa sono essenziali. Ma oggi le possibilità di studio, in Tibet, sono scarsissime. il numero degli istituti monastici è stato falcidiato, e anche il tempo a disposizione per lo studio. La speranza di mantenere vivo il buddismo vacilla. Negli ultimi cinque an-ni, cinquemila monaci hanno dovuto fuggire dall'altopiano e ora continuano a studiare in India, o in O
ccidente. Ma non è solo un fatto religioso. La lingua tibetana, che dovrebbe essere ufficialmente riconosciuta, viene discriminata. A Lhasa due terzi della popolazione è costituita da cinesi che ormai controllano commerci e artigianato. Difficile trovare i nostri vestiti tradizionali. Difficile trovare persino il "samba", il nostro cibo nazionale, sostituito da riso e legumi- Tutto sta cambiando, e molto in fretta. Fino a quando lei riuscirà a evitare che la resistenza diventi violenta? Qualche incidente isolato è possibile. Ma, finché sarò vivo, la gen-te mi seguirà sulla strada della non-violenza. Anche se le sue foto sono state asportate dai monasteri e il suo nome non si può pronunciare in pubblico? -Sì La gente crede in me. Un vecchio monaco venuto dal Tibet mi ha detto: non ci importa se nei templi è stata proibita l'immagine del Dalai Lama, perché la sua figura risplende nel resto del mondo. Sua santità si ferma un attimo, poi scoppia a ridere di cuore: -Non so se risplendo, ma certo sopravvivo. Come
concilia il tempo dedicato alla lotta politica con quello necessario a coltivare la spiritualità? E' vero. Non ho tutto il tempo che vorrei dedicare al mio spirito. Riesco a pregare solo cinque ore al giorno: quattro alla mattina, e una la sera. Tuttavia non ho rimpianti. Se la battaglia fosse solo politica, forse come monaco non dovrei occuparmene. Ma la nostra è anche una lotta per la spiritualità. La cultura buddista può aiutare tutti anche i cinesi che ci opprimono: può riempire il vuoto e la mancanza di spiritualità di cui soffrono. E dunque la battaglia che conduco fa parte dei miei doveri religiosi verso l'umanità. Ma lei che cosa chiede a Pechino? Molti, in Tibet, vogliono che ci sia restituita l'indipendenza. E' un loro diritto. Io però cerco la via di mezzo. Il mio primo dovere è quello di fare il possibile per salvare il mio popolo e il suo straordinario patrimonio culturale dalla distruzione totale. Per questo sono pronto ad aprire negoziati sulla base di una agenda che non prevede l'indipendenza
del Tibet. Sono pronto a negoziare dovunque, in qualsiasi momento e senza condizioni preliminari. Mantenendo il Tibet annesso alla Cina? Vogliamo una autonomia reale. Difesa e affari esteri possono restare alla Cina, ma la religione, l'educazione e la cultura devono essere gestite dal' Tibet. Noi non siamo anti-cinesi, al contrario. In fondo non è detto che il legame con Pechino non possa addirittura essere benefico, per esempio da un punto di vista economico. Spiritualmente, siamo un popolo altamente sviluppato. Ma economicamente il Tibet è molto sottosviluppato. E la pancia, si sa, non si riempie con la spiritualità.