Il Giornale, mercoledì 7 maggio 1997
di Rosario Mascia
Lhasa. Arso dal sole dell'estate e dal gelo dell'inverno, spazzato dai freddi venti del Nord, "Peu yul" per i suoi abitanti, o "Gangs yul", Paese delle Nevi, nelle forme poetiche, per noi occidentali è il Tibet, una delle terre più remote e inospitali del mondo. Un vasto altopiano di due milioni di chilometri quadrati, incuneato tra Cina, India e Russia, protetto dalla catena himalayana, abitato dai "dokpas", i pastori nomadi. Terra proibita. Terra di maghi, stregoni, lama, mistici per i quali la vita scorre nella solitudine dell'introspezione. Terra dove vivono gli Dei. Il cuore dell'Asia, sede di Agharti, il regno sotterraneo del "Re del Mondo", centro della misteriosa scienza dell'Om. Ferdinand Ossendowski, in fuga dai bolscevichi, l'attraversò timoroso annotando nel suo diario, pubblicato poi col titolo di Bestie Uomini e Dei, le parole di Tuscegum Lama, il calmucco vendicatore dei berretti gialli, l'amico del Dalai Lama: "Voi europei non volete riconoscere che noi, pastori ignoranti, conosciamo il pote
re di questa scienza misteriosa".
Cime innevate e valichi impossibili ne hanno preservato per secoli lo splendido isolamento, non tanto però da ripararlo dalle mire dell'impero cinese, ricambiate dai re tibetani che tra il VII e il X secolo si spinsero fin dentro la Cina conquistando nel 736 la capitale Ch'angan, l'odierna Xian. Il buddhismo vi giunse dall'India nel VII secolo, dodici dopo l'illuminazione di Siddharta e sei di interpretazioni cinesi. Fondendosi con l'autoctona religione Bon, modificò parzialmente la sua essenza e fu imposto come religione di Stato dal re Trisong Setsen che per calcolo politico privilegiò la tradizione indiana per indebolire i suoi vassalli legati a quella cinese. Ma dovranno trascorrere più di duecento anni prima che asceti, santi e pensatori gli conferiscano la spiritualità propria del lamaismo che affascinò i khan mongoli con i quali Sonam Gyatso, il terzo grande saggio dei Gelupka, raggiunse un accordo politico: i berretti gialli avrebbero insegnato loro la religione in cambio di appoggio politico e sicur
ezza militare. E Althan Khan ricompensò il tibetano con il titolo onorifico di Dalai "Oceano di saggezza" che dal V Dalai Lama designerà il capo supremo dei berretti gialli, il vertice della piramide teocratica sul trono del Potala, il monasterofortezza di Lhasa, da dove governerà l'inaccessibile "Paese delle nevi".
Ma gli ostacoli naturali non impedirono i contatti con l'Occidente. Nestoriani e Armeni lasciarono croci incise sulle rocce quale segno del loro passaggio. Agli inizi del '600 vi giunsero i missionari: Johan Grueber e Albert D'Orville; il gesuita Ippolito Desideri vi soggiornò per tredici anni, il cappuccino Orazio della Penna costruì una missione e un ospizio per i poveri. Poi arrivarono i viaggiatori: l'olandese Van der Putte fu il primo a entrare a Lhasa seguito nel 1811 da Thomas Manning, il primo inglese. E furono proprio gli inglesi, subentrati ai Manciù nel protettorato del Tibet, che nel 1892 ne chiuderanno le frontiere senza però riuscire a fermare la cinquantaquattrenne Alessandra David Néel che, con il figlio adottivo, raggiungerà Lhasa nel 1923, dopo un viaggio clandestino di otto mesi attraverso il Tibet nord orientale, l'Amdo e il Kham. La bandiera con i dodici raggi blu e rossi sovrastanti due leoni delle nevi sventolò ancora in pace ai venti dell'altopiano. Sino al settembre del 1949 quando l
e truppe di Pechino invasero il Tibet orientale occupando il Chamdo il 19 ottobre 1950.
Inutili le proteste presso le Nazioni Unite, dove Gran Bretagna e India chiesero che la discussione fosse rimandata. Il 17 novembre 1950 il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, benchè appena dodicenne, assunse i titoli spirituali e politici di capo dello Stato, un monarca senza scettro costretto ad accettare sotto la minaccia di ulteriori azioni militari l'"Accordo in 17 punti" che aprì a Pechino la strada per Lhasa dove le sue truppe entrarono il 19 settembre 1951. Con la complicità dell'Occidente. Per otto anni i tibetani sopportarono le angherie rosse, poi il 10 marzo 1959 insorsero e la repressione che ne seguì fu durissima: morirono a migliaia, non vennero risparmiati né vecchi, né donne e bambini. Sette giorni più tardi il Dalai Lama e il governo fuggirono dalla città chiedendo asilo politico in India.
"Quando volerà l'uccello d'acciaio e i cavalli si muoveranno sulle ruote il popolo tibetano sarà disperso e il Dalai Lama si recherà nel Paese dell'uomo rosso" predisse il saggio Padmasambhava nell'VIII secolo. Da trentotto anni l'"Oceano di saggezza", premio Nobel per la pace nel 1989, vive in esilio a McLeod Ganj, un villaggio alle falde del Dhauladhar sui primi contrafforti dell'Himalaya indiano, attorniato da una comunità di seimila tibetani che con gli altri centomila sparsi tra India, Buthan e Nepal cercano di preservare la loro cultura nella speranza di poter rientrare un giorno in patria. Una patria che ormai non è più la loro. L'occupazione cinese ha un bilancio impressionante: un milione e 200mila i tibetani uccisi nelle prigioni o nei massacri, 100mila detenuti per motivi politici costretti a lavorare nei gulag alla confezione di prodotti destinati all'esportazione, 130mila rifugiati all'estero, 6mila monasteri e templi distrutti, l'80 per cento dell'intero patrimonio religioso, migliaia di opere
d'arte depredate, intere biblioteche date alle fiamme. Per non parlare della sperimentazione nucleare, che, a est del lago Kokonor, nel Quing Hai, ha il maggior centro cinese noto come la "Nona Accademia".
I sei milioni di tibetani rimasti sull'altopiano vivono al limite della sopravvivenza in abitazioni fatiscente. I due terzi sono disoccupati, privi di scuole (il 70% è analfabeta) e dei più elementari diritti umani, del conforto della loro religione e della guida dei lama le cui vocazioni sono brutalmente scoraggiate dal regime, ridotti ormai a una minoranza in patria dall'arrivo quasi forzoso di otto milioni di cinesi Han allettati dai benefici economici e sociali. Una colonizzazione voluta da Mao per il quale il popolo delle nevi non era numericamente suffciente a garantire lo sviluppo ecomonico che Pechino tenta ancora di realizzare a tappe forzate annettendosi territori di frontiera (nell'Amdo inglobato nella provincia cinese del Quing Hai i tibetani sono solo il 28% della popolazione e nel Kham non superano il 10%) e creando zone franche con la speranza di attrarvi anche investimenti stranieri.
La politica di modernizzazione maschera in realtà la razzia delle enormi risorse naturali di cui il Tibet è ricco: le riserve minerarie del solo U Tsang, oggi Tar, sono state valutate in 80 miliardi di dollari, rapportati alle antiquate tecnologie estrattive di cui la Cina dispone. Fonti ufficiali hanno calcolato che dal '78 al '91 il Tibet ha reso alla Cina 34 miliardi di dollari in soli minerali. E i profitti della vendita di legname non sono da meno. Nell'Amdo e nel Kham, le regioni più verdi, sono stati abbattuti in venticinque anni 100 milioni di alberi, 10.958 alberi al giorno, il 40% dell'intero patrimonio forestale, con un introito di 54 miliardi di dollari. La massiccia deforestazione ha mutato il fragile ecosistema dell'altopiano dai cui ghiacciai nascono i più importanti fiumi dell'Asia: l'Indo, l'Oxus degli antichi greci, il Brahamaputra, il mekong, lo Jangtzekiang. E con tutte queste ricchezze il Dalai Lama è costretto a vivere delle donazioni internazionali. Il piano quinquennale, dal '95 al 20
00 prevede una spesa di 37 milioni di dollari per realizzare 186 progetti di sviluppo tra i quali l'assistenza ai nuovi profughi, che a decine varcano clandestinamente la frontiera tibetana per cercare rifugio in India. Ma queste non sono le sole preoccupazioni che affliggono il Dalai Lama. Vi è il conflitto con Pechino sull'undicesima reincarnazione del Panchen Lama, la seconda autorità politicoreligiosa del Tibet, che i lama favorevoli alla Cina hanno riconosciuto in un bimbo imposto da Bejing mentre quello scelto dal Dalai Lama è prigioniero con la sua famiglia in una località segreta della Cina. Uno scontro che sembra religioso ma che in realtà è politico poiché il Panchen Lama, molto amato dai tibetani, non fuggì dal Tibet ma rimase nel monastero di Tashi Lumpo divenuto col tempo la roccaforte del lamaismo favorevole ai cinesi e la sua sottomissione a Pechino ne favorirebbe la politica.
Vi è la diaspora tibetana e il malcontento che serpeggia tra i giovani della "generazione di mezzo", quella nata in esilio, che non si è integrata né intende farlo, dove l'alto indice di disoccupazione e l'insoddisfazione per lo status di profughi sfociano in prostituzione, droga, violenza e nella contestazione della politica del governo. E la stessa vita del Dalai Lama è in pericolo. Già dieci anni fa il Nechung, il potente oracolo di Stato, ne aveva previsto il tentativo di assassinio per mano degli Shugfhen, una setta adoratrice di una divinità avversa a tutti i Dalai che in cambio di fortune materiali pretende cieca osservanza e l'eliminazione dell'"Oceano di saggezza". Una diatriba religiosa interna, nella quale non è certo estranea la lunga mano cinese. La situazione è divenuta così drammatica da far prevedere l'estinzione dei tibetani in un paio di generazioni. E allora è comprensibile la fretta del Dalai Lama nel ricondurre il suo popolo in patria, anche a costo di gravi compromessi con Bejing. Primo
fra tutti la rinuncia alla totale indipendenza contro una seppur limitata autonomia interna e il rispetto dei diritti umani. Un baratto che non sembra sgradito a Pechino il quale riceverebbe in cambio dall'Occidente, Stati Uniti in testa, sostanziosi aiut economici e permetterebbe a questo di tacitare la coscienza.