Da "Il Giornale" 2 luglio 1997 - pag. 21Di Luca Romano
LONDRA In Cina la vita di un uomo non conta nulla. Le fucilazioni sono un fatto praticamente quotidiano tanto che possiamo dire con buona certezza che qualcuno da qualche parte in quell'immenso Paese in questo momento muore davanti a un plotone di esecuzione. Può darsi che il criminale sia un omicida, un funzionario che ha intascato troppe tangenti, uno psicopatico sessuale, un prosseneta, un trafficante di narcotici o anche di esseri umani, o una persona innocente tritata dagli ingranaggi di una macchina statale capace di essere cieca e impietosa. E può anche darsi che sia un dissidente politico. Allora perché Wei Jingsheng è ancora vivo? Se vi è qualcuno che "meritava" di morire secondo i parametri dispotici e repressivi dell'oligarchia comunista cinese, Wei è sicuramente il »miglior candidato alla pena capitale. E' stato il rappresentante più brillante del primo movimento per la democrazia in Cina e in tutti questi anni non ha mai cambiato un virgola o ritirato una parola. Anzi, durante i primi quindici
anni di detenzione ha scritto decine di lunghe lettere dal carcere, sia alla famiglia sia direttamente ai massimi dirigenti, per criticare a volte ironicamente, a volte con tono insolente e salace. Le lettere indirizzate a Deng Xiaoping, a Hu Yaobang e a Zhao Ziyang, i tre principali leader della Cina negli anni Ottanta, rivelano un uomo gentile, razionale, con uno splendido senso dell'umorismo e un'onestà che lascia ammirati. Un ottimista che sostiene, contrariamente al conformismo imperante, che per progredire la Cina deve "mirare alle stelle" e »uscire dal sentiero battuto del semplice buon senso . Quando la Cina lo ha liberato nel 1995, nel quadro di un'offensiva diplomatica mondiale per ospitare le Olimpiadi del 2000, Wei ha rifiutato di uscire dalla prigione senza le sue lettere e appena libero si è rimesso subito a fare campagna per le sue idee democratiche. Dopo pochi mesi lo hanno rimesso dentro e condannato a 14 anni. Ora le sue prigioni sono state pubblicate in un libro The courage to stand alone
, (il coraggio di resistere da solo, editore Viking), un'opera che è già diventata la Bibbia del movimento dissidente in Cina e all'estero. Nonostante le angherie e le torture, anziché "riformarsi attraverso il lavoro" Wei ha usato gli anni in carcere per dare maggiore chiarezza e coerenza al suo pensiero e dal punto di vista di Pechino, è un formidabile e pericoloso nemico. Allora perché lasciarlo vivere? Due risposte sono possibili. Una è che la dirigenza ha commesso un grave errore di giudizio e ora non le resta che rimediare, accelerando la sua fine in prigione. La settimana scorsa Wei è stato brutalmente picchiato da un gruppo di carcerati, non per la prima volta e probabilmente su ordine delle autorità dai cosiddetti "fiduciari" , specie di kapò del sistema penitenziario cinese incaricati di torturare i prigionieri più duri da "cuocere", a volte in cambio di una riduzione della pena. L'altra risposta è che nessuno poteva prevedere che col tempo Wei sarebbe diventato moralmente e psicologicamente più fo
rte, che avesse la stoffa dell'eroe e che la coerenza delle sue convinzioni sarebbe diventata col tempo più limpida e solida. Molti altri prigionieri politici sono stati distrutti dall'esperienza e quando sono usciti di prigione hanno scelto la
strada dell'esilio.
Wei fu tentato all'inizio di raggiungere un compromesso con le autorità ma poi rimpianse l'idea e scrisse: "Non prenderò mai più in considerazione la possibilità di abbandonare i miei principi per concludere un affare.. Non ho voglia di fare l'eroe, ma nemmeno di essere condannato dalla storia". E in una lettera a Deng Xiaoping (9 novembre 1983) scrisse: »Dopo tutto se uno possiede il minimo senso della giustizia, quando si imbatte in una situazione intollerabile, non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere". Wei non si spezzò, cosa che nessuno - nemmeno lui era in grado di prevedere. Nei primi sei anni dopo l'arresto, fra il 1979 e il 1985, lo lasciarono marcire quasi metà del tempo in completa solitudine, senza letture (a parte l'insulso Quotidiano del popolo senza luce del sole, senza alcun contatto familiare o umano). Nel 1984 aveva talmente perso l'abitudine di parlare che le corde vocali erano divenute incapaci di esprimere un suono umano. Era entrato in prigione giovane e sano a 29 anni, ma tempo
dopo era già fisicamente distrutto, soffriva di palpitazioni cardiache, diarrea e crampi allo stomaco, vomitava, non riusciva a mangiare nulla pur sforzandosi di ingoiare qualcosa per sopravvivere. Oltretutto quasi tutti i denti ballavano e le gengive si erano gonfiate per le infezioni. Doveva mettere a mollo il pane cotto al vapore per ammorbidire la mollica e ingoiare. Quando sarà liberato nel 1995, in bocca gli erano rimasti appena dodici denti. Nell'estate del 1989 Wei fu trasferito, »per motivi di salute dal campo di lavoro nella provincia di Qinghai sull'altipiano del Tibet a una prigione dove vengono estratti i sali minerali lungo la costa del Hebei. Qui le sue condizioni, anziché migliorare, peggiorarono per la mancanza di cure. Il rancio si era ridotto a riso freddo e acqua non potabile. Gli arti si gonfiarono, non riusciva a camminare e nemmeno a lavarsi. La sinusite gli dava emicranie continue, la diarrea e i crampi peggiorarono, il cuore aveva un battito accelerato e lo faceva soffrire "ogni tr
e o cinque ore". I "fiduciari" lo tenevano sveglio tutta la notte facendo baccano. Altri, subendo queste torture, avrebbero prima o poi accettato di piegare il capo e cercare salvezza con un'autocritica, o uno smussamento: concetto che in Italia è capito al volo e che conosce stuoli di praticanti. Wei Jingsheng provò a piegare il capo, ma non vi riuscì e dovendo per forza seguire la sua natura, oggi subisce una lunghissima esecuzione a freddo. In queste ore che Hong Kong, città libera e prospera, ritorna alla Cina, ricordiamo Wei Jingsheng punito per avere scritto per primo queste parole su un muro di Pechino nel 1979: "La mancanza di democrazia è la causa principale dei molti problemi della Cina .