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Conferenza Tibet
Partito Radicale Roma - 9 marzo 1998
Discorso di S.S. il Dalai Lama in occasione del trentanovesimo anniversario dell'insurrezione di Lhasa

All'alba del nuovo millennio, in tutto il mondo stanno avvenendo grandi cambiamenti. A fronte di alcuni casi di nuovi conflitti, è incoraggiante poter essere testimoni della nascita di uno spirito di dialogo e di riconciliazione in molte, tormentate aree del mondo. In un certo modo, il ventesimo secolo potrebbe essere definito un secolo di guerre e di spargimenti di sangue. Ritengo che l'umanità, nel suo complesso, abbia tratto una lezione dall'esperienza acquisita e, di conseguenza, credo sia diventata più matura. Se agiremo con determinazione e dedizione, possiamo quindi sperare che il prossimo secolo sia caratterizzato dal dialogo e dalla risoluzione non violenta dei conflitti.

Oggi, mentre commemoriamo il trentanovesimo anniversario della nostra battaglia per la libertà, desidero esprimere il mio sincero apprezzamento e il mio grande rispetto per la capacità e la pazienza con cui il popolo tibetano affronta i suoi difficili problemi. Lo stato attuale della situazione in Tibet e la mancanza di un significativo progresso nella risoluzione del problema tibetano stanno senza dubbio causando un crescente senso di frustrazione tra molti di noi. Sono preoccupato perché alcuni potrebbero sentirsi spinti a cercare vie di soluzione non pacifiche. Se da un lato comprendo il loro sentimento, dall'altro desidero ancora una volta ribadire fermamente l'importanza di mantenere del tutto non violenta la nostra lotta per la libertà. Nel nostro lungo e difficile cammino, il sentiero della non violenza deve rimanere una questione di principio. E' mia ferma convinzione che, a lungo termine, questo tipo di approccio è il più pratico e porterà ai risultati migliori. Finora la nostra lotta pacifica ci

ha procurato la simpatia e l'ammirazione della comunità internazionale. Grazie alla nostra battaglia non violenta ci stiamo proponendo come un esempio e, in questo modo, contribuiamo alla diffusione di una cultura politica globale di non violenza e dialogo. I cambiamenti radicali avvenuti in tutto il mondo hanno toccato anche la Cina. Le riforme, le iniziative da Deng Xiaoping, hanno cambiato non solo l'economia cinese, ma anche il sistema politico, rendendolo meno ideologico, meno basato sulla mobilitazione di massa, meno coercitivo e meno soffocante per il cittadino medio. Lo stesso governo è considerevolmente meno centralizzato. Inoltre, la dirigenza cinese post Deng Xiaoping sembra diventata più flessibile per quanto riguarda la politica internazionale. Ne è prova la maggiore partecipazione della Cina ai consessi internazionali nonché la sua cooperazione con le organizzazioni e le agenzie di tutto il mondo. Una significativa evoluzione e un risultato in questo senso è costituito dal morbido passaggio,

avvenuto lo scorso anno, di Hong Kong alla sovranità cinese e dal mondo, pratico e flessibile, in cui il governo di Pechino tratta le questioni riguardanti Hong Kong. Anche alcune sue recenti dichiarazioni circa la riapertura di negoziati bilaterali con Taiwan sembrano riflettere un apparente flessibilità e un ammorbidimento delle posizioni. E' quindi fuori di dubbio che in Cina oggi si vive meglio rispetto a 15 o 20 anni fa. Siamo di fronte a lodevoli cambiamenti storici. Tuttavia la Cina continua a dover affrontare grandi problemi nel campo dei diritti umani e altre importanti sfide. E' mia speranza che la nuova divergenza di Pechino abbia la previdenza e il coraggio di garantire al popolo cinese una maggiore libertà. La storia ci insegna che il progresso materiale e il benessere non costituiscono, da soli, la piena risposta alle necessità e ai desideri della società umana. Purtroppo, in netta contrapposizione a questi positivi aspetti dell'evoluzione politica all'interno della Cina propriamente detta,

la situazione in Tibet è ancora peggiorata, nel corso di questi ultimi anni. Da qualche tempo è evidente che Pechino sta attuando in Tibet una deliberata politica di genocidio culturale. L'infamante campagna "colpisci duro" condotta contro la religione e il nazionalismo tibetano si è intensificata nel corso di quest'ultimo periodo. Questa ondata di repressione, inizialmente attuata solo nei monasteri, è stata ora estesa a tutte le componenti della società tibetana. In alcuni ambiti assistiamo al ritorno di un'atmosfera di intimidazione, coercizione e paura che ricorda i giorni della Rivoluzione Culturale. In Tibet, la violazione dei diritti umani continua ad essere ampiamente diffusa. Gli abusi compiuti nei confronti dei diritti dei tibetani sono di un tipo particolare e tendono ad impedire che i tibetani, in quanto popolo, esprimano la loro identità e cultura nonché il desiderio di preservarle. La cultura buddista infonde nei tibetani valori e ideali quali l'amore e la compassione, che apportano notevole

beneficio dal punto di vista pratico e sono di grande importanza nella vita di tutti i giorni. Ecco perché desiderano preservarla. Le violazioni dei diritti umani in Tibet sono quindi spesso il risultato di una politica di discriminazione razziale e culturale e sono sintomi e conseguenze di un problema ben più grave. Di conseguenza in Tibet, nonostante alcuni miglioramenti in campo economico, la situazione dei diritti umani non è migliorata. Si potrà risolvere il problema dei diritti umani soltanto affrontando la questione tibetana. E' un fatto ormai noto che il cattivo stato delle cose in Tibet non è di beneficio né al Tibet stesso né alla Cina. Continuare così non serve né ad alleviare la sofferenza del popolo tibetano né a garantire alla Cina quella stabilità e quell'unità di così grande importanza per la dirigenza di Pechino. Inoltre, una delle maggiori preoccupazioni della leadership cinese, è stata quella di migliorare la propria immagine a livello internazionale. Tuttavia la sua capacità di risolve

re pacificamente il problema tibetano ha oscurato l'immagine e la reputazione internazionale della Cina. Ritengo che una soluzione della questione tibetana potrebbe avere delle conseguenze estremamente positive per l'immagine della Cina nel mondo, anche per quanto concerne le questioni di Hong Kong e Taiwan.

Riguardo a una soluzione bilateralmente accettabile del problema tibetano, la mia posizione è molto chiara. Non chiedo l'indipendenza. Come ho già detto molte volte, quello che chiedo è che sia data ai tibetani l'opportunità di avere una vera autonomia che consenta loro di preservare la propria civiltà e che consenta alla loro peculiare cultura, religione, lingua e modo di vivere, di crescere e prosperare. La mia maggiore preoccupazione è quella di assicurare la sopravvivenza del popolo tibetano e della sua peculiare eredità culturale basata sul Buddhismo. A questo fine, come i passati decenni hanno chiaramente mostrato, è essenziale che i tibetani possano gestire la politica interna del paese e scegliere liberamente il tipo di sviluppo in campo sociale, economico e culturale. Non credo che la dirigenza cinese possa rivolgere alcuna obbiezione fondamentale a questa proposta. Essa ha sempre affermato che la presenza cinese in Tibet aveva come scopo quello di lavorare per il benessere dei tibetani e di "aiuta

re il paese a svilupparsi". Perciò , se esiste una volontà politica, la dirigenza cinese non può non iniziare a prendere in esame la questione tibetana ed aprire un dialogo con noi. Questo è il solo modo corretto per assicurare alla Cina quella stabilità e quell'unità che i suoi dirigenti affermano essere l'obbiettivo primario. Colgo questa occasione per chiedere al governo di Pechino di prendere in seria e sostanziale considerazione i miei suggerimenti. Ritengo fermamente che il dialogo e la volontà di guardare alla realtà del Tibet con onestà e chiarezza possano condurci ad una effettiva soluzione. E' venuto per tutti noi il tempo di "cercare la verità dei fatti", di trarre una lezione dallo studio sereno e oggettivo del passato e di agire con coraggio, chiarezza e saggiamente.

Le trattative devono portare a stabilire, tra il popolo tibetano e quello cinese, un rapporto basato sull'amicizia e sul reciproco interesse. Devono assicurare stabilità e unità. Devono consentire al popolo tibetano di esercitare un'effettiva autonomia nel rispetto della libertà e della democrazia, in modo tale da permettergli di preservare ed accrescere la sua peculiare cultura e di proteggere il delicato ecosistema dell'altopiano tibetano. Queste sono le istanze principali. Tuttavia, il governo cinese sta compiendo considerevoli sforzi per confondere la reale posta in gioco. Afferma che i nostri sforzi mirano al ripristino del vecchio sistema sociale tibetano nonché dello status e dei privilegi del Dalai Lama. Per quanto riguarda l'istituzione del Dalai Lama, ho pubblicamente dichiarato, già nel 1969, che spetta ai tibetani decidere se questa istituzione dovrà continuare o no. Per quanto riguarda la mia persona, ho reso noto, nel 1992, con un atto formale, che quando ritorneremo in Tibet non ricoprirò alc

una carica in un futuro governo tibetano. Inoltre, nessun tibetano, in esilio o in Tibet, desidera ripristinare il vecchio ordinamento sociale. E' quindi spiacevole che il governo cinese si ostini a portare avanti una simile campagna di propaganda falsa e senza fondamento. Non aiuta a creare un'atmosfera adatta al dialogo e spero che Pechino smetta di fare accuse del genere. Vorrei inoltre esprimere il mio sincero apprezzamento e la mia gratitudine ai molti governi, parlamenti, organizzazioni non governative, gruppi di sostegno al Tibet e singole persone che continuano ad esprimere la loro profonda preoccupazione per la repressione in atto in Tibet e chiedono che la questione tibetana venga risolta attraverso pacifiche trattative. Gli Stati Uniti hanno creato un precedente nominando un Coordinatore Speciale per gli Affari Tibetani allo scopo di facilitare il dialogo tra noi e il governo cinese. Il Parlamento Europeo e quello Australiano hanno caldeggiato analoghe iniziative. Lo scorso mese di dicembre, la Co

mmissione Internazionale dei Giuristi ha pubblicato il terzo documento sul Tibet intitolato "Tibet, i Diritti Umani e il Governo della Legge". Sono iniziative tempestive ed eventi incoraggianti. Inoltre, la crescente empatia, il sostegno e la solidarietà dimostrata dai fratelli e dalle sorelle cinesi, sia residenti in Cina sia all'estero, nei confronti dei diritti fondamentali del popolo tibetano e della mia posizione, che ho voluto chiamare "della Via di Mezzo", sono fonte di particolare ispirazione e di grande incoraggiamento per tutti noi tibetani. In occasione del cinquantesimo anniversario dell'indipendenza dell'India desidero altresì esprimere, a norme del popolo tibetano, le nostre più sentite congratulazioni e ribadire il nostro infinito apprezzamento e gratitudine al popolo e al governo di questo paese che è diventato una seconda casa per la maggior parte dei tibetani in esilio. L'India non solo rappresenta per noi rifugiati un porto sicuro, ma è anche il paese la cui antica filosofia dell'ahimsa

e la tradizione democratica così fortemente radicata hanno ispirato e dato forma ai nostri valori e alle nostre aspirazioni. Ritengo inoltre che l'India possa e debba svolgere un ruolo costruttivo ed influente nella risoluzione pacifica del problema tibetano. La mia "Posizione della Via di Mezzo" è in sintonia con la politica indiana nei confronti del Tibet e della Cina. Non vi è motivo per cui l'India non si debba impegnare attivamente nell'incoraggiare e promuovere il dialogo tra i tibetani e il governo cinese. E' evidente che in assenza di pace e stabilità sull'altopiano tibetano non è realistico pensare che i rapporti Sino- Indiani si possano nuovamente basare sulla reciproca e sincera fiducia.

Lo scorso anno abbiamo effettuato un sondaggio d'opinione fra tutti i tibetani in esilio e abbiamo sentito i suggerimenti che ci venivano dal Tibet circa la possibilità di indire un referendum attraverso il quale i tibetani potessero decidere come proseguire la loro battaglia per la libertà. Sulla base degli esiti di questo sondaggio e dei suggerimenti che ci sono pervenuti dal Tibet, l'Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano, cioè il nostro parlamento in esilio, ha approvato una risoluzione in base alla quale mi viene conferito il potere di decidere discrezionalmente sull'argomento, senza ricorrere al referendum. Desidero ringraziare il popolo tibetano per la grandissima fiducia e speranza riposta in me. Continuo a credere che la mia "Posizione di Mezzo" sia il modo più realistico e pragmatico per risolvere pacificamente il problema. Questa posizione tiene conto delle esigenze del popolo tibetano e, allo stesso tempo, garantisce unità e stabilità alla Repubblica Popolare Cinese. Continuerò quindi su ques

ta via con totale dedizione e cercherò con tutte le mie forze di arrivare fino alla dirigenza cinese.

Mentre rendo omaggio al coraggio degli uomini e delle donne del Tibet che sono morti per la causa della libertà, prego perché la sofferenza del nostro popolo abbia presto fine e per il bene di tutti gli esseri senzienti.

Il Dalai Lama

 
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