di Guido Ceronettida LA STAMPA, 17 maggio 1998
Importante e beneaugurosa figura, il Dalai Lama... Triste e infaticabile sommita' religiosa in esilio, una gravita' che s'impone, emersa da un'oppressione scellerata, di cui a nessuno importa niente, visto che con l'oppressore si fanno affari mondiali...
Di quelli che, contando nulla, hanno un peso di profondita' nelle cose interiori del mondo... A differenza del Papa, poggia su basi dottrinali serie, sulla roccia del Dharma, invece che su una teologia logorata, annacquata e friabile, che non regge ad un minimo di rigore critico e che tiene imprigionata, condor tra le sbarre, la luce giovannea e gnostica di Cristo.
Dalai Lama, scheggia di verita' in questo letamaio di tenebra...
E non ha plaudenti ammassati a miriadi sotto il pugno del sole tropicale ad attenderlo, ne' zampillano centinaia di telecamere dai suoi viaggi di esule malinconico, ne' proclama giubilei di perversi affaroni in vista di un Duemila che per lui e i suoi monaci - come per qualunque persona che abbia un cuore - e' privo di senso.
Eppure, proprio lui, l'intrepido Dalai Lama, il capo spirituale piu' noto dopo il Papa, trovandosi in America, due o tre giorni fa, ha fatto un pubblico elogio (e subito tutto il mondo l'ha saputo) di una turpitudine, di quel che per un capo spirituale non puo' essere altro che una turpitudine: la cinque volte sperimentata in due giorni bomba atomica indiana del Rajastan.
Per me, che credo nell'aura personale avvolgente i nostri corpi di morte, l'aura del Dalai Lama e' stata contaminata da questa dichiarazione, non potra' piu' essere quella di prima.
Non va dimenticato che, per i seguaci del buddismo tibetano, il Dalai Lama e' la reincarnazione del Buddha, e' il Buddha vivente, illuminato illuminatore.
Se fosse piuttosto avatar di Shiva, il Dio del lingam, che crea e distrugge, l'elogio dell'atomica (indiana o no, non importa la bandiera) sarebbe stato accettabile, sebbene amaro, perche' l'occhio di Shiva non e' turbato dall'uovo deposto dall' Enola Gay il 6 agosto 1945 e questo e' un paesaggio per la sua danza: "Dall'altura, vedevo nella distesa di sabbia dei crateri innumerevoli, dove giacevano delle ossa, specialmente, e molto distintamente, delle teste: le ceneri, una volta consumate, erano state disperse dal vento. C'erano teste le cui orbite guardavano un angolo di cielo, altre stringevano le mascelle con aria di rancore. I nostri Antichi, per designare le teste di morto, dicevano: ''quello che e' esposto nella pianura''". (Masuji Ibuse, Pioggia nera, 1970).
Lo scandalo essenziale della dichiarazione e' nella sua perfetta giustificabilita'.
Non gli sara' stata estorta con la pistola alla nuca, ma certamente gli indiani un discorso di questo tipo gliel'avranno fatto: "Dal tempo della tua adolescenza sei ospite nostro, ben protetto e prossimo alle frontiere della tua patria perduta. A Dharamsala e dappertutto in India i tuoi monaci compiono i loro riti liberamente e i vostri sostenitori denunciano al mondo i misfatti e le distruzioni dei comunisti cinesi in Tibet. Ci costi un po' caro ma siamo contenti di mostrarci generosi con dei perseguitati. Ecco e' venuto il momento in cui puoi con un gesto in nostro favore mostrare al mondo la tua gratitudine verso di noi e pagare il tuo debito. Mentre tutti ci danno addosso per esserci fatta una dentiera atomica, tanto necessaria per spaventare i nostri vicini (tra i quali ci sono i tuoi brutali invasori), tu, la', in quell'America che fa tanto la puritana, dovresti gentilmente dichiararti d'accordo col governo che da sempre ti ospita, esaltare il buon diritto anche dei fuoricasta all'arsenale atomico, ecc
etera... guarda, basteranno poche parole, ma parole di Buddha vivente, parole di Dalai Lama...".
Una telefonata da Nuova Delhi, e il grande esule religioso, tra l'elogio di qualcosa d'indubbiamente, per lui, ripugnante, e la prospettiva, in caso di diniego, di non passarla liscia neppure nella sua patria di adozione, forse anche di una cacciata, avra' chinato la testa e scelto di cavalcare il fragoroso delirio dell'India, di elogiare l'abietta "cosa senza nome".
Non e' neppure da escludere che la comunicazione gli sia pervenuta telepaticamente... E' il Dalai Lama: puo' bene aver percepito il desiderio di approvazione dei suoi ospiti-padroni (purtroppo, non ospiti e basta) senza bisogno di una richiesta esplicita, averla addirittura preceduta.
Oppure... Oppure la notizia degli esperimenti ha messo un sorriso di compiacimento nella tristezza abituale dell'illustre monaco, dal momento che l'orribile congegno sara' presto in grado di minacciare di sterminio gli stessi sterminatori e occupatori del Tibet.
Giustificabile e comprensibile, dunque, la dichiarazione del Dalai Lama. Ma pressioni ricevute, gratitudine da dimostrare e compiacimento eventuale sono eventi di logica politica che non hanno nulla a che fare con le regole assolute della Legge suprema alle quali chi sia venuto al mondo come reincarnazione dell'Illuminato e testimonianza vivente del Risveglio e' implacabilmente tenuto. Per un Dalai Lama l'obbedienza ad un'altra legge, ad una contingenza costrittiva, e' un'eclisse forte, un confondersi con l'ombra, una rinuncia alla purezza dell'aura, che non vediamo ma che vogliamo rimanga pura.
Piegarsi cosi' alle forze cieche della vita e' condursi tragicamente, e' fare una scelta tragica. Mai il tragico manchera' del tutto di grandezza, pero' adesso, dove prima brillava la luce del Dalai Lama, c'e' un'ombra grigia. La tenebra ha fatto, tacitamente, un altro passo avanti.