Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
lun 30 giu. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 17 luglio 1999
TAIWAN-CINA/CORSERA/STORIA

(Corriere della Sera, quotidiano, Italia, 17 luglio 1999)

INTRIGO INTERNAZIONALE

Mao, Chiang Kai-Shek e gli Usa. Commedia degli equivoci ancora senza finale

di Sergio Romano

Esistono certamente province "irredente" di cui è difficile contestare l'appartenenza agli Stati con cui hanno in comune la lingua, la religione, la cultura e le tradizioni storiche. Taiwan, a dispetto delle dichiarazioni del governo di Pechino, non sembra rientrare in questa categoria. Quando i portoghesi vi sbarcarono nel 1590 e la battezzarono, per le sue bellezze, Formosa, l'isola era abitata da una popolazione indigena che non aveva alcun rapporto con il Continente.

I cinesi arrivarono più tardi, nel corso del Seicento. Erano contadini del Fukien, costretti a emigrare dalle carestie che avevano devastato in quegli anni la loro provincia. Qualcuno si mise a coltivare la terra, molti si dettero alla pirateria. Più tardi giunsero altri cinesi, ma erano partigiani della dinastia Ming, costretti a fuggire dopo l'avvento al potere degli imperatori Manchu. Insieme a loro in quegli anni arrivarono gli olandesi, gli spagnoli, i giapponesi, tutti decisi a prendersi un pezzo di isola per i loro traffici marittimi e le loro scorribande corsare.

La Cina conquistò Formosa alla fine del Seicento e la tenne sino alla guerra con il Giappone, nel 1895, quando dovette cederla al vincitore. Nell'intervallo fra due padroni gli isolani proclamarono la "Repubblica di Taiwan" e cercarono di difendere la loro indipendenza. Ma i giapponesi repressero la rivolta, conquistarono l'isola, vi coltivarono il riso e lo zucchero, ne fecero una base per le loro operazioni contro la Cina negli anni Trenta e contro le forze anglo-americane durante la Seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto Roosevelt decise che Formosa doveva tornare alla Cina, vale a dire al Paese che l'aveva posseduta per due secoli dalla fine del Seicento alla fine dell'Ottocento. A quale Cina? A nord degli stretti di Taiwan il grande "Impero di mezzo", nel frattempo, si era diviso in due: da un lato le milizie popolari di Mao Zedong, reduci dalla lunga lotta contro le forze giapponesi, dall'altro l'esercito nazionalista di Chiang Kai-Shek. Gli americani cercarono di ricomporre l'unità del Paese

e Truman chiese al generale Marshall di mediare fra le due parti. Fu tutto inutile. L'esercito popolare occupò, una alla volta, le città del Kuomintang, da Shanghai a Nanchino, e Mao, nell'ottobre del 1949, annunciò al mondo da Pechino la nascita di un nuovo Stato comunista: la Repubblica Popolare cinese.

Ma Chiang nel frattempo era riuscito a fuggire. Portando con sè una parte del suo esercito, due milioni di nazionalisti e le collezioni dei musei imperiali, il generalissimo sbarcò nell'isola e piantò a Taipei la bandiera della Repubblica cinese. Comincia da allora una delle più intricate commedie degli equivoci del secolo Ventesimo. Per volontà di Roosevelt la Cina occupa uno dei cinque seggi permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti. Ma l'uomo che siede sulla poltrona cinese al Palazzo di Vetro è, fino agli anni Settanta, l'ambasciatore di un'isola che conta, dopo la guerra, circa nove milioni di abitanti. L'America non intende permettere che il seggio passi a Pechino e che la Repubblica Popolare conquisti in tal modo un diritto di veto. La guerra di Corea e la partecipazione di forze cinesi all'attacco contro il sud irrigidiscono ulteriormente la posizione degli Stati Uniti. Nella grande strategia americana del "containment" (la politica diretta a impedire l'espansione del comunismo nel mo

ndo) Taiwan diventa una irrinunciabile marca di frontiera. Quando le batterie costiere della Cina comunista cominciano a martellare le isole nazionaliste di Quemoy e Matsu (1958), il presidente Eisenhower annuncia esplicitamente che non permetterà colpi di mano.

La situazione cambiò quando Nixon e Kissinger decisero di mettere fine alla guerra del Vietnam e di sfruttare la "guerra fredda" scoppiata fra cinesi e sovietici alla fine degli anni Cinquanta. Nell'ottobre del 1971 le Nazioni Unite dettero a Pechino il seggio che era stato occupato sino a quel momento da Taipei. Nel febbraio del 1972, durante il suo viaggio in Cina, Nixon pronunciò una frase molto ingarbugliata: "Gli Stati Uniti riconoscono che tutti i cinesi, da una parte e dall'altra degli stretti di Taiwan, credono nell'esistenza di una sola Cina e nell'appartenenza di Taiwan alla Cina. Il governo degli Stati Uniti non ha nulla da eccepire". Era una affermazione salomonica che dava ragione ad ambedue i contendenti e di cui Pechino, per il momento, si accontentò. Più tardi, nel 1978, l'America fece un altro passo: riconobbe l'esistenza di una sola Cina e ammise che Taiwan ne faceva parte. Ma si riservò il diritto di "mantenere rapporti culturali, commerciali e altre relazioni ufficiose con il popolo di Ta

iwan". Nelle "relazioni ufficiose", con grande stizza del governo di Pechino, sono comprese anche le forniture di armi, fra cui i centocinquanta F16 venduti a Taiwan nel 1992.

Dagli anni Settanta quindi Formosa-Taiwan è finita in una specie di limbo politico-diplomatico. Continua a proclamarsi "Repubblica di Cina", ma è riconosciuta soltanto da pochi Stati, politicamente non molto rilevanti (la Santa Sede, la Macedonia, Papua Nuova Guinea). Ha perduto il suo seggio all'Onu, ma è diventata una delle maggiori potenze economiche dell'Asia. Nessuno può avere relazioni politiche con Taipei senza suscitare la collera di Pechino; ma nessuno può permettersi il lusso di ignorare la sola economia asiatica, con Singapore, che sia uscita senza grandi danni dalle crisi finanziarie del 1997. L'America vuole andare d'accordo con Pechino, ma non può rinunciare al valore strategico di Taiwan. L'isola si è progressivamente staccata dal Continente, ha acquistato nel corso degli ultimi cinquant'anni una nuova identità, ha rinunciato a proclamarsi erede della Cina nazionalista e vorrebbe essere semplicemente "Taiwan". Ma il suo desiderio d'indipendenza, come abbiamo constatato negli scorsi giorni, si

scontra con il dogma nazionalista e pan-cinese di Pechino. Il problema, in altre parole, è insolubile. Vi è una sola via di uscita in queste circostanze: che la Cina e gli Stati Uniti se ne rendano conto e, dopo qualche bellicosa dichiarazione di facciata, passino a occuparsi di altre cose.

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail