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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 17 luglio 1999
CINA/CORSERA/DISSIDENZA ESTERNA

(Corriere della Sera, quotidiano, Italia, 17 luglio 1999)

La fuga, la "tortura dell'esilio", la nuova vita a Taiwan: storia di Wu'er Kaixi, leader del movimento studentesco dell'89. "Ero a Tienanmen, ora lotto dai microfoni di una radio sull'isola"

di Marco Del Corona

Tienanmen era ancora una piazza affollata di studenti quando Wu'er Kaixi, davanti alle telecamere di regime, osò contraddire il primo ministro cinese Li Peng. Maggio dell'89. Poco dopo, Tienanmen sarebbe diventata sinonimo di carneficina di Stato. Wu'er Kaixi pretendeva libertà: allora aveva 22 anni ed era uno dei leader della protesta democratica e dava voce a migliaia di ragazzi come lui. Ripete adesso quello che pensava allora: "Solo la coscienza civica che ci rende cittadini può portare alla democrazia". Sfuggì alle baionette del 4 giugno e alle retate dei giorni successivi. Poi Wu'er scivolò in un'esistenza randagia, "in quella tortura spirituale che chiamano esilio. Un turbine: porta un essere umano a fare i conti con aspetti di sé che normalmente si evita". Dopo qualche anno trascorso negli Usa, oggi Wu'er vive tra i parallelepipedi climatizzati di Taichung, Taiwan centrale, grattacieli mezzi vuoti corrosi dal monsone. Si è sposato con una taiwanese, ha un figlio. Ma continua a fare i conti con l'ango

scia della fuga: "Nell'esilio ti rendi conto di quanto sei codardo, anche".

Wu'er Kaixi sta imparando a essere un taiwanese. Con la sua voce e una radio. Le invidie che fermentano nella diaspora della dissidenza l'hanno subito bollato con sufficienza: "Kaixi fa il dj". In realtà, spiega lui, ha cominciato con un microfono aperto sulle frequenze di "Radio M": "Telefonate nel cuore della notte. Una situazione molto intima, puoi mandare in onda il tuo cuore e, infatti, il programma si chiamava "La vera passione". Suscitavo sconcerto, io che venivo dalla Cina continentale e che, pur stando a Taiwan, non rinunciavo alla mia identità. Spiegavo perché ero venuto sull'isola: perché la Cina continentale e Taiwan hanno le stesse basi, con la differenza che qui si sta lavorando per consolidare la democrazia. Mi contestavano il diritto di criticare Taiwan, ma io pago le tasse e al tempo stesso vedo i problemi. Come quello della criminalità: anche mio figlio potrebbe essere rapito da una banda di mafiosi".

La trasmissione che ora dirige Wu'er si chiama "Buon giorno": "Parlo io, senza telefonate. Commento, discuto". Conserva il gusto della critica: "Pechino, dove sono nato e ho vissuto quasi tutta la vita fino all'89, era in fondo più internazionale di Taiwan. Che tuttavia sta aprendo la sua mentalità. Soprattutto, Taiwan mi va benissimo per cercare di capire come la democrazia sia applicabile ai valori cinesi. In fondo il background politico di quest'isola è lo stesso della Cina comunista: era una dittatura come è ora la Repubblica Popolare, ma si è evoluta. Io credo che a Pechino possa succedere quello che è accaduto a Taipei e io a Pechino voglio tornare, prima o poi".

Tornare. Quando? Wu'er, per ora, si limita ad ammettere alcune distanze con i dissidenti più anziani, come Wei Jingsheng ("ma sapremo collaborare"), e a osservare gli accenni di vivacità democratica nella Cina continentale: i librai che magari solo per profitto vendono testi proibiti, i contadini che protestano, certi media. "La partita per la democrazia si gioca laggiù. Gli attivisti scampati all'estero sono, come dire?, i giocatori in panchina. Aspettiamo il nostro turno, siamo essenziali anche noi".

A Tienanmen voleva libertà e basta, senza preoccuparsi di appartenere - unico tra i capi del movimento studentesco - a una delle minoranze più brutalmente represse della Cina, gli uiguri del Xinjiang, regione all'estremo occidente dell'impero comunista. Uiguri: musulmani, turcofoni. Gente da sempre sospetta, per Pechino, e percorsa da tentazioni irredentiste. Eppure Wu'er, nei giorni di Tienanmen, sognava una democrazia che non avrebbe guardato in faccia nessuno, uguale per han (cioè i cinesi propriamente detti), uiguri, tibetani, mongoli... Questo non cancella "l'orgoglio di essere uiguro. Anzi: appartenere a due culture aiuta a capire il diverso. Né dimentico la violenza del regime in Xinjiang. Ogni famiglia ha i suoi martiri. Non abbiamo un Dalai Lama che attragga l'attenzione del mondo su di noi. Gli uiguri sprofondano nella povertà e nella discriminazione. Questo alimenta l'odio. E dall'odio non può nascere la democrazia neppure tra chi lotta per l'autodeterminazione".

 
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