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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 22 agosto 1999
TIBET/LA REPUBBLICA/REPORTAGE

(La Repubblica, quotidiano, Italia, 22 agosto)

Il Tibet del "tutto compreso" in viaggio con i turisti cinesi. Vacanzieri e hippies sul Tetto del Mondo. A Pechino è boom dei tour organizzati.

(1 - Continua)

dal nostro inviato RENATA PISU

LHASA."BENVENUTI in Tibet" leggi scritto a grandi caratteri cinesi quando arrivi all' aeroporto di Lhasa, dove scendi dall'aereo facendo a spintoni con centinaia di turisti cinesi con i quali ti sei battuto all'ultimo sangue per salire, a Chengtu, su questo stesso aereo che è appena atterrato sul Tetto del Mondo.

E i turisti sono tutti frenetici, felici, vacanzieri in tenuta perfetta con le giacche a vento, le macchine fotografiche a tracolla, le videocamere già impugnate come pistole, tutti con il borsello in vita pieno di yuan da spendere nel Paese delle Nevi dove il sole, adesso che è quasi mezzogiorno, picchia sulle loro teste riparate da berrettini da baseball, portati con la visiera all'indietro che fa più disinvolto. "Ho sempre sognato un viaggio in Tibet", dice la signora Wang del cui gruppo io, in teoria, faccio parte, visto che uno straniero non può ottenere un visto individuale per il Tibet, così basta accodarsi e il gioco è fatto: si entra, si poggiano i piedi sull'altopiano e poi si dice addio al gruppo.

MA C'E' qualcuno che si prenderà comunque cura di te, la guida tibetana, non uno sherpa, ma un agente della locale agenzia turistica che, per fortuna, parla perfettamente cinese. Mi accoglie dicendomi: "Ecco che il tuo sogno di visitare il Tibet s'è finalmente avverato". Non mi rendo conto che si tratta di una frase fatta di benvenuto e gli spiego che, veramente, non ci avevo mai pensato, insomma, non era proprio il mio sogno ma comunque, ero contenta lo stesso.

La signora Wang che viaggia con il marito e la cognata, mentre aspettavamo i bagagli aveva raccontato che quest'estate in Cina è scoppiato il boom delle vacanze, del turismo organizzato. Me ne ero resa conto in un certo senso a Pechino dove molti dei miei conoscenti e amici erano già partiti o stavano facendo i preparativi: i Mao andavano a Shanghai, i Zhu avevano scelto Dalien, al nord, spiegando che era una città così pulita, così funzionante, che era come andare in Giappone, almeno così garantiva il depliant della loro agenzia di viaggi. I Song invece stavano per intraprendere un giro nello Shandong, volevano visitare il paese natale di Confucio. Tutti cinesi della nuova classe media emergente, tutti con dieci giorni al massimo di ferie all'anno, tutti eccitati all'idea del viaggio, la grande novità che segna un cambiamento epocale perché, come mi ha detto un amico, quel Zhu che è andato a Dalien sperando di respirare un'atmosfera un po' giapponese: "Noi cinesi non siamo mai stati dei viaggiatori, piuttos

to degli emigranti". E ora l'idea del viaggio fine a se stesso, per turismo, li ha conquistati come se fosse un assaggio di libertà individuale; e lo è perché niente, per ora, lascia pensare che tra pochi anni anche qui potrebbe prodursi la coazione all'esodo estivo di massa.

"Per me il Tibet è il massimo del viaggio", spiega la signora Wang, "è come andare all'estero ma essere sempre in Cina. Non è una cosa meravigliosa?", lo sherpa sorride mentre il marito della signora Wang le fa cenno di sbrigarsi, l'aspetta impaziente davanti all'autobus dove sono già saliti tutti quelli del "vero" gruppo dei turisti cinesi, una trentina di persone di mezza età, gente sicuramente abbiente di stato ma non straricchi, nemmeno gente di potere, del Potere, li diresti cinesi qualunque, turisti però. E questo fa tutta la differenza. Se ne vanno cantando tutti insieme in coro: "Lhasa, o mia Lhasa del cuore" verso la città che dista più di cento chilometri dall'aeroporto. Io invece salgo da sola su di una jeep con lo sherpa di nome Dazhu e mi dispiace di avergli detto che il Tibet non era il mio sogno perché quello che vedo è davvero un paesaggio da sogno: squarci di cielo azzurrissimo, bianche nuvole vaganti, verde di prati, e l' acqua di un fiume che ancora è magro, ancora non sa che diventerà il

Bramaputra.

Lhasa, Bramaputra... mi sto fabbricando delle immagini, o sono i cliché che fanno parte del mio patrimonio da definirsi ormai "novecentesco" - sì, proprio così, con la stessa punta sprezzante con cui noi si definiva un atteggiamento, un modo di pensare e di essere "ottocentesco" - a fabbricare la mia attuale percezione, il mio rapporto con uno spazio ignoto e tuttavia già consumato? Sulle pareti rocciose delle montagne intorno, dei grandi Budda in bassorilievo, delle pitture rupestri a tinte forti, delle scritte in tibetano, dei lenti nerissimi yak con i peli del mantello che scendono all'ingiù come rami di salici piangenti. Li vedo, ci sono. Loro ci sono e quindi ci sono anch'io.

Alla fine si arriva a Lhasa: una città di sogno? Sarà anche così, ma un sogno sognato da chi e quando? Passi lungo la nuova grande arteria, la via Pechino, passi davanti al Potala che ora ha come perso la sua potenza di fortezza perché non si erge imponente tra l'abitato, tra le basse case con i muri a calce e le finestre ornate tipiche di Lhasa, con i vasi di fiori ai davanzali (così era una volta), ma domina, ovvero il Potala è dominato, da una grande piazza, una replica in formato appena un po' ridotto della piazza di Tienanmen di Pechino. "Si chiama piazza del Popolo questa?" domando allo sherpa. "Sì. Ma come fai a saperlo?".

L'albergo dove mi conduce e dove ho una stanza tutta per me con un bagno dove però l'acqua scorre non sempre ma quando le pare e piace, è nel pieno centro di quel che resta della vecchia città. Da una piccola porta sulla strada affollata di negozietti e bancarelle dove si vendono tutte le cose e cosine "Made in China" che in Cina non si vendono più, per lo meno nelle grandi città, perché sono troppo brutte, si accede a una grande corte con tutto intorno degli edifici a due piani dai muri scrostrati. Sembra una vecchia casa di ringhiera milanese, con i panni stesi ad asciugare, teli di spugna a fiori, maglie, mutandoni, pantaloni, sacchi a pelo. Al centro della corte c'è un padiglione con delle tende colorate, il ristorante: di fianco un lavatoio, con una lunga vasca di cemento e una decina di rubinetti dove l'acqua viene davvero giù quando li apri.

E lì che vado a lavarmi, dopo aver posato la borsa nella stanza che mi è stata assegnata e dove un vecchio televisore trasmette soltanto i programmi del primo canale della televisione cinese, voglio dire della lontanissima Pechino; cioè, mi spiego, è come se a Napoli potessimo vedere soltanto la televisione di Oslo. Non so se il paragone regga perché il Tibet è Cina mentre Napoli non è Norvegia, comunque mi è venuto così spontaneamente in testa, in questa testa che mi gira per l'altitudine, quasi quattromila metri, alla quale bisogna assuefarsi lentamente, dicono, per ragionare come si deve, cioè come si ragiona in basso.

Ma qui siamo in alto, e allora come la mettiamo? Come possiamo avere, in alto, gli stessi pensieri che abbiamo in basso? E quali pensieri sono più degni, più elevati, quelli che abbiamo in basso o quelli che abbiamo in alto? No, non sono io che sragiono. Sono questi i discorsi che stanno facendo due ragazzi cinesi sui venticinque, trent'anni al massimo, che si stanno lavando i denti accanto a me, sputando e scaracchiando a più non posso. Non s'immaginano nemmeno che io li capisca e poi, che gli frega? Possono dire quello che vogliono, loro, e giù un ta ma de dopo l'altro, cioè sarebbe come dire figlio di puttana (letteralmente "tua madre") ma per la sequenza di questo intercalare in uso tra i giovani cinesi, sarebbe come dire "cazzo" in italiano, cioè una parola che non vuol dire niente ma serve per capirsi. Serve tantissimo. Parlano i due, un ta ma de qui, e un altro là, poi tanti "fottuto da un cane" (si riferiscono a un loro amico che li ha piantati per una ragazzetta qualunque) e alla fine si accorgono c

he li sto ascoltando, che capisco. Allora dicono: vieni a bere un tè con il burro assieme a noi, cioè per loro, quella che i cinesi giudicano una "schifezza" tibetana, è una cosa buona, meglio della Coca Cola assicurano ridendo. Rispondo che sono italiana e invece di dirmi: "ah, la vostra moda", oppure "ah, i vostri grandi calciatori" si limitano a ripetere il loro ta ma de. Gli dico che sono appena arrivata a Lhasa con l'aereo da Chengtu. loro, subito: "C..., con quei fottuti da un cane dei turisti cinesi hai viaggiato!". E allora domando: "Voi come ci siete arrivati fin quassù? "Noi? in autostop" mi rispondono. Giuro, lo so, me lo confermano anche loro due che fare l'autostop da Nanchino a Lhasa non è mica come farlo diciamo da Stoccolma a Verona. E proprio qui sta il bello. Mi raccontano delle lunghe notti passate all'addiaccio nel Qinghai ad aspettare un camion che li prendesse su, della fame che hanno patito, delle botte che si sono prese da una banda di tibetani che li avevano scambiati per "imperialis

ti cinesi". Dicono: siamo cinesi ma non imperialisti. Dicono: vuoi un po' di fumo? Dicono: ci piace vivere per la strada, così, alla giornata.

Sono tutti e due laureati, hanno i capelli lunghi raccolti a coda di cavallo, uno ha un orecchino con un turchese al lobo sinistro dell'orecchio, l'altro un tatuaggio sulla mano, una svastica, non quella nazista ma la croce buddista. Dicono che sono venuti perché hanno bisogno di spazio, di aria, di nuove frontiere. Dicono che se ne fottono di tutto, del Partito comunista cinese come del Dalai Lama. Dicono che a queste altitudini si hanno altri pensieri. O non se ne hanno per niente. Gli domando quanti cinesi come loro, che la pensano come loro, si aggirino mai per il Tibet, per il Paese delle Nevi: e perché mai? Sono forse alla ricerca di una loro nuova Shangrila? I due hippies cinesi non mi mandano a quel paese. Mi accompagnano però all'entrata del nostro ostello dove in una bacheca sono affisse ogni genere di avvisi, per lo più in cinese, soltanto pochissimi in inglese. C'è chi cerca compagni per andare fino al confine con il Nepal, chi mette in vendita la tenda che ha appena comprato perché si è stancato

e torna alla "civiltà", chi cerca un compagno o una compagna per "percorrere insieme il cammino e parlare di religione". E poi ci sono le foto, i dati anagrafici e i disperati appelli di genitori di Shanghai, di Nanchino, di Pechino, che da mesi, da anni, non hanno più notizie dei loro figli o delle loro figlie. "Chi li ha visti? Telefonate al numero...". "Non sono morti questi qui, sono diventati liberi" dicono i due hippy cinesi. Che sarebbe sbagliato, forse, pensare che siano tali e quali ai nostri hippies di trent' anni fa. Loro sono hippies di adesso e del Tibet tutto vorrebbero fare meno che un Vietnam sul quale poi, da veterani o da contestatori, amaramente rimuginare.

 
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