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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 17 settembre 1999
TIBET/L'UNITA'/ANALISI

(L'Unita', quotidiano, Italia, 16 settembre 1999)

La scelta dell'autonomia.

Tempesta cinese sul Tibet. La lotta del Dalai Lama nel libro di Lina Tamburrino.

Tutti i perche' dello scontro di Pechino contro Lhasa che escludono ogni dialogo (estratto del penultimo capitolo del libro di Lina Tamburrino "Il silenzio del Tibet", Editori Riuniti 216 pagine).

di Lina Tamburrino

L' autonomia è una rivendicazione complessa. E del tutto ovvio ritenere che pera questione tibetana il clima cambierà in meglio non appena in Cina la situazione politica sarà meno chiusa, alla testa del paese ci sarà unaclasse dirigente realmente riformatrice, regole democratiche e non l'autoritarismo e il centralismo di marca comunista ispireranno la vita pubblica e privata dell'intero paese. I più autorevoli dissidenti cinesi, da Wei Jingsheng a Wang Ruowang, da YanJiaqi a Fang Lizhi si sono cimentati con la questione tibetana e hanno avanzato un ventaglio di proposte che vanno dalla totale autonomia a unanuova collocazione del Tibet all'interno di una organizzazione federale dello Stato cinese. Ma il sostegno dei dissidenti non ha colpito più di tanto la platea dei tibetani che temono di essere usati a fini di lotta interna all'universo della politica cinese. A loro volta, anche i sostenitori cinesi di una autonomia più profonda invitano gli interlocutori tibetani, in Cina e all'estero, a dare prova di un

sano realismo. "Stiamo attenti a non ripetere la Bosnia in terra asiatica", ha scritto Xu Mingxu. Studioso cinese di cose tibetane, Xu ha preso in esame la rivendicazione del "Grande Tibet" e ha lanciato questo avvertimento: "Nel Grande Tibet ci sono cinque-sei milioni dl tibetani e setto-otto milioni di non tibetani. Se il Grande Tibet diventasse indipendente i non tibetani si solleverebbero contro i tibetani. Saremmo alla guerra civile e il Grande Tibet diventerebbe la Grande Bosnia".

Anche una nuova classe dirigente molto più disponibile a un atteggiamento positivo non potrà ignorare due aspetti fondamentali della questione tibetana. La Cina non può certamente restare indifferente alla sorte della enorme quantita' di risorse finanziarie finora spostate verso la regione autonoma, tanto meno può restare indifferente alla sorte dei cinesi - quanti siano esattamente abbiamo visto cheè difficile sapererlo - che da anni vivono e hanno contribuito alla realta' tibetana di oggi. Nel l9l2 e poi nel 1949, al crollo dell'impero prima e alla vittoria comunista poi, i tibetani di Lhasa avevano risolto il problema cinese cacciando tutti gli han che in quel momento si trovavano sul loro territorio. Dubitiamo molto che una simile mossa possa essere ripetuta di questi tempi. Ai tibetani in esilio non piace prenderne atto, ma i cinesi fanno ormai parte del panorama del Tibet come protagonisti a pieno titolo non come degli ospiti ben accolti che pero' sempre ospiti restano.

Una carenza del l'apparato propagandistico-politico del governo in esilio sta nell'aver completamente ignorato i nuovi caratteri della realtà tibetana. Anzi nell'averli sempre giudicati del tutto negativi, precludendosi così un sostegno che andasse al di là del perimetro dei nasteri. Nel perfezionare la scelta lamaista della autonomia, il governo in esilio dovra' anche renderla più convincente agli occhi non solo dei tibetani ma di tutti quelli che vivono in Tibet. La scelta dello scontro fatta finora da Pechino sembra chiudere ogni possibilità dl dialogo. Se la volontà dl dialogo ci fosse stata o ci fosse tuttora, anche la gestione interna della questione tibetana sarebbe diversa. Ci sarebbero già stati dei segnali di compromesso o delle prime concessioni sul terreno di quella autonomia tanto cara al Dalai Lama. Tutto questo non è accaduto

Dharamsala può aver gestito l'intero affare tibetano con approssimazione, con ingenuità oppure mostrando una eccessiva fiducia nell'iniziativa del mondo occidentale, prestandosi senza esserne consapevole, a diventare occasione di campagne anticinesi. E' stata però Pechino a dare alla preoccupazione (in se' niente affatto scandalosa) per l'integrita' del territorio un contenuto via via piu' repressivo. Dalla disponibilita' di Hu Yaobang si e' arrivati alla paura di pronunciare in terra tibetana il nome del Dalai Lama. Un tale approdo puo' essere anche visto come inevitabile, in fondo si e' accompagnato al progressivo irrigidimento della intera politica cinese, al mai realizzato (anche se promesso) cambiamento delle regole nell'esercizio del funziomento delle regole nell'esercizio e nel funzionamento del potere. Ma perché solo in Tlbet questo approdo è così devastante? C'e' un unica risposta: il Tibet viene vissuto, e in effetti lo è, il punto debole della intera costruzione cinese. E l'enorme frontiera. E il

luogo che più facilmente potrebbe essere trasformato dall'esterno in una leva per scardinare il sistema cinese.

Il ricordo del colonnello Younghusband continua a turbare il sonno dei dirigenti. Pechino non si fida dell'attaccamento dei tibetani alla patria (diventata nel frattempo cinese). Non ha torto.A Shanghai, il professor Wang Yuanhuami aveva spiegato, tempo fa, come fosse impossibile immaginare una frantumazione della Cina. L'unità e la compattezza del paese sono il principale motivo dl orgoglio del popolo e degli intellettuali cinesi.

Per i tibetani invece il senso di appartenenza non è rivolto al territorio, è rivolto alla religione: si è buddhisti prima di essere tibetani e si è tibetani per poter essere buddhisti. Se la religione diventa (ma anche in Europa questa nonè stata una novità) veicolo di protezione della identità etnica, ecco che sulla religione si appuntano gli strali della repressione. Nel film "Kundun" ci è stato mostrato un ateo Mao Zedong che spiega al Dalai Lama ragazzo i danni dell'oscurantismo religioso. Lo faceva in nome della supremazia della scienza. Dopo di lui la religione buddhista è stata posta sotto accusa non per amore dell'ateismo o della scienza, ma per difendere la supremazia della etnia han.

 
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