(La Repubblica, Italia, quotidiano, 29 ottobre 1999)
Più del nirvana poté il calcio. E il monaco tibetano fa il tifo per Ronaldo...
Esce in questi giorni il film che racconta la vita in un monastero in cui irrompono i Mondiali
di FRANCO MARCOALDI
UN monastero buddhista di tibetani esiliati in India. Incensi, preghiere, canti: ma due novizi, anzichè seguire la sacra cerimonia, si scambiano sottobanco un bigliettino che preannuncia la prossima partita del mondiale di calcio: Brasile-Argentina... Ci voleva un grazioso film scritto e diretto da un importante lama butanese per provare finalmente a rimettere il pendolo nella giusta posizione, dopo che la visita in Italia del Dalai Lama - tra smodati embrassons- nous e l'arrogante rinculo idiosincratico dei custodi della supremazia filosofica occidentale - ci ha rammentato una volta di più quanto difficile sia trovare una posizione equilibrata nei confronti di un fenomeno come questo, oggi particolarmente in voga.
IL FILM, che con straordinario tempismo esce nelle sale proprio in questi giorni, si chiama La coppa ed è stato scritto e diretto da Khyentse Norbu, rettore di due facoltà di filosofia in India e Buthan, direttore di due centri di meditazione, massima autorità spirituale del monastero di Dzongsar.
Ma non abbiate timore: non è un mattone metafisico, né calca mai la mano nell'intento pedagogico di rammentare allo spettatore, per filo e per segno, il genocidio subìto dal popolo tibetano ad opera dei cinesi. L'uno e l'altro aspetto si sciolgono al contrario in una narrazione legata a vicende della vita quotidiana di un monastero dove per l'appunto irrompe - del tutto inattesa - la disputa degli ultimi mondiali.
Si tratta di vicende molto plausibili, molto verosimili: stellarmente distanti dalle fantasie (positive o negative) che allignano a riguardo in Occidente; e che del resto qualunque persona dotata di un minimo di senso critico può verificare con mano visitando il medesimo Tibet, o i monasteri buddhisti indiani dove la pellicola è stata girata e dove lo stesso Dalai Lama fu accolto al momento dell'invasione cinese.
La storia è semplice, come semplice è l'estetica del film; improntata a una sorta di "neorealismo tibetano". Due ragazzi, Palden e Nyma, fuggono dalla loro patria e trovano accoglienza in una comunità lamaista situata ai piedi dell'Hymalaya. Ma la durezza della vita monastica assume da subito le sembianze di una sarabanda collegiale, dove l'abate cerca a fatica di coinvolgere gli allievi nell'esercizio della meditazione e nello studio dei testi sacri, il suo vice di mantenere un minimo di ordine... mentre i giovani novizi sembrano essere interessati più all'esito della coppa del mondo che al raggiungimento del nirvana.
Una tradizione culturale che perde progressivamente i colpi a fronte della globalizzazione mediatica; un vecchio mistico attonito nell'appren
dere che il calcio consiste "in uno scontro tra due nazioni civili che lottano per il possesso di una palla"; una banda di ragazzi finiti in monastero (unico sistema per cercare di sfangarla), ma che ai mantra preferiscono senz'altro le azioni di Ronaldo e Baggio; l'antico sistema divinatorio utilizzato soltanto per conoscere in anticipo i risultati delle partite: non c'è dubbio, Khyentse Norbu ci offre un quadro infinitamente più credibile (e ironico) della famosa "spiritualità tibetana" vagheggiata in via Montenapoleone.
Allo stesso tempo, indirettamente e con garbo, rintuzza la spocchia di certi intellettuali occidentali che liquidano il buddhismo come residuo di credenze arcaiche, progressivamente fagocitate dallo strapotere della tecnica. A giudicare dai bellissimi volti di questi vecchi e ragazzi, sereni e sorridenti malgrado la costrizione dell'esilio; osservando la pietas reciproca che contraddistingue i loro comportamenti, invidiando il loro acquietato rapporto con la morte, si deve desumere al contrario che questo pensiero - tra mille difficoltà - mantiene intatta tutta la sua forza. Così come intatto è lo sconcerto e il fascino che suscita in noi occidentali questa errante prestidigitazione della realtà che sposa l'amore per il paradosso alla logica più ferrea e trasparente, come bene esemplifica la battuta chiave del film: "Se un problema può essere risolto, perché essere infelici? E se non può essere risolto, perché essere infelici?".