Riedizione di un articolo di Giuseppe Tucci apparso sul numero otto del 1935 di "Le Vie d'Italia e del Mondo", testata del Touring Club Italiano (su www.touringclub.it)
Nel paese dei Lama (1935)
DI TUTTE LE PROVINCE DEL TIBET, l'occidentale è quella che più mi ha interessato. Per varie ragioni, ma soprattutto perchè fu il tramite della diffusione del Buddismo dall'India nel "paese delle nevi", come i Tibetani chiamano poeticamente il loro Paese. E poi perchè i suoi templi e i suoi monasteri, restati fino ad oggi in molta parte o inaccessibili o malamente noti, contengono tesori d'arte eseguiti, o per lo meno ispirati, da maestranze indiane che oltre l'Imálaya si rifugiarono quando la tormenta musulmana cominciò ad imperversare sull'India, e il Buddismo lentamente si avviò al suo declinare.
Si chiama Tibet Occidentale quella vasta provincia che confina a sud con l'Imálaya, ha ad ovest lo Spiti, il Chumurti, il Ladak, anch'essi buddistici, è attraversata da oriente ad occidente dall'alto corso della Satléj, ad est si estende fino al sacro lago Manosarovar ed al Kailása, e da NO a SE è solcata dalle catene di Zanskár, del Ladák e del Kailása. Anticamente si chiamava Gughe; era completamente indipendente sotto una dinastia cui spetta il vanto di aver chiamato nel Tibet ed accolto nella sua corte alcune delle più grandi figure del tardo Buddismo, che divennero poi missionari ed apostoli del verbo di Budda nel Paese che li ospitava.
Dal XVI secolo, da quando, cioè, passò sotto Lhasa, questa provincia è governata da due magistrati che risiedono nella capitale, Gartók, sono chiamati garpòn e si sorvegliano a vicenda. Vi si accede o per la via di Almòra o per quella dello Satléj, che nel 1931 e 1933 io seguii per ritornare in India, o per lo Spiti e la valle del Ciàndra, aspra e selvaggia, che io percorsi nell'andata, partendo da Sultanpur. Questa è la strada peggiore, ove una carovana incontra ad ogni momento gravi difficoltà e corre rischio di essere travolta da frane e valanghe; ha però il grande vantaggio di percorrere anche lo Spiti, che anticamente appartenne allo Stato di Gughe il quale ancora conserva ricchissimi resti delle antiche glorie. Adesso la provincia si chiama Hundèsh, cioè "il paese della lana".
Dove la pecora porta il basto
La pecora non costa molto: vive di quella sterpaglia grama, spesso invisibile, che spunta fra la ciottolaia sbriciolata, e serve anche, nel suo lento peregrinare, da bestia da soma; ogni pecora porta il suo piccolo basto che contiene qualche chilo di sale minerale di cui il Tibet è ricco, o di tè che è monopolio dello Stato. Nei grandi mercati di confine, che si tengono in estate o nelle prime settimane d'autunno, le pecore vengono tosate, e lana e sale si barattano con merce importata dall'India dai carovanieri indiani.
Ci sono anche i yak, i piccoli buoi villosi e selvaggi che servono da bestia da soma e qualche volta da cavalcatura su per le rocce più aspre; e, segno di grande benessere, i cavallini tibetani, i famosi poney, che vanno per forre e burroni e sentieri, ove sembrerebbe ardimento per l'uomo avventurarsi. I Tibetani sono mirabili cavalieri: il giuoco del polo è nato nel Tibet Occidentale e lentamente ha trovato, attraverso vicende che non sto qui a ridire, la sua via per l'Occidente conservando tuttavia il suo nome.
Paese povero, questo Tibet Occidentale: non vi cresce nè erba nè albero. L'ultima pianta, l'albicocco, scompare anch'essa verso i 3500 metri: sul terreno roccioso verdeggia, nei brevi mesi dell'estate, l'unico alimento di cui questa gente si cibi: grano od orzo o saggina, irrigati a grande fatica con acqua incanalata dai ghiacciai o dalle cime imminenti. Si mangia la farina impastata con l'acqua in certe ciotole di legno e d'argento che il Tibetano porta sempre con sè, e così si campa la vita. Ma parecchie decine di tazze di tè al giorno completano la dieta di questi montanari frugali. Per vero dire, il loro tè non è come il nostro: è una certa mistura di tè bollito, di sale, di burro e di soda, una brodaglia non molto piacevole al nostro palato, almeno finchè non ci si abitui, e che, in omaggio al mio amore per il Tibet, io ho dovuto più volte tracannare; una tazza dopo l'altra, perchè è dovere di chi ospita colmare sempre la coppa del visitatore, e obbligo di cortesia per questo di fare onore al padrone di
casa. Poca carne, e solo di pecora. I laici, che sono poveri, ne mangiano scarsamente: non così i monaci, che se ne satollano; le ossa che immancabilmente si accumulano in mucchi giganteschi nelle vicinanze dei monasteri, ne fanno fede.
Di una cosa sono ghiottissimi, del ciàn, un liquore fatto con orzo fermentato, di cui spesso e volentieri si ubbriacano laici e monaci: ne bevono in quantità enorme perchè la potenza alcoolica di questa broda è scarsa. Quando le nostre provviste di cognac finirono e pensammo di servirci di un alambicco improvvisato dal mio compagno di spedizione, il Capitano Ghersi, con scatole di frutta in conserva, ci vollero parecchie bottiglie di ciàn per estrarre pochi bicchierini di alcool. Ad ogni modo bibite e liquori piacciono molto a questa gente, e non nego che molti dei libri che ho riportato dalle mie Spedizioni non mi sono costati più di una bottiglia di birra data di nascosto a qualche monaco ubbriacone. Matiche, detto thè, ma non potrà spingere la propria amabilità fino a trangugiare dei cetrioli crudi inzuppati nel latte acido, o della carne di montone lessata... tutt'altro che pulitamente. Eppure sono questi i cibi prelibati degli afgani, i quali abitualmente non mangiano che roba asciutta e pane in larghi
fogli, detti "ciorak", con frutta e verdura cruda.
Il pantheon del Buddismo
Lo scopo principale dei miei viaggi è stato, non solo quello di ricostruire la geografia storica della regione attraversata, che se oggi è quasi deserta, conserva venerandi ricordi delle sue glorie, ma soprattutto quello di rievocare la sua storia politica, religiosa ed artistica.
Occorreva visitare le rovine e i templi, fotografarne le pitture, decifrarne le iscrizioni, intendere il simbolismo artistico degli affreschi. Ho riportato una documentazione enorme e preziosa, non solo perchè molti di questi templi stanno per precipitare, e fra qualche anno non saranno più che un cumulo di rovine, ma anche e soprattutto perchè le pitture che ne ricoprono le pareti sono la chiave migliore per decifrare quel mondo iconografico multiforme in cui si esprime con tutte le sue stranezze e i suoi vaneggiamenti il pantheon del Buddismo mahayanico con le sue migliaia di deità. Una teoria di templi superbi: Tabo, Lhalùng, Miang, Rabghielìng, Sciàng, Sciantze, Sumùr, Tolìng (con le sue cento cappelle costruite intorno al Mille e in gran parte mai visitate prima da Europei), Tsaparan, l'antica capitale dei re di Gughe: una grande città morta che pare vigili il desolato abbandono della pietraia gialliccia e tormentata, con le vuote occhiaie delle sue castella dirute e delle sue frananti abitazioni troglo
ditiche. Gli antichi templi reali, istoriati dai più superbi esemplari di pitture murali che io abbia mai visto, sembra combattano la loro ultima disperata battaglia contro l'incuria degli uomini e gli assalti delle intemperie.
Chi parli del Tibet non può tacere dei suoi monasteri, anche se non sia in essi particolarmente interessato come sono io. Di fatti tutta la vita culturale, artistica, spirituale del paese si accentra nelle vaste, spesso immense costruzioni dei suoi monasteri. In essi vive una folla chiassosa di monaci, che, compiuti gli uffici quotidiani di rito, non sa in genere come occupare il suo tempo. Sempre più scarsi si fanno anche nel Tibet i continuatori dell'antica tradizione spirituale; le opere dommatiche, liturgiche, mistiche e filosofiche giacciono abbandonate nelle polverose librerie, e una venerazione quasi idolatrica le protegge dalla curiosità profana quanto più cresce l'ignoranza dei preti.
Il libro che non si intende diventa quasi un formulario magico, in cui il verbo divino consegnato nel simbolo della lettera si trasforma in forza arcana e taumaturgica. Perciò tutte le volte che io ero ammesso in un monastero e nel suo sanctum sanctorum avevo prima cura di farmi un'idea della spiritualità e della cultura dei suoi abitatori; e quanto più mi sembrava manifesta l'ignoranza di chi mi accompagnava, tanto più mi profondevo in genuflessioni e aumentava il fervore delle mie preci. Poi, avvicinatomi ai libri, li prendevo col massimo rispetto, me li portavo all'altezza della fronte per modo che il contatto delle pagine sacre mi purificasse. Accoccolatomi quindi per terra e depositato il volume sulle ginocchia incrociate, lo sfogliavo secondo le regole prescritte, leggendo ad alta voce e con modulazione ritmica, come fanno i monaci.