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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 29 novembre 1999
TIBET/QUI TOURING/TUCCI 2

Riedizione di un articolo di Giuseppe Tucci apparso sul numero otto del 1935 di "Le Vie d'Italia e del Mondo", testata del Touring Club Italiano (su www.touringclub.it)

Nel Tibet Occidentale

di Giuseppe TUCCI (1935)

MOLTI, FORSE, LEGGENDO ,il mio precedente articolo, si saranno domandati quali siano gli scopi principali che io mi propongo nei miei ripetuti viaggi nel Tibet Occidentale. E naturale che queste Spedizioni, che vanno sempre aumentando di numero - sono già arrivate a cinque con quella che sto per intraprendere - esplorano via via zone più vaste e percorrono sempre nuovi itinerari attraverso paesi i quali, anche dal punto di vista puramente geografico, sono poco conosciuti.

Così nel lungo viaggio del 1933 mi è accaduto di correggere e di completare notevolmente la carta del paese di Gughe, perchè la lenta e metodica esplorazione mi permise di scoprire e di identificare molti luoghi, di grande importanza storica, anche se oggi quasi del tutto in rovina, che neppure le carte della Survey segnalano. Potevo altresì compiere notevoli ricerche linguistiche ed etnografiche in un paese, il quale non solo è stato vero tramite di cultura fra India e Tibet Centrale, e quindi uno dei centri più attivi della civiltà tibetana, ma anche dal punto di vista etnico è uno dei più interessanti che io conosca.

Nel paese di Gughe

Proprio in questa terra di Gughe si trova il lago Manosarovar, che, secondo la cosmografia indiana e tibetana insieme, è la sacra sorgente da cui scaturiscono i quattro celebri fiumi: il Gange, l'Indo, la Sutlèj e l'Oxus, ciascuno dalla bocca di un animale, nella direzione dei quattro punti cardinali. A nord del lago, quasi immenso specchio azzurro che riflette il cielo di turchese, si aderge solitario il Kailàsa, superbo monolito di 7200 metri, centro dell'universo, pilastro che sostiene la vòlta celeste, sede degli dei, la montagna più sacra per milioni di genti, che da ogni parte del mondo buddistico e indù vi affluiscono con l'entusiasmo della loro fede e l'ardore del loro empito mistico.

Rievocato dalla fantasia degli artisti, il Kailàsa ispirava il modello dei più celebri templi indiani, mentre il mito e la poesia vi intessevano intorno i loro capricciosi ricami. Paese, dunque, comune fin dall'origine dei tempi a due popoli: a quello indiano a mezzogiorno della grande catena himalayàna e alla rude stirpe di pastori e di nomadi che popolano il pianoro tibetano. Stirpi che oggi parlano il tibetano e comunemente si crede sieno Tibetani mentre, come mi pare quasi certo, non lo sono affatto: la lingua la adottarono in tempi relativamente recenti, quando furono assoggettati da dinastie tibetane vere e proprie. Ma in origine parlavano altre favelle, che col tibetano non hanno nulla a che fare: probabilmente dialetti apparentati con quelle lingue austronesi che oggi ancora sopravvivono fra i Munda, i Santal e gli Oraon. Infatti la toponomastica, che in talune ricerche è ottima guida, e alcuni testi scritti nella lingua di Gughe lasciano intravedere sicure connessioni con le parlate Kunavàri, vive n

ell'alto Stato di Bashàhr.

Ma assoggettate fin da tempi antichi da tribù tibetane, le stirpi autoctone dimenticarono presto la loro lingua per quella dei nuovi dominatori. Quando nell'Xl secolo il re Ye-ses-òd cominciò a combattere con avveduta tenacia l'antica religione dei Bonpò, che proprio in queste contrade aveva avuto le sue prime e più notevoli sistemazioni, e l'apostolato di Rin-c'en-bzan-po diffuse con indomita energia il culto buddista, la nuova religione non solo trionfò con grande rapidità, ma ispirò e suscitò una vera rinascita di cultura, un fervore d'arte e un'attività di pensiero che non avevano mai avuto l'uguale.

Religione e arte

Ma questa cultura non poteva crearsi di sana pianta: i re di Gughe, nei quali la sapienza politica doveva essere uguale alla intensità della fede religiosa, inviarono in India persone di fiducia con lo scopo di riportarne, non solo i sacri testi, ma anche i più celebrati maestri. Questi ultimi, lasciando le pianure indiane dove il buddismo cominciava a declinare e la tormenta musulmana già imperversava con le rapine ed i suoi incendi, salivano gli impervi passi dell'Himàlaya ed ai neofiti tibetani rivelavano le ardue verità del Buddismo ed insegnavano il modo non solo di comprenderle ma di riviverle in tutta la loro intima significazione. Quando poi vollero dare degna sede alle statue degli dei, importate anche esse dai monasteri indiani, e si diedero a costruire con regale munificenza templi e cappelle, quasi a baluardo della nuova fede, quei re invitarono nelle loro terre i migliori artisti dell'India. Questi, quasi sempre dei monaci, trapiantarono nel paese delle nevi gli schemi architettonici, plastici e

pittorici delle loro scuole: sorse così l'arte del Tibet Occidentale, che è, si può dire, una continuazione diretta di quella indiana.

Quest'arte, di cui fino ad oggi non si conosceva quasi neppure l'esistenza, è documentata in maniera inconfutabile e dalle fotografie, che io ho riportato degli affreschi che coprono le pareti dei ternpli, o dalle statue che ne adornano gli altari, o dai saggi che ancora restano delle pitture su tela: spesso siamo arrivati tardi perchè vicende storiche e inclemenza della temperie hanno distrutto per sempre un materiale prezioso e per la sua significazione religiosa e per il suo pregio artistico. I templi sono costruiti con grossi blocchi di mota disseccata al sole, ed è meraviglia che abbiano resistito per tanti secoli: il clima arido del Tibet li ha salvati, come è accaduto per i tesori venuti alla luce nelle sabbie dell'Asia Centrale. Così si apre una pagina poco nota della vita culturale ed artistica, non solo del Tibet, ma anche dell'India. Chè i manoscritti, restati sepolti per tanto tempo sotto le macerie dei sacrari, rivelano alcuni degli aspetti più interessanti e forse meno noti della vita indo-tibe

tana, e non solo della vita storica e politica - che in Oriente non ha quasi mai lasciato grandi tracce nella letteratura - ma soprattutto della vita spirituale.

Dottrine e scuole buddiste

Il Buddismo che conquistò il Tibet fu soprattutto il Buddismo Tantrico, cioè essenzialmente iniziatico ed esoterico: non già soltanto una prassi di vita morale, ma una esperienza che, rivelata dal maestro al discepolo dopo riti e sacramenti, realizzava la comunione con piani superiori. Queste scuole del tardo buddismo, sottoponendo ad un'acuta analisi il nostro io, scoprivano in esso l'imagine e il simbolo del microcosmo, ed insegnavano il modo di enucleare da questa imperfetta creatura che noi siamo un essere perfetto al di là di ogni contingenza e di ogni dolore. Ne nasceva, anzitutto, una teologia e una metafisica di straordinaria potenza costruttiva e di poderosa impalcatura logica. Ma questi elementi dottrinali non erano fine a se stessi: dovevano piuttosto servire a mostrare, con lampante chiarezza, la falsità delle opinioni e delle teorie correnti, la fatale contradittorietà delle nostre opinioni, e condurre necessariamente alla conclusione che il vero è oltre la formula logica, non già oggetto di con

oscenza, ma di esperienza. I maestri di queste scuole, che erano insieme incomparabili psicologi, insegnavano i metodi per cui il miste si consunstanzi col fondo dell'essere, si strappi al continuo divenire dell'esistenza fenomenica e divenga partecipe di eccelse realizzazioni. Dominio del respiro, posizioni speciali, processi di auto-ipnosi, lunghi metodi di meditazione, vengono elencati, suggeriti, descritti: una liturgia, che potremmo chiamare tutta quanta psicologica e che converrà studiare a fondo, perchè non c'è dubbio che molto potrà insegnarci sui misteri della nostra psiche.

Sono centinaia i manoscritti che io ho raccolto nelle mie Spedizioni e salvato da una irreparabile rovina; e alla loro interpretazione, in ciò almeno che essi contengono di più significativo e vitale, mi vado ora dedicando. Ma questa letteratura mistica, che d'un tratto ci svela le estasi e la fantasia di una sterminata coorte di asceti e di taumaturghi, ci addita pure la strada per intendere l'arte di questo popolo: arte così diversa dalla nostra e che sarebbe errato giudicare alla stregua dei nostri canoni estetici. Non che sia priva di valore e di significazione artistica: in quei Budda meditanti, in quelle deità terrifiche, le quali rappresentano l'elemento pugnace dell'eterno bene che assume forme paurose per assisterci nella diuturna lotta contro le forze che dal vero ci tengono lontano, in quelle teorie di santi sprofondati nelle loro estasi, in quelle sacre leggende istoriate, d'una freschezza genuina e spontanea, in quella vivacità di colori, c'è, non v'ha dubbio, un'intrinseca bellezza. Ma quest'ar

te è altra cosa che semplice arte: è simbolo di visione spirituale e il metodo per realizzarla, stimolo necessario alla meditazione, traduzione nell'allegoria del colore e delle linee di estasi interiori.

Chi viva per qualche tempo nel Tibet è sempre messo di fronte a questa psicologia che sembra trasportare il viaggiatore in un ambiente irreale e fantastico, che trova la sua migliore espressione simbolica nell'arte religiosa e soprattutto in quei templi che sarebbero restati chiusi anche per me, se la conoscenza della lingua, il mio atteggiamento di deferenza verso le credenze tibetane, la mia amicizia per i monaci non mi avessero sempre aperto le loro porte. Eppure essi non racchiudono nulla di terrifico, come i vetusti templi indiani che a volte si contaminano di sacrifici cruenti. La deità centrale, in questi sacrari tibetani, è sempre il Budda meditante o una delle sue infinite manifestazioni: il suo viso sereno è appena sfiorato da un indefinibile sorriso, che nel linguaggio simbolico di quest'arte raffigura la beatitudine della conquistata sapienza.

 
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