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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 29 novembre 1999
TIBET/QUI TOURING/ETTORE MO

(Novembre 1999)

IL POPOLO CHE VIVEVA SUL TETTO DEL MONDO

di Ettore MO

TIBET. PROVINCIA CINESE

A cinquant'anni dall'invasione di Pechino, la millenaria cultura locale rischia di scomparire. Come denuncia il Dalai Lama, oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso Paese

LA PRIMA TAPPA del mio pellegrinaggio in Tibet fu il monastero di Milarepa, il mistico poeta e cantore buddista che in quell'eremo, appena oltre il confine nepalese, aveva trascorso la sua esistenza. Distrutto dai cinesi negli anni della Rivoluzione Culturale, il monastero era stato ricostruito nell'83 e ospitava soltanto otto monaci, tre anziani e cinque giovani: prima dell'invasione delle truppe di Mao ('49-'50), erano cinquanta. L'attuale padre guardiano e discendente di Milarepa compiva gli stessi gesti che altri monaci avevano fatto per secoli prima di lui, come se niente fosse accaduto: apriva e chiudeva la porta, suonava la campanella, accompagnava i pellegrini nel buio della spelonca del santo ("attenti alla testa"), intascava l'obolo. Mi chiesi allora se avesse afferrato il senso, le dimensioni della tragedia che aveva colpito il suo Paese...

L'obiettivo dei cinesi era di annientare la religione e la cultura del Tibet e introdurvi un regime laico e marxista: e per raggiungerlo, non hanno badato a spese. Con la dinamite hanno disintegrato 6.254 monasteri e templi, l'80 per cento durante il periodo delle cosiddette riforme democratiche (prima del 1966), il resto negli anni delle Guardie Rosse di Mao, tra il '66 e il '76. Conventi e luoghi di culto adesso sono poche decine.

A XIGAZE (seconda città del Tibet, con 40 mila abitanti), un religioso di 68 anni mi ha raccontato la sua odissea: "Ci hanno distrutto quattro templi e da 4.000 monaci siamo rimasti in 700. Io mi son fatto 10 anni di lavori forzati per costruire l'aeroporto militare dei cinesi. A Gyangzê (Gyantse), le guardie rosse fecero di peggio, 16 monasteri furono ridotti in polvere e dei 1.500 monaci che abitavano la montagna ne sono rimasti 57. Il resto ridotti allo stato laicale, costretti a sposarsi...". A Lhasa, una stele di pietra posta davanti all'ingresso del tempio di Jokang - cuore del Tibet e del buddismo tibetano - ricorda il patto d'acciaio sottoscritto (e inciso) da cinesi e tibetani nell'821 dopo Cristo: "Il Tibet e la Cina debbono restare ciascuno entro le proprie frontiere. Tutto l'Est è della Grande Cina; tutto l'Ovest del Grande Tibet. Perciò nessuna delle due parti deve scatenare guerra all'altra o tentare d'occuparne il territorio". Un accordo firmato dal re del Tibet e dall'imperatore della Cina.

Sarà un discendente di quest'ultimo a infrangere il patto oltre mille anni dopo e a stabilire che il Tibet è parte della Cina.

Nel 1948, dopo un'ennesima peregrinazione in Tibet, il grande viaggiatore orientalista Giuseppe Tucci aveva intuito il pericolo imminente: "Mao Zedong - scriveva -, rivendicati i diritti cinesi sul Tibet, ha proclamato che l'annessione del Tibet non può tardare e ha stretto rapporti con l'abate di Xhaxilhünbo (Tashilumpo), il Panchen Lama, rifugiatosi nella Mongolia Interna, che è stato sempre il rivale del Dalai Lama e ha rappresentato il partito filocinese: preludio all'invasione armata attualmente in corso".

NESSUNO DEI GRANDI LUOGHI SACRI che hanno fatto la cultura monastica del Tibet sono stati risparmiati dai barbari, le Guardie Rosse di Mao, nel loro passaggio: spogliati delle loro ricchezze, i tre famosi monasteri di Lhasa - Jokang, Sera e Drepung - vennero adibiti a granai, caserme, depositi di munizioni, stalle. I 5 mila monaci del monastero di Sera, distolti brutalmente dai libri e dalle disquisizioni teologiche, vennero costretti a lavori di bassa manovalanza o buttati nelle prigioni per vent'anni, come un anziano padre priore del tempio di Kumbum, che ho incontrato a Gyangzê mentre riaffrescava le pareti scrostate della sua vecchia cella.

I barbari hanno fatto scempio anche di Drepung, che era il centro del Gelukpa - la cosiddetta Setta Gialla (dal colore del berretto) che, più della Setta Rossa, incarna il buddismo tibetano e ha le sue radici nella scuola riformata del XIV secolo, cui aderisce anche il Dalai Lama - e ospitava 7.500 monaci, la più alta fucina mistico-intellettuale del Paese. Molti dei 400 monaci che costituiscono ora la popolazione di Drepung furono vittime della Rivoluzione Culturale. Uno di essi, vicino ai settanta, raccontava di aver fatto 3 anni di carcere e 23 di lavori forzati, liberato nell'85; un altro si era fatto 22 anni filati di prigione: "Ma buona parte dei nostri confratelli - confidava il più anziano - morirono di fame, di stenti. Il peggio, però, era la tortura morale, psicologica che ci infliggevano quotidianamente, sottoponendoci a processi fasulli dove ci costringevano a recitare il mea culpa".

NON ERA FACILE raccogliere a Lhasa le storie "vere" dell'occupazione cinese, specie del decennio della Rivoluzione Culturale, storie di sadismi, vessazioni, crudeltà, torture: ma occorrevano i contatti giusti, le soffiate e la massima accortezza nei pedinamenti e negli incontri, poiché bastava un nulla per insospettire le polizie specializzate nella caccia al giornalista straniero. Alla fine sono però emerse cose atroci: storie di suore violentate con bastoni e bottiglie, o fatte azzannare dai cani; di uomini costretti a stuprare delle monache o di monaci costretti a battersi all'ultimo sangue tra le scommesse, come i cani o i galli. Ma non è certo facile verificare oggi la fondatezza di simili testimonianze e accuse.

Più difficile invece negare i dati sul numero delle vittime tibetane dopo l'insurrezione nazionale degli anni Cinquanta. Si parla di un milione e 200 mila morti, mentre sarebbe accertato che un tibetano su dieci sia stato incarcerato o mandato ai lavori forzati per periodi dai 10 ai 20 anni. E si calcola che attualmente ci siano più di 4.000 uomini in prigione (fra cui 300 monaci) per attività anti-statali.

Il testo completo del servizio a p. 82 del numero di novembre di Qui Touring

 
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