(La Stampa, quotidiano, Italia, 8 gennaio 2000)
NEL MONASTERO DELLA SETTA A OVEST DI LHASA
A Tsurpu per incontrare il sorriso del dio vivente
Claudio Gallo
L'UDIENZA era per mezzogiorno, il sole di maggio attraversava l'ossigeno rarefatto dell'aria mordendo i lembi di pelle scoperta. Una fila colorata e cenciosa di gente venuta dalla lontana regione orientale del Kham aspettava con infintita pazienza salmodiando Om Mani Padme Hum: il celebre mantra tibetano risuonava nelle verde valle del monastero di Tsurpu in una cantilena che storpiava l'originaria purezza sanscrita. Da un momento all'altro sarebbe apparso il XVII Karmapa, un ragazzino di quattordici anni che impersonava la successione secolare dell'insegnamento salvifico della potente scuola dei monaci guerrieri Karma Kagyu. Aspettavano immobili i pellegrini, tra le folate di vento che rimescolavano i famigliari odori di burro di yak e d'incenso. Aspettare un Buddha incarnato è per i credenti già compenso a se stesso, un'anticamera dove la dolcezza della benedizione si comincia a percepire come un profumo che immateriale sovrasta l'olfatto. Ma l'incanto perfetto dell'attesa fu interrotto dal rombo di quattr
o enormi Toyota che da Lhasa avevano salito sballonzolando il sentiero tra pascoli rigati da torrenti d'argento. Con quella velocità armonica dei gesti che li differenzia dalla pesantezza montanara dei tibetani, scese una torma di cinesi in eleganti vestiti di foggia occidentale. Di certo gente importante, perchè si poteva distinguere lo stuolo dei portaborse, giovanotti azzimati e ragazze in tailleur, circondare un personaggio canuto. Chiudeva il corteo un cinese con una telecamera professionale.
La sapiente regia del caso aveva fatto comparire in quell'attimo il Karmapa, protetto anche lui da una schiera di robusti monaci dagli avambracci rotondi e glabri. Il santo ragazzino aveva il volto simmetrico e gli occhi, due fessure oblique, messi a fuoco su una irraggiungibile lontananza: splendenti ma a tratti opachi, come velati dalla noia. I due cortei confluirono nel corpo centrale del monastero passando accanto alla folla che estatica cominciava già a divenire attonita. I due mon aci cerberi che sbarravano l'ingresso si scostarono soltanto per fare passare Sua Santità e i cinesi, poi richiusero il passaggio con i gomiti conserti. Om Mani Padme Hum masticavano i pellegrini tibetani, lanciando occhiate non proprio di compassione.
L'udienza privata ai cinesi durò quasi mezzora, Om Mani Padme Hum, Om Mani Padme Hum, finchè cominciarono a sentirsi il vociare e i risolini delle ragazze che scendevano la buia e irta scala della sala del trono e sbucavano nella luce accecante come se uscissero dal cinema. Ripassò l'uomo dai capelli bianchi e infine il cameraman. I pellegrini poterono arrampicarsi su gradini così stretti da sembrare fatti per il piede di un bambino. Tutti portavano la sciarpa bianca che l'etichetta vuole si debba offrire a un santo o a un maestro. Il Karmapa era seduto nella postura del mezzo loto con lo stesso sguardo intermittente, ora concentrato ora annoiato, ora sfolgorante ora spento. Mentre osservavo la scena, da dove la coda si affacciava appena sul salone, quegli occhi mi trovarono e il volto si illuminò di un sorriso bruciante, rapido come una freccia, almeno così me lo figurai cercando di non farmi suggestionare dal groviglio di dei e di demoni che dalle pareti suggerivano la pace o il terrore. Quando arrivai dav
anti al trono, recitavo un mio mantra blasfemo che diceva più o meno "è solo un ragazzino, è solo un ragazzino". Ma un altro sorriso dolcemente imperioso mi disarmò definitivamente: presi la collanina di filo rosso che mi donava e uscii vergognandomi di essere così felice.
Il XVII Karmapa che oggi ha quindici anni, è una delle più importanti figure religiose del Tibet. Non stupisce che fino a ieri i cinesi esibissero con orgoglio il suo mite consenso al giogo di Pechino. Paragonare il suo titolo a quello del Dalai Lama e stabilire delle gerarchie ha senso solo nel mondo della diaspora tibetana, che riconosce Tenzin Gyatzo come rappresentante supremo della Nazione. In realtà il Tibet è un brulicare di sette, ognuna con le sue tradizioni, in passato spesso in guerra tra di loro. Oggi i tibetani riconoscono per praticità cinque tradizione settarie, ognuna delle quali si divide in mille rivoli. I Bön, un tempo considerati non buddhisti ma che ora molti studiosi tendono a considerare buddhisti eretici. I Nyingmapa, che si rifanno agli insegnamenti della prima diffusione del buddhismo nello VIII secolo. I Sakyapa, dall'omonimo monastero. I Kagyupa, di cui i Karmapa sono un ramo (a sua volta diviso tra i berretti neri dell'attuale karmapa e i berretti rossi). Infine i Gelugpa, la set
ta del Dalai Lama, egemone negli ultimi secoli.
In quanto a me, porto ancora quella collanina rossa al collo