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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 8 gennaio 2000
TIBET/LA STAMPA/ANALISI

(La Stampa, Italia, quotidiano, 8 gennaio 2000)

Il colonialismo vissuto come una missione. L'impero e la frontiera ribelle

Domenico Quirico

E' scritto sullo statuto del partito comunista cinese adottato al settimo congresso del 1945 e pubblicato nel 1949: "Il partito lotta per l'istaurazione di una nuova repubblica democratica federale che rappresenterà una unione possente, indissolubile, indipendente, libera e domocratica di tutte le classi rivoluzionarie e di tutte le etnie". In Tibet possono fare riflessioni amare su quanto leggi e decreti siano spesso uno sfogo cartaceo dei dominatori. La storia del rapporto tra Pechino e la sua provincia sperduta tra le nevi è la metafora di un colonialismo. Recitarne soltanto le ragioni geopolitiche, economiche e di prestigio non è sufficiente a capire. Tutti i colonialismi hanno una grande capacità di convincersi della assoluta giustizia della loro causa particolare, di insinuare una componente di sincerità nella loro prevaricazione. Rendendola ancora più solida. Quando le truppe di Mao nel 1950 dopo aver saldato i conti con i soldati di Chang Kai-shek sciamarono tra queste montagne avvolte nello scialle

delle nubi erano veramente convinte di avere una missione da compiere, di incarnare lo spirito della Storia: portavano il lenimento del comunismo in un paese afflitto da un fragile barbaro vecchiume, che aveva bisogno di aiuto per sbarazzarsi del medioevo. Per il Grande Timoniere valeva la definizione di nazione di uno dei suoi maestri, Stalin il geniale manipolatore di popoli: una lingua, un territorio, uno stadio economico e un carattere psicologico. Ma questo solo in teoria: perchè poi contavano le leg gi onerose del paradiso comunista. Parole familiari al suo sinocomunismo: il Tibet non era una nazione ma "bianjiang mimzu", un popolo di frontiera. Erano quelle genti non cinesi che da sempre facevano da cuscinetto tra gli han e gli altri barbari. In duemila anni i cinesi avevano imparato ora a temerli ora a disprezzarli. Adesso la vittoria sugli "imperialisti" li aveva trasformati in "shashu mimzu", minoranze. In tutti i sensi, materiale cioè da plasmare, potenzialmente sospetto di prestarsi ai fervorosi

complotti degli inevitabili imperialisti. Per lo sciovinismo mezzo han e mezzo comunista risulta incomprensibile, oggi come quarantanni fa, che i tibetani restino così indocilmente proiettati verso il passato e ritorti all'indietro e non si rendano conto della missione storica cinese. Che il piccolo Buddha, così coccolato, fugga come il Dalai Lama quarant'anni fa. Eppure erano un paese senza strade, dove una teocrazia possedeva tutto, dove mancavano ospedali, scuole, servizi. Cultura, riti e miti, tutto questo per i funzionari saliti da Pechino co n il libretto rosso di Mao o con i manuali di capitalismo statalista di Deng non sono altro che marxiana sovrastruttura, una religione infantile appesantita lungo il cammino da innumerevoli superstizioni. Il furore delle guardie rosse che a martellate hanno ridotto in briciole seimila templi è quello di missionari che distruggono i residui pagani . Il colonialismo cinese ha ripercorso tutti gli stadi classici. Dalla violenza, risultata inutile, è passato alla manip

olazione etnica spedendo coloni a rendere pura quella terra ribelle. E poi, estrema risorsa, si è rassegnato al sorriso e alla mano tesa, affidandosi alle cifre di uno sviluppo economico sbandierato come adeguato prezzo della mancata indipendenza. Eppure c'è un proverbio che i signori di Pechino dovrebbero conoscere: se governi con il timore della morte verrà un tempo che la gente non temer à più la morte.

 
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