Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
dom 18 mag. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 2 febbraio 2000
TIBET/IL MANIFESTO/KARMAPA

Un Lama nel fianco

di Piero VERNI

La recente fuga del 17 Karmapa del Tibet, il giovane Ugyen Trinley Dorje, dal suo monastero di Tsurphu (circa 70 chilometri da Lhasa) ha fornito l'occasione alla professoressa Collotti Pischel di affrontare l'argomento Tibet in un articolo pubblicato sul Manifesto di domenica 9 gennaio. Purtroppo però, almeno a mio modesto avviso, in quel suo intervento la professoressa Collotti Pischel sembra aver attinto, più che al solido bagaglio delle sue conoscenze scientifiche, alle veline della propaganda di Pechino. Non posso in questa sede confutare punto per punto tutte le sue considerazioni però almeno ad un paio di "inesattezze" (chiamiamole così) vorrei rispondere. Innanzitutto sulla questione dell'indipendenza del Tibet. Sullo status legale del Paese delle Nevi tra l'inizio del 1700 e il 1912-13 sono stati scritti fiumi di inchiostro. C'è chi ritiene che in quel periodo il Tibet fosse parte integrante, seppur periferica, dell'impero Manciù e chi invece ritiene che al massimo facesse parte della sfera d'influ

enza dello "Stato di Centro". Quello che invece proprio non può essere contestato è che il gennaio 1913 tutti i militari cinesi furono costretti a lasciare il Tibet che tornò completamente in mani tibetane e così rimase fino al 7 ottobre 1950, quando le truppe di Pechino lo aggredirono. L'esercito maoista invase dunque una nazione che godeva di tutte le caratteristiche di uno stato secondo i canoni della legislazione internazionale. Vale a dire aveva un suo governo, un suo territorio, un popolo e il governo era in grado di mantenere relazioni con altri Paesi. La zecca di Lhasa emetteva monete e banconote, le poste avevano i loro francobolli e i funzionari governativi di Lhasa viaggiavano per il mondo con regolari passaporti tibetani. Questi sono i criteri per determinare l'esistenza di uno stato secondo la legislazione internazionale. La professoressa Collotti Pischel dice però che il governo cinese del Guomindang non aveva mai accettato questo stato di cose e che "durante la Seconda guerra mondiale conced

eva il diritto di volo agli arei alleati". Giusto, peccato però che i cinesi non avevano alcun mezzo per far valere la loro volontà tanto è vero che nel 1942 l'esercito statunitense inviò a Lhasa una missione diplomatica per chiedere al governo del Dalai Lama il permesso per le truppe alleate di attraversare il Tibet, quel permesso che nessun governo cinese era in grado di concedere nella realtà. Del resto basterebbe chiedere al professor Fosco Maraini, che si recò in Tibet con Tucci nel 1937 e nel 1948, a chi dovette chiedere permessi e visti di ingresso. Quindi nel 1950 la Cina Popolare invase ed illegalmente occupò una nazione indipendente che ancora oggi subisce una delle più violente forme di dominio coloniale della storia recente.

La professoressa Collotti Pischel ci descrive poi il Paese delle Nevi come un terribile luogo in cui la stragrande maggioranza della popolazione (devota per altro a "una delle forme più degradate di buddhismo") era letteralmente schiava di aristocratici e di monaci. Ora, pur essendo infastidito quanto e forse più della professoressa Collotti Pischel, dalla vulgata New Age che immagina un Tibet irreale e paradisiaco, penso che descrivendo la complessa società tibetana tradizionale in termini così schematici non si faccia un buon servizio ai lettori. E soprattutto non si spiega come mai i cinesi in 50 anni di colonizzazione, indottrinamento e spietata repressione non siano riusciti a normalizzare il Tibet e a convincere i tibetani che sono stati affrancati dalla schiavitù. Come qualsiasi viaggiatore può testimoniare la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini del Tetto del Mondo vorrebbe vivere in un Tibet libero e indipendente. Soprattutto vorrebbe dimenticare per sempre l'incubo costituito da quella

che Pechino ama definire "la pacifica liberazione del Tibet".

Venendo infine alla notizia di questi giorni, la fuga del 17 Karmapa, è indubbio che essa rappresenti uno schiaffo per il governo cinese che aveva puntato molto su questo giovane monaco sperando che potesse, col tempo, diventare il loro miglior collaborazionista. Nel 1992, Ugyen Trinley Dorje fu la prima reincarnazione di un lignaggio importante ad essere riconosciuta ufficialmente e venne più volte additato ad esempio di "lama patriottico", vale a dire disposto a riconoscere per prima cosa l'autorità del Partito e dello Stato. Ma la fuga del Karmapa dimostra che nessun tibetano è al sicuro nelle mani dei cinesi, nemmeno coloro per i quali sono stati delineati scenari privilegiati. E dimostra anche quanto sia difficile normalizzare il Tibet dal momento che sembrano fallire sia la politica del bastone sia quella della carota. La vicenda di questo monaco quattordicenne è paradigmatica di cosa intendano i cinesi quando parlano di libertà religiosa nel Paese delle Nevi. Certo è una fuga che mette in imbarazzo

anche il governo indiano che probabilmente si troverà ad esaminare una richiesta d' asilo politico molto imbarazzante per quanto riguarda i suoi rapporti con la Cina Popolare, che ha già fatto la voce grossa nel caso il Karmapa non torni nella Madrepatria. E in qualche modo costringe anche il Dalai Lama e il suo governo in esilio a prendere atto ancora una volta dell'intransigenza di Pechino. Questa fuga, che per i modi e i tempi in cui è avvenuta sembra più la trama di un film che un avvenimento reale, potrà rivelarsi una vera "lama nel fianco" di molti dei protagonisti del gioco politico che si svolge tra Delhi e Pechino passando attraverso la catena himalayana e la valle di Lhasa.

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail