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Conferenza Tibet
Partito Radicale Massimo - 25 marzo 2000
TIBET/DEMOCRATICI DI SINISTRA/DOSSIER

Dal sito www.democraticidisinistra.it

Dossier "Tibet"

Il Tibet

Basta guardare la carta geografica dell'Asia per rendersi conto della posizione strategica del Tibet, posto com'è ai confini con l'India, il Nepal, il Bhutan e la Birmania, una posizione strategica considerando anche che ci troviamo di fronte ad un immenso altopiano con le vette più alte del mondo e ad un'altitudine media che supera i 4.000 m.sul livello del mare. Ci sono ancora delle parti di territori contesi fra la Cina e l'India. Il confine scorre lungo la catena himalaiana in prossimità dell'Everest (8.000 metri). Il Tibet è ricchissimo di acque e di laghi e dalTibet scendono a valle verso la Cina e l'India i maggiori fiumi del mondo. Nel 1965 il Governo della Repubblica Popolare Cinese ha proclamato la nascita della Regione Autonoma Tibetana che comprende un'area territoriale superiore ad un milione di Km corrispondente a circa un ottavo dell'intera area territoriale cinese (9.562.049 Km2). La popolazione della Regione Autonoma Tibetana, secondo il censimento effettuato dal Governo della Repubblica Po

polare Cinese del 1982, e di 1.786.544 di abitanti.

La popolazione tibetana vive anche nelle province limitrofe del Sichuan (922.024),Qinghai (754.354),Gansu (304.540), Yunnan (95.915), per un totale di 3.970.000 di tibetani, che rispetto alla popolazione cinese (1.206.431.000) rappresenta lo 0,39 per cento. Questi dati però sono in parte contestati dagli esuli tibetani che fanno risalire la popolazione a circa 6.000.000 di abitanti con una presenza ben più ampia di quella denunciata con il censimento al di fuori della regione autonoma e considerando il veroTibet etnografico, linguistico e religioso. Fosco Maraini nel suo libro Il segreto del Tibet sostiene che "parti importantissime dei territori abitati da genti tibetofone e lamaiste sono incuse nelle provincie Szechan/Sichuan e del Ching-hai/Qinghai. I dati che riguardano le popolazioni sono molto incerti, ma probabilmente su 6 milioni circa di tibetani,3,8 vivono nella Regione Autonoma, il resto nelle altre provincie. Non vanno poi del tutto dimenticati i tibetofoni lamaisti dell'India (Assan, Sikkin, Kas

hmir, Ladakh), della Birmania, del Nepal". La capitale delTibet è Lhasa, l'antica città del Potala, la residenza prestigiosa del Dalai Lama. La storia del Tibet è antica, si perde nella notte dei tempi. Le prime notizie sulla organizzazione della societa tibetana risalgono a diversi secoli a. C.

Il prezioso lavoro di Fosco Maraini ce ne dà ampia documentazione e inizia il suo percorso tra il 600 e l'850 a.C. con la dinastia Yarlung." Il Tibet - scrive Maraini - si presenta quasi improvvisamente nella storia dell'Asia come un piccolo Stato in vigorosa espansione". Con il VII secolo Sontsen-Gampo (569-649) "viene considerato il vero fondatore della potenza tibetana" e tenta di avvalersi in modo autonomo della cultura indiana (scrittura) prendendo "una rispettosa distanza dalla Cina". L'apogeo dell'Impero tibetano fu raggiunto sotto Tisong Detsen (755-797) che"vide nel buddhismo,oltre che una grande religione universale capace di unire uomini di stirpi, lingua, tradizioni diverse, uno strardinario veicolo di cultura". Proclamò il buddhismo religione di Stato. Il Tibet sprofondò poi in un "buio medioevo" nel corso del quale prevalsero su tutta la Cina i Mongoli. La ripresa si ebbe dal 1400 al 1720 con l'ascesa dei Gelug-Pa (quelli della virtù) espressione del buddhismo lamaista. Con GedunTruppa (1391-14

75) nasce il primo Dalai Lama e"nasce una potente teocrazia fondamento del dominio temporale del Dalai Lama". Intanto in Cina volge al termine la dinastia Ming (1368-1644) sostituita da quella Ch'ing / Qing (1644-1912) che riafferma la sovranità cinese sul Tibet (1710)."Dal 1751 in poi - annota Fosco Maraini - il Dalai Lama, assistito da un consiglio di quattro ministri, divenne ufficialmente sovrano temporale del Tibet, nonché pontefice della chiesa lamaista. Due commissari imperiali cinesi (gli ambam), con amplissimi poteri, furono incaricati di tutelare diritti ed interessi cinesi".

Con la Repubblica Cinese (1912) il Tibet conosce un periodo di maggiore autonomia, i rapporti di vero e proprio protettorato si attenuano anche se il presidente cinese si avvale del diritto di dare il proprio assenso alla nomina del Dalai Lama, così come avvenne con l'attuale Tenzin Gyatso dopo la morte del tredicesimo Dalai Lama nel 1933. Nel 1949 nasce la nuova Rebubblica Popolare Cinese .Chang Kai Shek e costretto a rifugiarsi nell'isola di Taiwan. Il nuovo governo comunista con MaoTzeTung dichiara di considerare il Tibet parte integrante del territorio cinese e di volerlo liberare dalle minacce imperialistiche."I militari cinesi - ricorda sempre Fosco Maraini - entrarono cerimoniosamente a Lhasa il 26 ottobre 1951 sotto il comando del generale Chang Kuohua / Zhang guohua". Già nel maggio 1951 un'organizzazione del governo tibetano composta da quindici persone discusse e sottoscrisse a Pechino quello che fu definito"Accordo sulla pacifica liberazione delTibet" in diciassette punti con i quali si riconosce

vano le libertà civili e religiose, nonché l'autonomia del Tibet. Il Dalai Lama, in seguito a quell'accordo, fu nominato vicepresidente del Congresso Nazionale del Popolo Cinese in rappresentanza del Tibet. Nei primi anni, successivi alla stipula dell'accordo, tutto procedette in una "atmosfera di quasi preoccupante pace ed armonia" poi cominciarono i primi diverbi e i primi acuti contrasti tra le forze di "Liberazione" e la popolazione tibetana. Per cercare di appianarli il Dalai Lama si recò a Pechino (1954) dove si incontrò ripetutamente con le massime autorità cinesi. Dopo il 1956 hanno luogo in Tibet vari movimenti di protesta che sfociano in quella che è stata definita la "insurrezione di Lhasa" il 10 marzo 1959. In seguito a quella insurrezione, dopo qualche giorno, ha luogo la leggendaria fuga verso l'esilio del Dalai Lama, la costituzione del Governo Autonomo del Tibet in esilio e l'insediamento a Dharamsala (India). Intanto la repressione inTibet si fa particolarmente violenta e assume le forme più

esasperate nel corso della rivoluzione culturale nel 1966. Il rientro del Dalai Lama inTibet, per il deteriorarsi dei rapporti con la Cina si fa sempre più difficile e tuttora continua ad essere irrisolta. Nel corso dei quarant'anni di esilio è stato però sempre mantenuto un dialogo a distanza anche se molto tenue, un dialogo che ha assunto aspetti di naggiore concretezza negli anni Ottanta con Deng Xiao Ping e la sua affermazione che tutto può essere discusso fuorché l'indipendenza. Il Dalai Lama negli ultimi anni ha proposto con insistenza l'idea della vera autonomia del Tibet consolidando l'ipotesi che possa aprirsi una fase concreta di dialogo per una soluzione pacifica dell'annoso problema tibetano.

Il Dalai Lama

Dopo la morte del XII DaIai Lama nel 1933 una delegazione ne cercò la reincarnazione secondo la tradizione buddhista-lamaista. La individuò nel villaggio di Taktzer (Tigre ruggente), nel Tibet Nord orientale della provincia di Amdo. E una delle province che oggi non fa parte della Regione Autonoma del Tibet ma è situata proprio ai suoi confini. Lo stesso Dalai Lama ricorda nella sua autobiografia La libertà dell'esilio che ad Amdo, al tempo della sua nascita un signore della guerra musulmano, Ma Befeng, era riuscito a stabilire un governo regionale fedele alla Repubblica Cinese. Il Dalai Lama è nato il 6 luglio del 1935 e gli fu dato il nome di LhamoThondup ("la dea che esaudisce"). Dopo pochi anni la scoperta della sua reincarnazione e nel 1939 (a soli 4 anni) il trasferimento e Lhasa. La famiglia del Dalai Lama era una famiglia di contadini poveri, ma autonomi, con un appezzamento di terreno in proprietà. La madre ebbe 16 figli di cui ne soprawissero sette. Con Lhamo Thondup partì per Lhasa tutta la famigl

ia.Il viaggio durò più di tre mesi.Nel 1940 fu condotto al Potala e ufficialmente insediato come guida spirituale del Tibet. Per la prima volta siede sul trono del leone "tempestato di pietre preziose" com'egli ricorda. Iniziò quindi il noviziato come monaco e dovette rinunciare al suo nome e assumere quello di Yamphal Ngawang Lobsang YesheTenzin Gyatso.Ad esercitare il potere politico - e spirituale in quei difficili anni era il reggente Retting Rinpochè. Il 17 novembre 1950 a si svolse la cerimonia di insediamento del nuovo Dalai Lama che aveva solo quindici anni. Contemporaneamente l'Esercito di Liberazione Nazionale Cinese entrò inTibet e il Dalai Lama si rifugiò a Dromo a 300 chilometri da Lhasa presso il confine con il Sikkim. Nel marzo 1951 venne firmato l'accordo Cino-Tibetano sull'autonomia del Tibet. Il Dalai Lama rientrò a Lhasa in agosto. Successivamente venne nominato vicepresidente del Congresso nazionale del Popolo Cinese. Nel 1954,a 19 anni, si recò a Pechino per incontrare la massima autorit

à dello Stato, il presidente Mao Tze Tung. Con il rientro a Lhasa nel 1955 si rese conto del progressivo deteriorarsi dei rapporti con l'esercito di liberazione. Nel marzo del 1959 ebbe luogo la ben nota insurrezione di Lhasa e la fuga verso l'esilio con la costituzione di un proprio Governo Autonomo. In India si stabilì prima presso il monastero di Mussaorie e poi ad Aramsala. Ebbe modo di incontrarsi con il Pandit Nehru il 24 aprile 1959. In India vennero istituiti più centri di ospitalità per gli esuli che in pochi anni raggiunsero la cifra considerevole di 100.000. Si incontrò ripetutamente anche con Indira Gandhi, nuovo primo ministro dell'India, e iniziò il suo pellegrinaggio nel mondo a sostegno della causa tibetana, per i diritti civili e per la pace nel mondo.

In Italia si incontrò prima con Paolo VI e poi con Giovanni Paolo II. Nel 1982 una delegazione tibetana di Dharamsala si recò a Pechino per trattative di pace e di rientro in patria del Dalai Lama, ma i colloqui, per quanto importanti, non diedero esito positivo. Nel 1987 il Dalai Lama venne invitato a parlare al Comitato per i Diritti Umani del Congresso USA e fu in quell'occasione che e;spose il piano di pace in cinque punti per fare dell'altopiano himalaiano un territorio di pace che coinvolgesse oltre che ilTibet anche i Paesi confinanti. Ebbe occasione di parlare anche a Strasburgo al Parlamento Europeo.

Il 10 dicembre 1989 a Oslo ricevette il Premio Nobel per la Pace. Negli anni Novanta è stato un susseguirsi di iniziative e di visite del Dalai Lama in Europa, il continente che sempre più si pone al centro dell'affermazione dei diritti umani in ogni parte del mondo e per la soluzione pacifica della questione tibetana. L'8 dicembre 1998 il Dalai Lama è stao ricevuto all'Eliseo, a Parigi da Jacques Chirac e ha partecipato alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti Universali dell'Uomo, pronunciando un solenne discorso in cui ha riaffermato la necessità del dialogo con la Cina per una vera autonomia

Per il dialogo Cina-Tibet

La questione tibetana si trascina ormai da quaranta anni. Risale infatti al marzo 1959 quella "fuga verso l'esilio" descritta dal Dalai Lama, con accenti accorati, nel suo libro autobiografico dal titolo La libertà in esilio. Sulle ragioni di quella "fuga" si è scritto molto, cercando le responsabilità dall'una e dall'altra parte, senza però riuscire a ricucire un rapporto che consentisse agli esuli,con a capo il Dalai Lama, di potere rientrare nel loro paese e di vivere in armonia con il popolo cinese.

E ora di voltare pagina, di cercare di guardare innanzi, di evitare che il peso lacerante del passato continui a pregiudicare il presente. Il Dalai Lama ha cercato di farlo con un discorso straordinario pronunciato a Dharamsala il 10 marzo 1998 in occasione del 39 anniversario dell'insurrezione di Lhasa. Il discorso però è rimasto in gran parte inascoltato.

E utile quindi riprenderne i concetti fondamentali e riflettere attentamente sulla loro validità e sulla loro pregnante attualità. Il Dalai Lama si rifa innanzi tutto ai cambiamenti che, all'alba del nuovo millennio, sono in corso in tutto il mondo e sostiene una tesi, forse improntata a un certo ottimismo, secondo la quale è nato nel mondo uno spirito di dialogo, di riconciliazione fra i popoli dilaniati da controversie secolari che sembravano insanabili. Si, ci sono ancora preoccupanti e cruenti conflitti; ci sono ancora arsenali immensi di armi micidiali, di distruzione di massa, ci sono ancora focolai locali di guerra che sembra quasi impossibile poter spegnere, ma lo spirito di pace sembra prevalere ovunque e, a determinarlo, è appunto lo "spirito del dialogo e della conciliazione".

Così, se il Ventesimo secolo può essere definito per eccellenza il secolo delle guerre e dello spargimento di sangue che è costato la vita ad oltre mezzo miliardo di vite umane, il nuovo secolo, all'apertura del nuovo Millennio, può essere quello della pace e della concordia fra gli esseri umani, della "risoluzione non violenta dei conflitti".

L'umanità ha saputo trarre esperienza dal modo irresponsabile con il quale in taluni momenti ha agito? E diventata più matura? Per il Dalai Lama questo è accaduto e sta accadendo ed è difficile pensare di smentirlo. Con il Ventesimo secolo ci lasciamo alle spalle i grandi conflitti ideologici e di classe, tra "le forze del bene e del male". Ci lasciamo alle spalle la guerra fredda, la divisione del mondo in due sistemi contrapposti. La crescita delle "forze produttive" ha fatto o tende a fare sempre più del mondo un tutt'uno, un universo fitto di relazioni intense di carattere economico e culturale, di ricerca e di sperimentazione reciproca, dalle quali trarre vantaggi comuni. Si affacciano all'umanità nuove sfide che riguardano, nel prossimo futuro, la sopravvivenza stessa del pianeta e il superamento delle disparità di vita nelle diverse aree del mondo, che impongono un'azione comune in difesa dell'ambiente e della stessa qualità della vita.

Spirito di dialogo e di riconciliazione quindi, anche per affrontare queste sfide e poter guardare con fiducia al futuro dell'umanità. Partendo da questa premessa, di respiro mondiale, il Dalai Lama si rifà al suo Paese per rilevare, con profondo rammarico, che tuttora la risoluzione del problema tibetano non registra alcun significativo progresso con la conseguenza di determinare, in quanti la sostengono, un senso di pericolosa frustrazione.

No al terrorismo si alla non violenza

Può succedere che alcuni si sentano spinti a cercare vie di soluzione non pacifiche.Terrorismo, guerriglia armata? Sono ipotesi che qua e là si sono affacciate e si affacciano in modo ricorrente fra gli esiliati, anche se da parte del Dalai Lama sono state costantemente respinte con accenti di vera e propria indignazione. Così, anche in occasione del 39 anniversario, egli ha ribadito che il "sentiero della non violenza deve rimanere una questione di principio", l'idea originaria del suo modo di pensare. Pur comprendendo i sentimenti di esasperazione e la frustrazione di quanti possano pensare di agire con violenza egli insiste nell'affermare che la lotta per la libertà del popolo tibetano deve e non può non mantenere il carattere pacifico e non violento.

Non è di poco conto questa riaffermazione, accompagnata in seguito anche da dichiarazioni secondo le quali egli potrebbe rinunciare alla propria funzione se dovesse prevalere un tipo di lotta che non sia quello pacifico. Fra una parte degli esuli tale affermazione è stata interpretata come una sorta di minaccioso ricatto che lo stesso Dalai Lama si è premurato di smentire richiamandosi ai principi fondamentali della non violenza, a Gandhi e ai risultati che, anche nelle situazioni più difficili sono stati ottenuti, con la non violenza, per affermare i diritti umani e di libertà dei popoli. Così viene ribadito che quello del "dialogo" è il sentiero "più pratico" e porterà a risultati migliori.Tra l'altro la lotta pacifica del popolo tibetano, come egli afferma, ha procurato simpatia e ammirazione nella comunità internazionale. Grazie alla battaglia non violenta i tibetani si stanno proponendo come esempio positivo agli occhi del mondo, per contribuire alla diffusione di una cultura politica globale di non vio

lenza e di dialogo.

In queste affermazioni c'è la duplice consapevolezza, sempre presente nel Dalai Lama, di agire nell'interesse del proprio Paese e, nello stesso tempo, dell'intera umanità. E questo respiro che fa del valore della non violenza un punto di forza per la lotta del popolo tibetano. Come molti ricorderanno, c'è un colloquio che il Dalai Lama ebbe con il Pandit Nerhu pochi giorni dopo il suo arrivo in India proveniente da Lhasa, nel 1959, del quale egli stesso ci fornisce un'ampia testimonianza nel suo libro autobiografico ("infine gli dissi in tono fermo di avere una duplice preoccupazione: sono deciso a ottenere l'indipendenza per il Tibet e nello stesso tempo a porre fine allo spargimento di sangue"). A questo punto però Nerhu non riuscì a trattenersi, "Non è possibile! - esclamò - Lei vuole l'indipendenza e allo stesso tempo non desidera spargimento di sangue. E impossibile". Voleva dire che non poteva pensare di perseguire così l'obiettivo della indipendenza e "il suo labbro inferiore tremava per la rabbia, me

ntre parlava". Quella del Dalai Lama non era però ingenuità, ma ferma convinzione, dopo quello che era accaduto, di agire, come i fatti hanno dimostrato, senza fare alcun ricorso alla violenza. E per quest'atteggiamento e per l'approfondimento del suo pensiero sulla non violenza e la pacificazione fra i popoli che successivamente gli verrà conferito l'alto riconoscimento del premio Nobel per la Pace nel 1989.

La fuga verso l'esilio del Dalai Lama

L'India aveva accolto con difficoltà gli esuli tibetani e, certamente, con il tacito assenso dei cinesi e con l'implicita sollocitazione degli Stati Uniti. La "fuga in esilio" del Dalai Lama, con tutto il suo seguito (350 soldati tibetani), era stata costantemente e minuziosamente seguita dalla CIA. Lo stesso Dalai Lama non ne ha mai fatto mistero affermando nel suo libro autobiografico "nel gruppo c'era un operatore della CIA, un marconista che, apparentemente, si teneva in costante collegamento con il suo quartier generale". L'esercito cinese d'altro canto segùì a distanza la fuga del Dalai Lama, incalzandola quanto poteva bastare, per stremare le truppe al suo seguito che poi furono decimate. Un aereo di ricognizione controllava ogni movimento. E presumibilmente vero quello, come è stato scritto, che gli Stati Uniti nel 1959 si rendevano conto dell'impossibilita di perseguire un obiettivo insurrezionale nel Tibet attraverso la guerriglia e che quindi cercarono di favorire la fuga del Dalai Lama. I moti de

l '59, che la precedettero, furono il punto più alto di un movimento fatto anche di azioni armate che poi si spensero del tutto. In quel momento per gli USA era più utile avere un governo in esilio, da utilizzare magari come elemento di disturbo verso la Cina, in attesa di tempi migliori. La CIA, a tal fine, come è emerso dai suoi archivi, non lesinò i propri finanziamenti.

D'altra parte, il governo cinese, con la "fuga" del Dalai Lama, si liberava del capo politico e spirituale del Tibet e potevra esercitare con maggiore disinvoltura la propria azione di "normalizzazione", fatta purtroppo di quelle azioni repressive che culminarono con la rivoluzione culturale e che portarono alla perdita di innumerevoli vite umane e alla distruzione dei maggiori templi buddhisti fulcro della vita religiosa e sociale del Tibet.

Per la Cina la fuga verso l'esilio del Dalai Lama volle dire in buona sostanza liberarsi di un fastidioso incomodo, evitare di farne un segregato a vita e tantomeno un martire, addossandogli tutte le responsabilità dei disordini che erano accaduti in Tibet. Sia pure per opposte ragioni, la fuga in esilio del Dalai Lama si rilevò conveniente sia per la Cina che per gli Stati Uniti d'America. Al Dalai Lama d'altronde non rimaneva altra scelta per continuare a fare sentire la propria voce e sviluppare la propria azione di lotta.

L'India,con il Pandit Nehru,cercò inizialmente di riannodare le fila e di ristabilire un rapporto tra il Dalai Lama e il Governo della Repubblica Popolare Cinese, onde consentire il suo rientro in patria, ma ciò non sordì alcun effetto per l'indifferenza cinese e per la determinazione del Dalai Lama a rivendicare l'indipendenza del Tibet. Del resto, già durante la fuga in esilio, a Lhuntse Dzong, tra Lhasa e il confine con l'India, dopo una tormentosa settimana di viaggio, il Dalai Lama ripudia l'accordo di pace in 17 punti che era stato firmato nel 1951, denunciando la sistematica violazione che ne era stata fatta da parte del Governo della Repubblica Popolare Cinese e, sempre in quella circostanza, rivendica l'indipendenza del Tibet, dando vita ad un proprio governo che definisce,com'egli stesso scrive nella sua autobiografia, "l'unico legalmente costituito". Di questo governo non vi fu però nessun riconoscimento ufficiale da parte dell'India così come da parte degli altri Stati del mondo. L'interesse prev

alente a mantenere le relazioni con la Cina, se non lo hanno impedito, lo hanno almeno sconsigliato.Del resto, già in precedenza, fin dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, la Cina, nella sua integrità territoriale, fu riconosciuta come Stato (comprendente anche il Tibet) dall'organizzazione delle Nazioni Unite e da tutti gli Stati che già allora ne facevano parte.

Il Dalai Lama fa in ogni caso, sin da questo primo momento, della non violenza, della lotta pacifica e della costante ricerca del dialogo con la Cina e con tutti gli altri Paesi del mondo, la bussola di tutta la sua azione e dell'azione del suo governo in esilio seguita, nel corso di tutti questi ultimi quaranta anni, senza mai deflettere.

I cambiamenti in Cina e nel mondo

Il mondo di oggi non è più quello di quarant'anni fa. Grandi e radicali cambiamenti sono intervenuti a modificare gli assetti statuali e i rapporti internazionali e - come afferma il Dalai Lama sempre in occasione del 39 anniversario dell'insurrezione di Lhasa - questi cambiamenti "hanno toccato in profondità anche la Cina". ("Le riforme iniziate in questo Paese da Deng Xiaoping hanno profondamente cambiato l'economia, ma non solo. Hanno cambiato anche il sistema politico rendendolo meno ideologico, meno basato sulla mobilitazione di massa, meno coercitivo, meno soffocante per il cittadino medio.") Il Dalai Lama afferma altresì che "la nuova dirigenza cinese è più flessibile anche per quanto riguarda la politica internazionale. Ne sono una prova la partecipazione della Cina ai consessi internazionali, le relazioni con tutti gli Stati e gli espanenti dei partiti di governo e di opposizione, la cooperazione con le agenzie e con le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo, nonché lo sviluppo delle comunicaz

ioni satellitari - e delle relazioni di gemellaggio fra le città e le comunità cinesi con quelle del resto del mondo".

Si è assistito - aggiunge il Dalai Lama - al "morbido" passaggio di Hong Kong alla sovranità cinese e al progressivo e sempre più stretto rapporto tra questa realtà internazionale e il resto della Cina. Si assiste anche, in modo "pratico e flessibile", allo sviluppo dei rapporti con il governo di Taiwan per l'integrazione dell'isola nello stato cinese.A tal fine sono stati aperti negoziati bilaterali che dovrebbero portare a positivi risultati, così come del resto sta avvnendo anche per Macao di cui è prevista l'unificazione con la Cina entro il dicembre del 1999.

E "fuor di dubbio" che in Cina oggi si vive meglio rispetto a quindici-venti anni fa e si è di fronte a cambiamenti di carattere storico che, sembra volere dire il Dalai Lama, vanno compresi in tutta la loro portata e debbono sollocitare tutti ad agire per un'azione più incisiva e aperta al dialogo, per giungere, quanto prima, ad una soluzione della questione tibetana. E non ci può trattenere il fatto che la Cina deve risolvere ancora grandi problemi nel campo dei diritti umani. Questi problemi, in particolare quello delle libertà individuali e - collettive, non possono - non accompagnare il progresso materiale e il benessere."Progresso materiale e benessere non costituiscono, da soli, la piena risposta alle necessità e ai desideri della società umana". Ma se` così è, s'imporrà l'esigenza dimaggiore libertà, libertà di pensiero e di partecipazione sempre più ampia alla gestione della cosa pubblica.

Violazione dei diritti umani

"La mia speranza - sostiene poi il Dalai Lama, è - che la nuova dirigenza di Pechino abbia la previdenza e il coraggio di affrontare questa nuova sfida" anche se non può fare a meno di dire che "purtroppo in Tibet la violazione dei diritti umani continua ad essere ampiamente diffusa. Continua ad essere esercitata una politica di 'genocidio culturale' con un complesso organico e preordinato insieme di attività tendenti a distruggere i costumi, le tradizioni, la storia e quelle ragioni etniche che sono proprie del popolo tibetano. Le forme repressive sono conseguenti a tutto ciò e sono sempre più diffusi gli arresti, le intimidazioni, le discriminazioni nei confronti di chi con coraggio esprime il proprio pensiero e agisce in difformità rispetto il potere costituito". La reazione prevalente dei tibetani è tuttavia di "amore e comprensione", sentimenti che fanno parte dei grandi valori morali e ideali della cultura buddista. Guai però a confondere quest'umano atteggiamento con una sorta di accettazione del rapp

orto prevalente di sottornissione oggi esistente e tanto meno con la condiscendenza.

Un popolo che non si sente partecipe del proprio destino non è motivato culturalmente e idealmente e tende a vivere passivamente anche nelle migliori condizioni di benessere ed è portato a non esprimere tutto se stesso, a non portare ulteriore beneficio allo sviluppo della società nel suo insieme. Ecco perché si può dire che la situazione oggi esistente in Tibet non giova prima di tutto alla Cina e all'esigenza che essa ha di assicurare nel Paese il massimo di stabilità e unità. Si potrebbe aggiungere "stabilità e unità nella diversità". Nella diversità che è propria di ogni popolo per le origini culturali e religiose, nonché per le tradizioni e per i costumi.

E interesse quindi della Cina avere un popolo come quello tibetano che sia in grado di esprimere il meglio di se stesso e che sia partecipe, oltre che protagonista, del processo di sviluppo economico e sociale di cui ha bisogno il Paese. Ma per questo occorre affrontare e risolvere la questione tibetana e ricocire lo strappo doloroso prodotto nel 1959.

L'immagine della Cina agli occhi del mondo

La questione tibetana non giova alla Cina anche dal punto di vista della sua immagine a livello internazionale e non contribuisce a facilitare le sue relazioni con il resto del mondo. Il Governo della Repubblica Popolare Cinese accusa il Dalai Lama e il suo seguito di fare propaganda anticinese, ma non c'è accusa che abbia qualche consistenza politica contro gli esuli tibetani (più di centomila), sparsi in ogni parte del mondo e in particolare in India, in Europa e negli Stati Uniti d'America. Il Dalai Lama, con la sua invocazione al dialogo, al rispetto dei diritti umani, alla soluzione pacifica del problema tibetano, ha conquistato la simpatia - dei più grandi uomini di cultura e di Stato di ogni parte della Terra. Numerosi Parlamenti e Governi si sono pronunciati a favore della sua causa. Innumerevoli città e università anche del nostro Paese gli hanno conferito la cittadinanza onoraria. Le sue gesta sono esaltate dai grandi mezzi d'informazione - e, ultimamente, gli sono stati dedicati ben tre films che

milioni e milioni di spettatori hanno potuto vedere e apprezzare. Soprattutto per motivi religiosi si vanno diffondendo ovunque le associazioni e le organizzazioni che si richiamano al Dalai Lama, al suo pensiero politico e religioso. A favore della soluzione del problema del Tibet si sono pronunciati, nei loro più recenti viaggi in Cina, Bill Clinton (USA), Tony Blair (Gs), Franc, ois Mitterand, Lionel Jospin (FR), Massimo D'Alema (I), a conferma del fatto che la questione tibetana pesa sui governi e non favorisce lo sviluppo delle relazioni con la Cina. La questione tibetana è vista e, se si vuole, è anche agitata al di là del verosimile, come la cartina di tornasole che testimonia l'esistenza in Cina di un regime illiberale che non consente la libertà di espressione e il rispetto dei diritti umani, un regime oppressivo che costringe migliaia di cittadini all'esilio per ragioni politiche, religiose e ideali.

E ben comprensibile come la soluzione del problema tibetano potrebbe quindi accreditare nuova simpatia alla Cina, favorire con essa le relazioni di tutti i Paesi del mondo e nello stesso tempo aprire per tutta la Cina una fase nuova che lo stesso sviluppo economico e sociale sempre più impongono.

Ma come, in che modo risolvere la questione tibetana? Nelle proposte avanzate dal Dalai Lama fin dal marzo 1998 si può dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria svolta.

La questione della indipendenza e i 17 punti dell'accordo del 1951

Nel discorso del 10 marzo 1998 egli afferma che la sua posizione è molto chiara: "non chiedo l'indipendenza, ma chiedo l'opportunità di avere una vera autonomia del Tibet".

E per "vera autonomia" è facile intendere che si riferisca quello che già era stato implicitamente sancito con la stipula dell'accordo di pace in 17 punti sottoscritto nel 1951 tra il governo della Repubblica PopoIare Cinese e quello del Tibet. In quel documento si diceva, aI punto 3, "...il popoIo tibetano ha iI diritto di esercitare autonomia regionale..."; al punto 4 "Le autorità centrali non altereranno l'esistente sistema politico in Tibet"; al punto 7: "Il credo religioso, le usanze e Ie tradizioni del popolo tibetano verranno rispettate ed i monasteri dei lama verranno protetti"; al punto 9: "La Iingua scritta e parlata e l'istruzione scolastica di nazionalità tibetana verranno sviluppate gradualmente in accordo con Ie attuali condizioni del Tibet".

Un'autonomia quindi che consenta ai tibetani di "preservare la propria civiltà", "che consenta alla Ioro peculiare cultura, religione, lingua, modo di vivere, di crescere e di prosperare".

Per questo iI Dalai Lama rivendica per l'autonomia del Tibet la gestione deIl'istruzione, delIa religione, dell'attività culturale, nonché la possibilità di scegliere liberamente - com'è previsto al punto 10 dell'accordo di pace del 1951 - il tipo di sviluppo in campo sociale. Per quanto riguarda poi le grandi questioni come la politica estera e la difesa, il Dalai Lama si è pronunciato più volte per dire che esse non possono non essere uniche per tutta la Cina e quindi esercitate dal governo centrale, nazionale.

La stessa presenza cinese in Tibet non sembra essere più messa in discussione e si ricorda in proposito che la dirigenza cinese "ha sempre affermato che essa aveva come scopo quello di lavorare per il benessere dei tibetani e di aiutare il paese a svilupparsi, e così può essere, purché ci sia la necessaria volontà politica fra le parti e purché si ristabilisca la reciproca fiducia e l'armonia sulla cose da fare e sul modo di autogovernarsi, assicurando l'obiettivo primario, inolto caro alla dirigenza cinese, della stabilità e dell'unità".

Un piano di pace

Di comune accordo, cinesi e tibetani, possono pensare di fare dell'altopiano tibetano un'immensa oasi, di grande rilevanza dal punto di vista naturalistico e ambientale, a beneficio dell'ecosistema dell'intero pianeta, chiamando tutti gli Stati del mondo a concorrere alla sua realizzazione. Si, è questa una questione che il Dalai Lama sollevò già in passato in occasione della presentazione del suo "Piano di pace" in cinque punti, nel 1987.

Al punto 4 già allora richiamava la necessità del recupero e della salvaguardia dell'ambiente naturale del Tibet esplicitato nel suo libro autobiografico: "L'altopiano tibetano dovrebbe essere trasformato nel più grande parco naturale del mondo, con I`introduzione di leggi severe per la salvaguardia della vita animale e vegetale; lo sfruttamento delle risorse naturali sarebbe regolato con attenzione per non danneggiare gli ecosistemi importanti, mentre nelle zone popolate si adotterebbe una politica di sviluppo sostenibile".

Il piano di pace continua con altre ipotesi come quelle di fare del Tibet uno stato cuscinetto, neutrale, fra due grandi potenze del continente (Cina e India), e quindi un territorio disarmato dal quale siano ritirate tutte le truppe, centro internazionale per la promozione e la difesa dei diritti umani. Un piano certamente affascinante che allora però era difficile pensare potesse essere accolto con favore dal governo della Repubblica Popolare Cinese che lo definì "appello al separatismo". Il piano si muoveva infatti secondo una logica che appariva comunque di separazione delTibet dalla Cina. Allora la questione dell'indipendenza costituiva ancora una premessa irrinunciabile per i tibetani in esilio.

Al di là degli aspetti istituzionali, con il "piano di pace" fu sollevata tuttavia una questione di interesse vitale per l'umanità che è appunto quella di tutelare gran parte del territorio tibetano, nepalese, himalaiano, ai fini ecologici, di difesa dell'ecosistema, nonché per lo sviluppo delle ricerche astronomiche e spaziali.

La stessa Repubblica Popolare Cinese oggi potrebbe farsi interprete della valorizzazione e della difesa ambientale dell'altopiano tibetano promuovendo a tal fine il concorso di tutti i principali Stati del mondo.

I poteri del Dalai Lama

Nel quadro della autonomia del Tibet il Dalai Lama ha messo in chiaro, più recentemente, alcune altre questioni tendenti a facilitare il dialogo e un accordo con il governo della Repubblica Popolare Cinese. Il primo riguarda i compiti e le funzioni che dovrebbero essergli riservate con il suo rientro in Tibet. Il Dalai Lama in passato assommava il duplice potere di capo spirituale e di capo del governo locale e in quanto tale fu chiamato nel 1951 a far parte del Congresso Nazionale del Popolo cinese come Vice Presidente. Nel discorso del 10 marzo del 1998 il Dalai Lama ha affermato che non intende ricoprire alcuna carica in un futuro governo tibetano e che è sua ferma convinzione dedicarsi alIe questioni di carattere religioso anche se saranno i tibetani a decidere del suo futuro.

Per quanto riguarda l'ordinamento economico e sociale in Tibet, il Dalai Lama ha ribadito poi che sarebbe assurdo ed impensabile ripristinare oggi il vecchio sistema teocratico e che si debba adottare il nuovo ordinamento sociale della Repubblica Popolare Cinese. Si può quindi ben dire che con il discorso del 39 anniversario dell'insurrezione di Lhasa, il Dalai Lama abbia voluto aprire un capitolo nuovo nelle relazioni internazionali per l'awio del dialogo con la dirigenza cinese, onde giungere, quanto prima, alla conclusione della questione tibetana.

I punti essenziali di una possibile intesa

Questa nuova impostazione ha registrato a livello internazionale un accoglimento favorevole da parte di innumerevoli governi che si sono resi sempre più partecipi dell'iniziativa del Dalai Lama, facendo presente al governo cinese la condivisione del suo pensiero. No all'indipendenza, ma sì all'autonomia del Tibet, distinzione di poteri tra quello religioso e quello politica di governo locale, rispetto dei diritti umani per tutti i cittadini tibetani e cinesi secondo quanto prescrive la carta dell'ONU, rispetto di quell'ordinamento sociale innovativo (di mercato) che si è data la Repubblica Popolare Cinese, appello a tutto il mondo per fare del Tibet, insieme alla Cina, un territorio di preminente interesse storico, naturalistico e scientifico al servizio dell'umanità: ecco i punti sui quali può articolarsi il dialogo per porre fine a un'odissea che si trascina ormai da quarant'anni.

 
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