Soldi, potere e storia i veri muri tra le Coree. A un mese dal vertice Nord-Sud, a confronto due paesi sempre più lontani
(La Repubblica, 9 maggio 2000)
dal nostro inviato BERNARDO VALLI
SEUL - Il Nord e il Sud hanno infine scoperto, dopo mezzo secolo, di avere un interesse comune: non vogliono, né l'uno né l'altro, la riunificazione. Questa constatazione favorisce un apparente paradosso: spinge a un dialogo, forse a un accordo, un tempo impensabile. Il fatto è che in Corea la riunificazione ha significato per decenni l'unità da realizzare con le armi: a Seul sottintendeva la vittoria del Sud sul Nord, a Pyongyang il contrario. Oggi entrambe le parti sanno che i sogni bellici sono irrealizzabili. Ma non per questo il Nord, nonostante l'isolamento e le pessime condizioni economiche, intende dissolversi, arrendersi, come la Germania Orientale dieci anni or sono; né del resto il Sud sarebbe disposto ad assumersi il costoso ruolo della Germania Occidentale. Si è creata quindi una situazione favorevole a un incontro destinato, forse, a condurre a una pace formale, o addirittura a una riconciliazione reale, che consentirebbe di incrementare gli scambi, dopo un'interminabile guerra fredda. Non, com
unque, a una fusione del Nord e del Sud.
Il primo (se ci si limita a interpretare il pensiero dei responsabili politici) non può diventare capitalista e democratico: per il regime, per i suoi capi, sarebbe un suicidio. Il secondo non può certo assorbire una società collettivizzata di ventidue milioni di persone, da decenni isolata dal resto del mondo.
A un mese dall'appuntamento del 12-14 giugno, a Pyongyang (dove per la prima volta un presidente del Sud, Kim Dae Jung, dovrebbe essere ospite di Kim Jong Il, il leader del Nord), la reciproca, implicita rinuncia alla riunificazione, perlomeno nel futuro scrutabile, può anche confondere le idee. "Ma è proprio così", insistono quasi in coro i giornalisti riuniti all'ultimo piano del grattacielo in cui hanno un loro club, nel centro commerciale di Seul. Li interrogo sull'argomento, e via via, dalle loro risposte, affiora una realtà tutt'altro che scontata, in una area geografica dove gli strepitosi successi economici dovrebbero convivere, stando a quello che è ormai un luogo comune, con forti nazionalismi. Nazionalismi destinati, in un imprecisato domani, a creare le condizioni di conflitti anche armati. Gli storici del futuro non si attendono forse, qui, in Estremo Oriente, le guerre del nuovo millennio?
Dalle vetrate del grattacielo si vede la capitale meno sofisticata dell'Estremo Oriente. Una metropoli in preda, anch'essa, alla sindrome di Manhattan, ossia alla smania delle costruzioni verticali; senz'altro utili, urbanisticamente, per guadagnare spazio in un regione superpopolata, e inevitabili sul piano speculativo; ma anche evidenti, vistosi sintomi dell'influenza americana. In Asia accade che si misuri il progresso dall'altezza dei grattacieli. Non penso che la Corea sfugga alla regola. I grattacieli non riescono tuttavia a nascondere l'impronta di una civiltà un tempo orizzontale, formatasi a stretto contatto col suolo, raso terra, per secoli e secoli incatenata ai campi, alle risaie, ai pendii coltivati delle montagne. E, adesso, orgogliosa di essere più vicina al cielo, sia pure inquinato.
Questo a Seul lo si avverte, lo si sente, osservando la città frenetica: una città industriale impegnata a fondo nelle nuove economie; abitata da una popolazione tra le più benestanti della regione; ma che negli edifici come nei corpi, nei volti e nei gesti, ha conservato le antiche tracce. Gli edifici sono spesso massicci, senza la snellezza di quelli di Shanghai, di Hong Kong, di Tokio, di Singapore. Gli uomini non hanno cancellato l'andatura contadina. Le donne, con i fianchi tendenzialmente larghi (ormai disciplinati dalle diete e dalla ginnastica), sono tra le più interessanti dell'Estremo Oriente. L'accostamento tra il passato rurale e il presente industriale dà solidità alla società coreana. La rende accorta, pratica, tenace. Per molti aspetti un po' rude. Che non vuol dire semplice.
Qui, nel Sud, l'ereditata praticità contadina, cui si aggiunge l'econometria dominante, contribuisce probabilmente a respingere l'idea di una riunificazione a breve o media scadenza. Il motivo principale è chiaro: costerebbe troppo. I miei interlocutori, tra cui c'è anche un paio di giovani imprenditori, non si entusiasmano all'idea di una grande Corea, che conterebbe di più tra l'arcipelago giapponese e il continente cinese. Alcuni alzano le spalle. Altri sorridono. Il giovane coreano che mi ha accompagnato a Panmunjom, sul 38 parallelo, lungo il quale si stende per duecentoquarantotto chilometri la Zona Smilitarizzata, tra il Mar Giallo e il Mare del Giappone, ossia la linea d'armistizio tracciata nel '53, osservava il Nord nebbioso, al di là dei reticolati e dei posti di controllo, come se fosse un altro pianeta, e non la metà inaccessibile, probita, del paese mutilato.
Mentre io guardavo le immobili sentinelle comuniste con riguardo, e non senza una certa emozione, considerandole elementi umani di un mondo disperato e misterioso; lui, il giovane del Sud, scherzava sulla loro bassa statura, dovuta a suo avviso alla scarsa alimentazione, alla carestia che ha ferito, e ferisce, la popolazione del Nord. Vedeva nella tragedia del Nord soltanto l'aspetto grottesco, la prova della congenita incapacità, inefficienza comunista. Manifestava soltanto il ripudio di un sistema, di un'ideologia fallita. Nessuna traccia di comprensione per i compatrioti nella disgrazia. Gli anziani, mi dicono, sono più sensibili. Molti hanno parenti dall'altra parte e li ricordano, sperano di ritrovarli, perlomeno di ristabilire i contatti. Invece le generazioni più recenti giudicano che il recupero del Nord comunista, come è accaduto in Germania tra l'Ovest e l'Est, impegnerebbe troppe energie, necessarie altrove.
Il patriottismo si esprime altrimenti.
La Corea del Sud sta superando con successo la crisi esplosa nell'estate del '97. La quale ha via via colpito, in diversa misura, prima la Thailandia, poi la Malesia, in particolare l'Indonesia, ha fatto tremare il Giappone, scosso Hong Kong e la Cina, sfiorato Taiwan. Il capitalismo asiatico, neoconfuciano, entrato in competizione con quello occidentale, democratico, ha subito in quell'occasione una severa lezione. Tanto severa da costringerlo a mutamenti che alcuni anni prima sarebbero apparsi impensabili. La ripresa è già in corso. Nel '99 la Corea del Sud ha conosciuto una crescita del 10%. Le riforme politiche ed economiche, promosse in seguito alla crisi, hanno dato i loro frutti. Sotto la presidenza di Kim Dae Jung (eletto con libere elezioni nel '98), il paese si è aperto agli investimenti stranieri; i mercati finanziari sono stati modernizzati; ne è stato creato uno per le piccole e medie imprese; è stata istituita una Commissione per le operazione di Borsa; è stato fatto un regolamento per protegge
re i piccoli azionisti. Sono stati compiuti soprattutto seri tentativi per smantellare il vecchio sistema basato sulla collusione tra funzionari, politici e industriali, formatosi nei lunghi anni di dittatura militare.
Per mezzo secolo la Corea del Sud ha scimmiottato il Giappone dotandosi di giganteschi conglomerati, i kaebol, alcuni dei quali non hanno resistito al peso dei debiti. Le grandi famiglie che li dominavano hanno avuto spesso destini simili a quelli dei "Buddenbrooks" di Thomas Mann. Prosperità e declino. E' un fenomeno generale in Estremo Oriente. La crisi ha sfoltito e poi rinnovato i ranghi. Le famiglie sopravvissute sfuggono adesso alla tradizione confuciana. Prendiamo il caso della Hyundai, il kaebol più grande. I due figli del fondatore si contendevano la successione; e alla fine il patriarca, l'84enne Chung Ju Yung, rifiutando appunto di seguire la tradizione, ha designato il più giovane, perché ai suoi occhi il più capace. Appena assunta la presidenza della Hyundai, il figlio favorito, Chung Mong Hun, ha rivoluzionato il vertice della società per adeguarla alle nuove economie. Le quali adesso trionfano, portando alla ribalta una generazione di imprenditori assai diversa da quella vecchia ammanigliata c
on il potere politico, burocratico e militare.
La corruzione non è certo scomparsa, ma non è più la regola. Kim Young Sam, predecessore dell'attuale presidente, aveva già tentato con alterna fortuna di debellarla. Aveva ad esempio cominciato il suo mandato con un gesto clamoroso, dichiarando la consistenza del proprio patrimonio personale e quello dei suoi familiari, e invitando 33mila politici, pubblici amministratori, militari, servizi segreti, magistrati, docenti universitari, proprietari di giornali, grandi finanzieri e industriali a fare altrettanto.
L'invito è rimasto un pio desiderio, essendo le radici della corruzione profonde e capaci di riprodursi a una velocità che la morale pubblica non riesce ad eguagliare. Affondano nel costume. Senz'altro in quello politico. Nelle recenti elezioni legislative, malgrado il clima democratico in cui si sono svolte, i clientelismi locali, regionali, hanno influenzato il voto, fino a determinare il risultato. I favoritismi, talvolta i regali, hanno pesato più delle qualità dei candidati al Parlamento. E' entrato tuttavia in funzione un antidoto abbastanza efficace, applicato qui per la prima volta, quindi, a mia conoscenza, un brevetto sudcoreano destinato a diffondersi in Asia.
Tramite Internet, seicento persone hanno creato qualcosa di simile a un movimento dei cittadini, al fine di raccogliere e diffondere le biografie dei candidati indegni di essere eletti in Parlamento. Indegni perché incorsi in condanne, soprattutto per reati di corruzione. La Commissione elettorale è apparsa all'inizio riluttante a fornire informazioni in merito, poi ha deciso di diffondere i precedenti penali dei candidati sul proprio sito per non lasciare ad altri l'iniziativa. L'affluenza è stata immediata ed enorme: più di un milione di visitatori. Il movimento dei cittadini ha trasmesso a sua volta quelle notizie costringendo alcuni grandi giornali, fino allora restii, a fare altrettanto, cioè a pubblicarle. Il quindici per cento dei candidati aveva precedenti penali seri; e il numero degli evasori fiscali e dei renitenti al servizio militare si è rivelato ancor più consistente. La lista nera comprendeva ottantasei persone: delle quali cinquantotto non sono state elette. Tra loro non poche di rilievo. Il
computer è così diventato la spada della democrazia, un'arma moralizzatrice. "Non è soltanto lo strumento principe delle nuove economie", dice Park Won Soon, animatore del movimento dei cittadini.
La crisi del '97 ha agito come una frustata. Per superarla la società del Sud ha compiuto un grande balzo in avanti (come si diceva nei remoti tempi maoisti), sul piano politico e su quello economico. Dopo questo balzo, il Nord comunista appare ancor più lontano. Non è più un problema ideologico. E' un cimelio della preistoria. E' un caso umanitario e un enorme grattacapo finanziario. Può anche essere un affare, se il regime di Pyongyang accetta di fornire mano d'opera a buon mercato. Ne ha in abbondanza. Non è il lavoro a basso costo che ha attirato e attira tanti investimenti nei paesi dell'Asia Orientale oggi in pieno sviluppo? Al club dei giornalisti, sul grattacielo di Seul, un giovane mi offre una sigaretta dicendomi: "Vede, questa è prodotta nel Nord, in una fabbrica finanziata dal Sud. E' buona e costa poco. Ne vuole una?" Peccato! Ho smesso di fumare da un pezzo.