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Conferenza Tribunale internazionale
Segreteria Segr.Pannella - 3 giugno 1997
DELITTI SENZA CASTIGO

Accusati di crimini contro l'umanità, i responsabili del massacro in Bosnia vivono in totale tranquillità, hanno incarichi politici e risiedono nei luoghi stessi degli eccidi, continua la farsa dei boia dimenticati. 'Panorama' li ha cercati. Uno per uno.

di Fausto Biloslavo

(Panorama, 5 giugno 1997)

"Mi hanno bollato come criminale di guerra, ma siamo sicuri che qualcuno voglia veramente arrestarmi? In tutti i conflitti chi perde paga e noi serbi della Kraijna siamo sconfitti, anche se i veri criminali sono Clinton, Kohl e anche il vostro ex ministro degli Esteri De Michelis, che hanno lasciato crollare e poi distruggere la Jugoslavia". Parola di Milan Martic, 42 anni leader in esilio dei serbi della Croazia, ricercato con mandato di cattura internazionale per aver ordinato il lancio di missili su Zagabria dall'entroterra dalmata, provocando una strage. E' uno dei 74 accusati dal tribunale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia insediato dalle Nazioni Unite nel 1993 all'Aja e presieduto dal fiorentino Antonio Cassese. Solo otto si trovano dietro le sbarre nella città olandese, mentre gli altri, incriminati per reati che vanno dal genocidio alla violazione delle leggi di guerra, restano latitanti. A cinque anni dall'inizio del conflitto, che a colpi di massacri e pulizia etnica ha provocato 250 mila

morti, 'Panorama' si è messo sulle tracce dei 66 ricercati dal tribunale internazionale. La maggior parte vive liberamente in Bosnia Erzegovina, alcuni hanno un enorme potere, altri conducono avviate attività commerciali, una minoranza è allo sbando. Eppure, il trattato di pace di Dayton in vigore dalla fine del '95 impone l'estradizione all'Aja dei presunti criminali di guerra. "Questo tribunale è una farsa, un organo politico. Se fosse veramente imparziale sarei il primo a consegnarmi per dimostrare che ho ordinato di lanciare i missili su obiettivi militari in risposta all'uccisione di civili da parte delle truppe croate. Tutti i serbi accusati hanno deciso di ignorare i giudici delle Nazioni Unite" continua imperterrito Martic aggiustandosi i baffetti, un po' insaccato nel completo blu stile presidenziale. Siamo nel suo ufficio di rappresentanza a Banja Luka, la principale città nel Nordovest della Republika Srpska, la metà della Bosnia in mano ai serbi: una villetta di due piani guardata a vista dai pol

iziotti locali, al numero 123 di via Kralja Petra. Un'arteria centralissima, indicata come indirizzo ufficiale anche nel manifesto con tutti i nomi dei ricercati distribuiti agli oltre 32 mila soldati della forza multinazionale (Sfor) che assicura la pace in Bosnia. Sul poster Martic ha l'onore, assieme ad altri 28, di una fototessera che ne renderebbe semplice il riconoscimento. E' accusato, secondo l'incriminazione del 25 luglio'95, di violazione delle leggi di guerra per aver causato il 2 e 3 maggio dello stesso anno 6 morti e 170 feriti, quasi tutti civili, lanciando dei razzi armati con bombe a frammentazione sulla capitale croata.

Uscendo dalla villa, basta girare l'angolo per trovarsi di fronte a un ufficio di informazioni dei soldati Nato in Bosnia con tanto di gipponi posteggiati fuori dalla porta. Anche gli agenti dell'Onu sono a pochi passi e il centro della città è controllato dal 3 reggimento della reale polizia militare inglese. Nessuno muove un dito.

Il triangolo della morte

Fra i criminali di guerra dell'ex Jugoslavia i serbi fanno la parte del leone: 54 in tutto, due dei quali già processati e giudicati colpevoli dall'Aja. Il famigerato triangolo della morte fra Prijedor, Omarska e Kozarac a 50 chilometri da Banja Luka conta almeno una dozzina di ricercati. Nella Bosnia nordoccidentale i diversi censimenti fra il '91 e il '95 dimostrano che da queste zone sono scappati almeno mezzo milione di croati e musulmani. Invece non è fuggito, da Prijedor, Dragan Fustar, 41 anni, cento chili di peso e capelli neri, che vive relativamente tranquillo in una villetta a due piani in via 1 Maj numero 41. All'inizio della guerra era uno dei comandanti del lager locale ricavato nella fabbrica di ceramiche Kèraterm, uno stabilimento basso, in mattoni rossi, ancora esistente nell'entrata della cittadina. Secondo l'accusa, il 20 luglio '92, almeno 140 prigionieri musulmani furono passati sbrigativamente per le armi durante una notte di baldorie. "Mio padre tace. Non è un criminale di guerra, ha f

atto solo il suo dovere. Andatevene" intima il figlio biondo e grosso come un armadio. Qualche chilometro più in là, nel quartiere di Cirkino Polje, abitano altri imputati tra i quali i fratelli gemelli Nenad e Predrag Banovic, classe 1969, accusati entrambi per i crimini contro l'umanità e gravi violazioni della convenzione di Ginevra per il lager di Kèraterm.

La trattativa per parlare con loro si rivela lunga e pericolosa. A un certo punto Nenad, sempre con una pistola sotto la felpa, minaccia di morte il mio interprete, ma alla fine ci mettiamo d'accordo. Dopo un giro vizioso ci porta in un prato lontano da occhi indiscreti e comincia a vuotare il sacco: "Certo che c'è stata pulizia etnica, ma l'hanno fatta anche croati e musulmani contro di noi. La guerra è solo una mattanza e per questo non potremmo mai più vivere assieme". All'inizio del conflitto aveva i capelli lunghi, neri, a coda di cavallo, ora li ha tagliati corti per cambiare fisionomia, porta vestiti fin troppo usati, un orecchino e la barba incolta. Ha lo sguardo infinitamente triste. Gli sbattiamo davanti l'atto di accusa che al capo di imputazione numero 18 lo chiama in causa assieme a suo fratello e altre guardie del campo per "aver fatto uscire dalle celle un gruppo di detenuti picchiandoli a turno. Molti di questi uomini morirono a causa delle bastonate". Il giovane sembra disperato, sgrana gli

occhi, controlla i nomi e giura di non saperne niente, poi ammette che è accaduto tutto "per colpa della politica, non possiamo essere responsabili individualmente di questi crimini". Vorrebbe scappare, ma non ha soldi. Se ne va con gli occhi velati di lacrime.

Fino allo scorso anno Mladen Radic, Miroslav Kovocka e Nedelko Timarac, pure loro ricercati, lavoravano nelle file della polizia della regione. Un altro accusato, Nikica Janjic, ha preso il suo fucile da caccia e si è sparato in bocca nel novembre del 1996.

Nessuno vuole arrestarli

Fonti del contingente di pace, che operano nella zona, ammettono che il problema dell'arresto dei criminali di guerra è politico, oltre che pratico, essendo difficile riconoscerli tramite le foto dei poster e ancor più catturarli tutti. Inoltre il mandato prevede "la custodia" dei presunti criminali solo se passano davanti ai soldati. Alan Roberts, portavoce a Banja Luka della polizia dell'Onu (Iptf), sostiene che "il nostro lavoro a Prijedor non è quello di girare per la città con le foto dei ricercati, anche se siamo determinati a identificare i responsabili dei crimini di guerra". In realtà tutti se ne lavano le mani.

Così a Bosanski Samac, sulla sponda della Sava di fronte alla Croazia, continuano a incontrarsi, al caffè As, Blagoje Simic, ex sindaco della città, e Stevan Todorovic, ex presidente del consiglio comunale. Ambedue accusati della pulizia etnica che ha ridotto croati e musulmani da 17 mila a 300 persone. Altri presunti criminali di guerra sono segnalati a Doboi e Brcko e soprattutto a Foca nel Sudest della Bosnia. Il generale Ratko Mladic, ex comandante dell'esercito serbo bosniaco ricercato numero due nella lista dell'Aja, è accusato di genocidio. Si nasconde nel quartier generale di Han Pijesak, una base militare con bunker sotterranei, nella Bosnia orientale. Pochi chilometri più a sud si trova Pale, autoproclamata capitale della Republika Srpska, a un tiro di schioppo da Sarajevo, nell'area controllata dal contingente italiano integrato nella forza di pace. Sotto il naso dei nostri soldati continua a lavorare tranquillamente il numero uno Radovan Karadzic, leader storico dei serbi di Bosnia.

Il lager dei musulmani

Dall'altra parte della barricata, nella Federazione croatomusulmana, che occupa il 51 per cento del territorio bosniaco, la situazione è ugualmente imbarazzante. Non sono stati solo i serbi a macchiarsi di crimini di guerra e lo dimostra il lager di Celebici, oggi una caserma dell'Armija bosniaca, sulla strada che da Sarajevo porta verso ovest a Jablanica. All'inizio della guerra il comune di Koijnicm di cui fa parte il villaggio di Celebici, contava 45 mila persone delle quali il 5 per cento serbe. L'etnia minoritaria fu presa di mira e ben presto confinata in vari edifici fra cui l'ex caserma dell'esercito federale jugoslavo di Celebeci. Secondo l'atto di accusa del 21 marzo 1996, nel lager "i detenuti erano assassinati, torturati, violentati, picchiati e soggetti ad altri trattamenti crudeli". Questo calvario durò dal maggio al dicembre '92, ma poi molti internati furono trasferiti in altri campi di detenzione dove rimasero prigionieri per 28 mesi. Il processo per Celebeci è attualmente in corso all'Aja p

erché tutti gli imputati, tre musulmani e un croato, sono stati arrestati. Zdravko Mucic nel marzo dello scorso anno a Vienna, mentre scattavano le manette per Zejnil Delalic a Monaco. Due mesi dopo il governo di Sarajevo estradava all'Aja Landzo e Hazim Delic. Quest'ultimo era stato uno dei comandanti del campo ed è accusato, inoltre, di ripetuti stupri. Nel capo d'accusa si legge: "Dal 27 maggio '92 fino all'agosto, Delic e altri sottoposero Grozdana Cecez ('una prigioniera serba' ndr) a ripetute violenze sessuali. In un'occasione venne stuprata da tre persone in una notte".

Casa Delic è immersa nel verde a due passi dalla moschea e la signora Hida, la giovane moglie di Hazim dai lunghi capelli rossi, sta stendendo i panni. Quando ci vede ha l'impulso di prenderci a sassate poi si calma. Arriva Ibrahim Delic, padre dell'accusato e incomincia a parlare. "Siamo orgogliosi di mio figlio, perché senza il suo aiuto ci avrebbero ammazzato tutti, avrebbero tagliato la gola anche ai bambini e violentato le nostre donne. Non è vero che i serbi prigionieri a Celebici venivano torturati o addirittura stuprati. Magari qualcuno è morto cercando di fuggire o qualche vecchio ha avuto un attacco cardiaco. Tutto qui. Noi crediamo in Allah e sappiamo che verrà fatta giustizia" sottolinea il papà Ibrahim. Hazim ha la possibilità di ricevere una telefonata al giorno, escluso il sabato, per parlare dal carcere in Olanda con i due figli di 10 e 4 anni, ma tutta la famiglia si chiede: "Perché lui e quelli di Celebici sono alla sbarra, mentre i pezzi grossi come Karadzic e Mladic restano in libertà?".

La città dei criminali

Non solo loro, anche i presunti criminali di guerra croati della Federazione sono in gran parte latitanti in Bosnia. Su 17 accusati, uno è morto, tre sono all'Aja, mentre gran parte degli altri continua a vivere a Vitez, una cittadina dal cuore croato fra le roccaforti musulmane di Zenica e Travnik. A tre chilometri e mezzo dal centro, arrivando da Sarajevo, si nota un cartello con la scritta "Auto Otpad (riparazioni) Papic" e una freccia rossa che indica un deposito di auto da rottamare pochi metri oltre il bordo della strada. Accanto al deposito sorge la casa del proprietario. Dragan Papic, 30 anni, ricercato per gravi violazioni della convenzione di Ginevra, abita qui nel sobborgo di Santici. Il 16 aprile 1993, durante la guerra scoppiata tra musulmani e croati, questi ultimi attaccarono i primi nella valle di Lasva. Secondo l'atto di accusa del tribunale del 10 novembre 1995, il villaggio di Ahmici vicino a Vitez fu raso al suolo. "Centotre musulmani rimasero uccisi, fra i quali 33 donne e bambini. Tutt

e le 176 case di Ahmici, compresa la moschea, furono distrutte". Inoltre "Dragan Papic e altri soldati hanno usato i prigionieri musulmani per lavori forzati come lo scavo di trincee sulla prima linea" si legge nell'atto di accusa. La casa di Papic è a 500 metri in linea d'aria dal minareto abbattuto, che ancora oggi resta un terribile monumento della tragedia di Ahmici. All'imputazione numero 38 risulta che Vlatko Kupreskic, 49 anni, "e altri soldati hanno sparato alla famiglia Pezer che stava fuggendo verso la foresta. Fata Pezer, la moglie di Ismail, è stata uccisa, mentre la figlia Dzenana e un altro civile sono rimasti feriti". Oggi Vlatko gira in Mercedes 200 metallizzata e fa buoni affari con la società commerciale Modus a tal punto da investire in pubblicità, con grandi cartelloni sul bordo della strada che porta a Vitez.

Un alto presunto criminale di guerra, Drago Josipovic, 42 anni, è il marito di Slavica, l'inflessibile presidente dell'Hdz locale, il partito nazionalista croato. Marinko Karava, 45 anni, conduce con la consorte la farmacia cittadina, oltre a essere ricercato dal tribunale dell'Aja.

"Sappiamo che Vitez è la cittadina con la più alta concentrazione di personaggi accusati di crimini di guerra, ma cosa possiamo farci? Il nostro mandato è limitato" spiega imbarazzato il giovane capitano Miles Hutchinson, portavoce della forza multinazionale. Nella zona opera il 101 gruppo di battaglia olandese, un reparto corazzato, che passa ogni giorno con i suoi mezzi davanti alle case dei ricercati. Ironia della sorte, lo scorso aprile, durante la commemorazione della strage di Ahmici, i musulmani venuti a piangere i loro morti hanno visto alcuni degli incriminati passeggiare nei dintorni.

"Non vogliamo giustificare i crimini compiuti nella Bosnia centrale, ma il tribunale dell'Aja sta accusando le persone sbagliate e crede a testimonianze false" giura Zvonimir Cilic, un giornalista del quotidiano croato 'Slobodna Dalmacija', che ha combattuto a fianco di tutti gli incriminati e ora ricopre il ruolo di loro portavoce. Mostra una lettera firmata dagli "accusati di Vitez" e consegnata a Michail Steiner, numero due della comunità internazionale in Bosnia, nella quale si evidenziano alcune contraddizioni. In effetti il tribunale avrebbe preso un grosso granchio con Stipo Alilovic, che avrebbe lasciato Vitez nel marzo del '92, prima dell'inizio del conflitto, per poi morire di cancro a Rotterdam nel '95. Eppure, compare in uno degli atti di accusa dell'Aja contro i croati, per la pulizia etnica nella valle di Lavsa. "Comunque, se l'Europa ci assicurasse un processo equo, rapido e corretto nel quale potessimo mostrare l'altra faccia della medaglia, ovvero le stragi dei croati, gli 11 accusati di V

itez andrebbero spontaneamente alla sbarra" continua i giornalista. "Se invece tentassero di catturarli, tutta la città combatterebbe per difendere la loro libertà".

"Una minaccia alla pace"

Carl Bildt, rappresentante Onu, nel suo ultimo rapporto ha denunciato che la "presenza in BosniaErzegovina di persone accusate dal tribunale è una continua minaccia al processo di pace e un serio impedimento alla riconciliazione". Secondo Bildt, diversi accusati hanno cariche pubbliche. Le conclusioni sono quindi molto chiare: "Il problema va risolto" a qualsiasi costo. Magari con un blitz, che nessuno ha voluto compiere, perché nasconde l'enorme rischio di conseguenze irreparabili, dalle ritorsioni contro i soldati di pace alla riesplosione del conflitto. Così, la farsa dei boia dimenticati continua.

 
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