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Conferenza Tribunale internazionale
Palumbo Stefano - 19 ottobre 1997
IL FOGLIO - Mercoledì 17 settembre 1997

PERCHE' NON POSSIAMO PIU' FARE A MENO DI UN TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE

Di Giovanni Conso

Il cammino verso l'istituzione di un tribunale penale internazionale permanente ha compiuto in questi giorni un altro rilevante passo avanti, nonostante gli ostacoli sistematicamente frapposti dai non pochi Stati che hanno la coscienza sporca per il troppo sangue fatto versare dai loro governanti. Il merito va, da un lato, all'Associazione "Non c'è pace senza giustizia" e, dall'altro, alla Repubblica di Malta, che hanno insieme organizzato una conferenza in quella storica isola, mettendo a confronto numerose voci di varia provenienza mondiale.

Anche il governo maltese si è decisamente schierato a favore di un'accelerazione dei tempi ancora necessari per il raggiungimento del traguardo indicato come fondamentale sin dai tempi del processo di Norimberga, ma sempre colpevolmente procrastinato. Si tratta di dare vita a un organo stabile, normativamente prestabilito, chiamato a giudicare di fronte al mondo i più efferati crimini di guerra e i più atroci delitti contro l'umanità, che continuano a essere tragicamente perpetrati in tante zone del pianeta, dalla Cambogia all'Angola, dal San Salvador allo Zaire, tanto per fare qualche esempio, in aggiunta ai più noti casi dell'ex Jugoslavia e del Ruanda, per i quali già operano (ma tra mille difficoltà per i limiti della loro origine) due tribunali creati ad hoc.

Proprio l'esperienza faticosamente in corso da parte di questa duplice organizzazione, comunque di per sé benemerita, non poteva non essere oggetto di attenta considerazione nel dibattito di Malta, per ricavarne insegnamenti in vista di una migliore efficienza del tribunale permanente. Quattro le esigenze più sentite: prevenire ogni tipo di politicizzazione nelle indagini o nei giudizi, consentire i processi in assenza, fornire dotazioni finanziarie più adeguate, garantire l'esecuzione dei provvedimenti.

Una cosa è certa. Occorre accelerare i ritmi dell'intesa, se non si vuole perdere l'appuntamento fissato per il prossimo giugno a Roma, da molti auspicato come tappa decisiva. Intanto, dopo Malta, ci saranno altri incontri di stimolo e di raffronto, prima a Dakar, poi ad Atlanta, altrettante riunioni ufficiali del comitato preparatorio presso le Nazioni Unite, la prima in dicembre a New York. La scelta preliminare da compiere riguarda l'ambito delle adesioni necessarie. L'ideale sarebbe, ovviamente, che tutti gli Stati membri dell'Onu "convenissero" nel far nascere e far vivere il tribunale, ma si tratterebbe purtroppo di una grande illusione, che è già costata enormi perdite di tempo.

Per mettere finalmente in moto questo preziosissimo meccanismo, dal forte significato emblematico, bisogna accontentarsi di una sua formazione parziale. Raggiunta una certa consistenza di adesioni - quaranta, cinquanta Stati sarebbero un numero sufficiente a caratterizzare l'iniziativa - sarebbe bene che il tribunale permanente entrasse subito in funzione, dotandosi di un regolamento processuale sul modello di quanto si è fatto all'Aja per il tribunale ad hoc sulla ex Jugoslavia.

Urge che nei rapporti internazionali si faccia strada una nuova etica. Quando si profila un'intesa plurilaterale o addirittura comunitaria preordinata a nobili scopi, come è sicuramente quello della lotta contro i crimini di maggior gravità, deve diventare un assioma che chi si rifiuta di sottoscriverlo incorre automaticamente in una perdita di immagine. Quasi fosse un alleato, se non addirittura un sostenitore, di quel tipo di crimine. E' scontato che le adesioni aumenterebbero, isolando i reprobi. Oggi, in nome della sovranità di questo o quello Stato, si fanno troppi complimenti e si usano troppe ipocrisie: intollerabili gli uni e le altre di fronte ad atrocità che gridano vendetta.

 
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