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Conferenza Tribunale internazionale
Palumbo Stefano - 29 luglio 1998
IL RESTO DEL CARLINO LUNEDI', 20 LUGLIO 1998

LA CORTE MONDIALE, PRIMO SMACCO DEI GRANDI DELLA TERRA

Di: Ludovico Incisa di Camerana

La battaglia diplomatica, che si è svolta alla conferenza di Roma, si conclude chiaramente come ogni battaglia con dei vinti e dei vincitori. Ne derivano perciò conseguenze non solo nella repressione di crimini particolarmente odiosi, grazie alla istituzione di un Tribunale penale internazionale, ma anche negli equilibri internazionali, soprattutto nell'ambito delle Nazioni Unite.

In primo luogo, per la prima volta il potere di iniziativa o di resistenza dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza è stato sgominato. Due di essi, Stati Uniti e Cina, sono stati respinti nella minoranza battuta, gli altri tre, Francia, Gran Bretagna, Russia, sono stati costretti ad accordarsi, con riluttanza o rassegnazione, alla maggioranza vincente.

In secondo luogo, hanno disimpegnato un ruolo attivo e decisivo alla testa dei vincitori due paesi, Italia e Canada, che, pur essendo di fatto grandi potenze almeno sul piano economico, appartenendo al G8, al vertice economico mondiale, non hanno mai posto la propria candidatura come membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ma si sono adoperati per una sua autentica democratizzazione, ossia per una sua maggiore rappresentatività della comunità internazionale. In questo senso appare sempre più giustificata la battaglia di arresto impegnata alle Nazioni Unite contro quell'allargamento del Consiglio alla Germania e al Giappone, che avrebbe aggravato la sua natura oligarchica, istituzionalizzando un direttorio politico mondiale e detrimento dei membri non permanenti e dell'Assemblea Generale. Ovviamente anche un'operazione vittoriosa potrebbe presentare un risvolto passivo: in questo caso un motivo di contrasto nei confronti degli Stati Uniti.

Certamente si poteva scontare un dissenso di principio sull'esistenza e sui poteri della nuova Corte internazionale tra un paese come l'Italia, tradizionalmente ispirato da un idealismo giuridico da codificare sul piano normativo e istituzionale, e un paese come gli Stati Uniti, incline in materia a formule pratiche da realizzare volta per volta e ancora permeato da un complesso di superiorità di origine, da un puritanesimo fondamentalista da popolo eletto e quindi assolutamente impervio ai giudizi morali ed esterni.

Tale dissenso non dovrebbe tuttavia influire sulle relazioni bilaterali e incrinare un'alleanza basata sulla reciproca permanente convenienza sul piano politico militare. La sconfitta subita a Roma dalla diplomazia americana dovrebbe comportare semmai conseguenze su un piano più generale e in particolare su un rapporto tra Stati Uniti e Nazioni Unite, sempre più complesso e insoddisfacente. Come si può inquadrare, viceversa, il successo diplomatico dell'Italia in una strategia conforme ai nostri interessi nazionali? Premesso che una vittoria sul piano ideale non è di poco conto per un paese che ad un notevole peso specifico economico non abbina un peso analogo sul piano politico-militare, non si può sottovalutare la capacità di persuasione e di coalizione dimostrata rispetto ad una maggioranza di piccole e medie potenze dalle tesi italiane su certi grandi temi. Se accompagnata da alleanze con potenze, come il Canada, titolari di interessi analoghi, e ben utilizzata, sia nell'ambito delle Nazioni Unite, sia a

l di fuori, essa potrebbe essere estesa ad altri problemi d'attualità, come ad esempio la proliferazione nucleare, il dialogo del mondo occidentale con il Medio Oriente, l'esigenza di disinnescare il potenziale conflittuale di certe aree regionali. Si potrebbero così delineare ulteriori scenari positivi per la nostra diplomazia.

 
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