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Conferenza Tribunale internazionale
Castellino Susi - 29 luglio 1998
L'ESPRESSO

11 giugno 1998

ORA E SEMPRE NORIMBERGA

CRIMINI DI GUERRA/COME NASCE IL TRIBUNALE PERMANENTE

Di Federico Bugno

Stragi, Genocidi, Lager. Dal Vietnam alla Bosnia al Ruanda. In nome di Dio, della razza, dell'ideologia. Come fermarli? Come punirli? Se ne discuterà per un mese a Roma. Fra acclamazioni e dure resistenze. Storia, retroscena, prospettive di un progetto audace.

Chiamatela, pure, se volete, sindrome di My Lai, ma se gli Stati Uniti ancora non sanno quale atteggiamento prendere di fronte alla proposta di istituire un Tribunale penale permanente contro i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e il genocidio, lo si deve proprio a quel lontano fatto di sangue avvenuto in un piccolo villaggio vietnamita il 18 marzo 1968, allorché un plotone di soldati americani (25 soldati e ufficiali) uccise oltre 500 civili, tra cui (ma è ormai inutile aggiungere questi particolari tanto la cosa è diventata abituale e ripetitiva) donne, vecchi e bambini. Per quell'eccidio che sconvolse il mondo civile, anni dopo, il comandante del plotone, William Calley, venne condannato all'ergastolo da una corte marziale ma la sentenza venne subito tramutata in arresti domiciliari per l'insorgere in sua difesa dell'opinione pubblica, e dopo tre anni l'ufficiale venne rilasciato.

Calley, ormai dimessosi dall'esercito, è poi finito a lavorare come commesso in una gioielleria di Columbus, Georgia, dove era nato e dove si era svolto il processo. Peggio di lui andò a finire a Robert T'Souvas, incriminato per aver mitragliato due vietnamiti e assolto per mancanza di prove certe. E' finito ucciso sotto un ponte nei sobborghi di Pittsburgh nel settembre 1988, ammazzato con un colpo di pistola sparato dalla moglie che gli contendeva il possesso di una bottiglia di vodka. Per vent'anni, egli aveva continuato a campare con l'incubo di quella strage che lo aveva trasformato in un vagabondo, drogato, ubriacone, sposato con una vagabonda, drogata, ubriacona.

Che cosa lega, nel subcosciente degli americani, la strage di My Lai alla possibile istituzione di un organismo internazionale superpartes che possa, da domani, perseguire i responsabili di crimini di guerra? L'ipotesi, assai astratta per ora, di una nuova My Lai e l'eventualità che un nuovo possibile William Casey possa essere sottratto alla mite giustizia dei suoi militari connazionali e affidato a quella più imparziale e severa di una corte internazionale. Un timore questo che è anche di altri paesi, come la Francia (e fino a qualche settimana fa anche della Gran Bretagna), ma che negli Stati Uniti tocca le corde più acute, dividendo anche Dipartimento di Stato e Pentagono.

Proprio il Pentagono, nelle scorse settimane, ha convocato gli addetti militari a Washington dei paesi dell'America Latina per informarli dei suoi timori e delle possibili conseguenze per i loro regimi (pensate ai colonnelli argentini o ai militari paraguayani responsabili della morte di migliaia di oppositori) in caso di varo di un tribunale internazionale dotato di poteri di indagine per i crimini contro l'umanità. E lo stesso ha deciso di fare con gli addetti militari dei paesi della Nato. Una operazione di depistaggio a tutto campo visto che il tribunale non avrà poteri retroattivi e potrà agire soltanto per i crimini commessi dopo la sua istituzione.

La storia raccontata finora è solo un esempio delle difficoltà che incontrerà la Conferenza diplomatica per l'istituzione di un Tribunale penale permanente che, sotto l'egida dell'Onu e la presidenza dell'ex giudice costituzionale ed ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, si svolgerà a Roma dal 15 giugno al 17 luglio: 32 giorni durante i quali le delegazioni di 185 Stati e di 256 Ong (Organizzazioni non governative riconosciute dalle Nazioni Unite) si riuniranno per discutere come mettere fine, o almeno perseguire la lunga serie di eccidi, assassinii di massa, crimini e massacri compiuti in nome della razza o della religione, di cui l'intero secolo Ventesimo è stato insanguinato.

Eppure, quelle di Roma, saranno settimane di grande importanza storica, soprattutto se, come molti sperano, alcuni dei più importanti punti controversi (sono 1.700 quelli su cui finora si è convenuto di non essere d'accordo) potranno essere superati. A questo appuntamento, del resto, ci si prepara da quattro anni, da quando cioè una Commissione di diritto internazionale elaborò una "draft statute", un progetto di statuto, per una Corte penale internazionale e su questa base l'Assemblea dell'Onu istituì un comitato ad hoc per discuterne l'effettiva realizzazione. La conferenza di Roma ne rappresenta l'ultimo atto e si tiene "allo scopo di adottare uno statuto per l'istituzione di una Corte penale internazionale". Per cui ci sarà poco spazio per chi vorrà menare il can per l'aia. E alla fine, con ogni probabilità, gli Stati si divideranno tra chi aderisce e chi no alla nuova Corte permanente. Salvo poi, come è successo con la Corte di Strasburgo per i diritti dell'uomo (all'inizio erano solo 12 Stati, oggi so

no 44), chiedere successivamente di essere ammessi.

In questo quadro il ruolo dell'Italia acquista un notevole risalto, non solo per la presidenza Conso, ma anche per il grande impegno profuso per arrivare a questo appuntamento da Emma Bonino (vedi la scheda in queste pagine), commissario europeo per i Diritti umani, da tutti indicata come la grande ispiratrice del tribunale permanente. E' soprattutto grazie a lei, ad Amnesty International e a Non c'è pace senza giustizia, un'organizzazione radicale non governativa nata con quest'unico scopo, se fra poche settimane si potranno tirare le prime somme.

Si potrà anche dire che così si conclude, con lo spegnersi del secolo, un sogno, un'utopia nati con il suo inizio. Fu lo stesso Trattato di Versailles del 28 giugno 1919, alla fine della prima guerra mondiale, infatti, a prevedere un processo per i criminali di guerra - compreso il Kaiser di Germania Guglielmo II - di fronte a un tribunale internazionale speciale "per offesa suprema contro la morale internazionale e l'autorità sacra dei trattati". Era diverso il linguaggio, allora, non le intenzioni. Finì però che non se ne fece nulla in quanto il governo olandese, dopo aver offerto al Kaiser asilo politico, si oppose alla sua consegna. Né, alla fine, gli alleati fecero mostra di volerlo processare davvero. La storia ha tempi lunghi, storici verrebbe di dire: negli anni seguenti vari tentativi non riusciti furono compiuti per processare i turchi responsabili del genocidio degli armeni, ma il trattato di Sèvre del 6 agosto 1920 che prevedeva l'estradizione dei responsabili dei massacri, fu sostituito dal tra

ttato di Losanna del 1922 che conteneva una dichiarazione di amnistia piena per tutti i delitti commessi.

Si dovette giungere al termine della seconda guerra mondiale perché fossero istituiti due tribunali internazionali, a Norimberga e a Tokyo, per processare i maggiori criminali di guerra. Al di là dei verdetti, i due tribunali rappresentarono un precedente e riaprirono il dibattito sull'istituzione di una Corte penale permanente. Ma c'era la guerra fredda e per molti anni qualsiasi tentativo risultò vano: nel 1949 la Commissione di diritto internazionale iniziò a lavorare su una "bozza di codice sui crimini contro la pace e la sicurezza dell'umanità" ma, investita della questione nel 1951, l'Assemblea generale non ne tenne conto. Debbono passare quasi quarant'anni, perché le Nazioni Unite tornino a mostrare interesse per l'argomento e fu quando, nel 1989, Trinidad e Tobago si appellarono all'Onu affinché costituisse una Corte penale internazionale per processare i mercanti di droga.

Nel frattempo le atrocità commesse in Jugoslavia e in Ruanda portarono il Consiglio di sicurezza dell'Onu all'istituzione di due tribunali ad hoc, nel 1993 con sede all'Aja (Olanda) e nel 1994 con base ad Arusha (Tanzania). Nessuno ha infatti dimenticato l'assedio di Sarajevo durato 1.300 giorni, i morti, per mano serba, a migliaia di Zepa e Srebrenica, il lungo bombardamento di Gorazde, le atrocità del lager di Omarska (il cui capo, il medico Milan Kovacevic sta per essere processato all'Aja) al punto che un uomo come Marek Edelman, che fu il numero due dell'insurrezione del ghetto di Varsavia (1943) contro i nazisti, non ha avuto timore a paragonare la tragedia bosniaca all'Olocausto. E ugualmente gli eccidi che hanno provocato un milione e mezzo di morti in Ruanda. I tempi, insomma, erano ormai maturi per una corte non più ad hoc, limitata nel tempo e nel territorio, ma per un organismo con poteri più vasti e continui. Perché un'utopia diventasse realtà.

Ma ci si arriverà davvero? Prevedere negoziati durissimi non è in questo caso un esercizio di cautela. Sarà proprio così.

Dieci sono i punti chiave ancora irrisolti. I più importanti sono: 1. Il potere del Procuratore di dare inizio a procedimenti autonomamente da qualsiasi autorizzazione, del Consiglio di sicurezza o dello Stato interessato; 2. Il ruolo (conseguente) del Consiglio di sicurezza dell'Onu: se cioè sarà o no ammesso un potere di veto da parte di una delle cinque potenze che lo detengono (Stati Uniti, Francia, Russia, Cina, Gran Bretagna); 3. Il rapporto della Corte internazionale con le giurisdizioni nazionali (se cioè si deve intendere il tribunale internazionale complementare o sostitutivo di quelli nazionali); 4. La giurisdizione "ratione materiae" che dovrebbe prevedere il genocidio, i crimini contro l'umanità, e i crimini di guerra allorché siano configurabili come gravi violazioni del diritto internazionale umanitario; ma che esclude droga, lavoro minorile, crimini contro l'infanzia; 5. Il finanziamento della Corte e le relazioni con le Nazioni Unite.

L'atto finale prevede che la Conferenza diplomatica si concluda con l'adozione dello statuto e la firma di una Rome Convention on the Establishment of an International Criminal Court. La convenzione rimarrebbe aperta alla firma a Roma per tre mesi. Le adesioni successive sarebbero ricevute dal Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, che rimarrebbe il depositario del trattato. Lo stesso Annan sarà a Roma per l'inizio dei lavori della conferenza.

Si può ben comprendere come e quanto difficile sarà il lavoro di smussamento e di raccordo con i cinquemila delegati alla conferenza dovranno fare nei 32 giorni della sua durata. A una settimana dal suo inizio si può però cominciae a ben sperare su un esito positivo. Intanto il fronte dei dubbiosi si è fortemente incrinato. Le delegazioni della Francia e degli Stati Uniti (appoggiati da Russia e Cina) si batteranno per ottenere il potere di veto da parte del Consiglio di sicurezza sulla possibilità di adire alla Corte. Secondo Parigi e Washington, infatti, se il Consiglio di sicurezza è già stato coinvolto in un affaire, può impedire alla Corte di procedere. Gli altri paesi hanno sottoscritto un compromesso (detto di Singapore) secondo il quale la Corte può essere adita a meno che il Consiglio non lo proibisca con un voto.

Ma su questa questione la Gran Bretagna ha rotto nelle scorse settimane isolando la Francia all'interno dell'Unione europea e non è escluso che anche gli Usa possano ammorbidire la loro posizione, visto le differenze di opinioni tra Pentagono e Dipartimento di Stato. Il capo delegazione americano a Roma sarà David Scheffer, già collaboratore di Madeleine Albright alle Nazioni Unite. E questo è considerato da molti un segnale positivo.

 
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