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Conferenza Tribunale internazionale
Castellino Susi - 29 luglio 1998
L'ESPRESSO

11 giugno 1998

L'AJA INSEGNA: AUTONOMIA AI PM

Colloquio con Antonio Cassese

Un laboratorio importantissimo in cui si riesce per la prima volta nella storia a fondere e amalgamare due civiltà giuridiche. Così Antnio Cassese definisce il "suo" tribunale, la Corte internazionale ad hoc dell'Aja sui crimini commessi in ex-Jugoslavia, di cui è ora giudice e che ha presieduto per quattro anni, fin dalla sua fondazione. Assieme al tribunale fratello di Arusha, creato per occuparsi del genocidio ruandese del 1994, il Tribunale dell'Aja sta dimostrando che è possibile far nascere organismi giurisdizionali internazionali che lavorino in modo dignitoso. "E' questa l'unica influenza che possiamo avere sulla Corte penale permanente che sta per nascere a Roma: un'influenza indiretta quindi", dice con un pizzico di modestia, il professor Cassese.

E' rimasta, comunque, un'orma della sua esperienza sulla bozza che si discuterà a Roma?

"Sì. E' stata per esempio inserita una norma inventata da noi, quella riguardante la contumacia. Quando un imputato latitante o protetto dal suo governo è accusato di crimini gravissimi, noi possiamo rendere pubbliche le prove dell'accusa e quindi emettere mandati di cattura internazionali che poi comunichiamo all'Interpol. Questa nostra norma è stata ripresa, quasi alla lettera, dal progetto di statuto della Corte permanente, e rappresenta un esempio di compromesso tra due civiltà giuridiche, quella anglosassone, contraria alla contumacia, e quella che prende l'avvio dal diritto romano, che è invece favorevole. La Corte permanente potrà avvalersi così dell'esistenza di un importantissimo laboratorio in cui mescoliamo la Common law, il diritto di tipo anglosassone, e la cosiddetta Civil law".

Vale a dire?

"Mettiamo insieme - per dirla semplicemente - il sistema alla Perry Mason e quello in vigore in Francia e, prima della riforma del codice di procedura penale, in Italia. Noi non abbiamo alcun modello di riferimento ma stiamo compiendo un salto procedurale che fino ad ora non è stato mai fatto. Norimberga e Tokyo, i tribunali che si sono occupati dei crimini commessi durante la seconda guerra mondiale, utilizzavano solo il diritto anglosassone. Noi abbiamo deciso di usare il procedimento accusatorio invece di quello inquisitorio, ma lo abbiamo molto migliorato. I giudici esercitano un nuovo ruolo attivo. Una volta, durante la prima fase di vita del tribunale dell'Aja, dissi ai miei colleghi che dovevano fare una rivoluzione copernicana, mettendo al centro i giudici cui occorreva dare un ruolo attivo nella ricerca della verità. E così abbiamo fatto".

Qual è, invece, un vostro elemento caratterizzante che non è stato ripreso dal progetto della conferenza di Roma?

"E' la norma che definisce i poteri del procuratore. Da noi il procuratore è colui che decide chi accusare e che fa quindi partire la procedura. E', insomma, il titolare dell'azione penale. Il timore è che, nel Tribunale permanente si potrebbero mettere freni all'opera del procuratore, che dovrebbe magari chiedere il permesso al Consiglio di sicurezza dell'Onu o agli Stati nazionali per poter iniziare un procedimento. Ci sono infatti paesi, come gli Stati Uniti o la Francia, che stanno proponendo soluzioni che sembrano indebolire la figura del pubblico ministero".

Un augurio?

"La bozza di statuto non chiarisce se la pena di morte è esclusa: a Roma, gli Stati dovranno decidere se ammetterla o no. All'Aja e ad Arusha non si può essere condannati alla pena capitale. Spero, quindi, che nella conferenza di Roma l'Italia si batta come un leone per far inserire questa norma di civiltà giuridica".

Paola Caridi

 
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