IL GRANDE GELO TRA ISRAELE E LE NAZIONI UNITE
Di: Umberto De Giovannangeli
ROMA - "In due anni Netanyahu è riuscito a disperdere quel patrimonio di credibilità e di sostegno internazionale accumulato nella stagione del dialogo. E' triste ammetterlo, ma Israele non è stato mai isolato come lo è oggi". Le parole di Shimon Peres sono intrise di amarezza e pessimismo. L'ex premier labourista fa i conti con la realtà, non la amplifica né la stravolge per fini di parte. Semplicemente la registra, riassumendo i tanti contenziosi che oggi fanno di Israele un Paese forte militarmente ma isolato politicamente.
Il primo capitolo del corposo "dossier" relativo agli impegni inevasi dall'attuale governo di Gerusalemme riguarda il ritiro della Cisgiordania. Un ritiro in tre fasi, come delineato chiaramente dagli accordi di Oslo. Ma la seconda fase, che doveva già essere ultimata da tempo, non ha avuto ancora inizio. Il negoziato è bloccato da 16 mesi e a nulla è valsa, almeno sino ad ora, la proposta di mediazione americana, accettata dall'Autorità nazionale palestinese e rigettata dal governo israeliano. In apparenza sembra solo una questione quantitativa: il piano americano prevede infatti un ritiro dell'esercito israeliano dal13,1% della Cisgiordania occupata: Netanyahu non intende andare oltre il 9%. Ma dietro questo braccio di ferro "chilometrico", concordano gli osservatori politici israeliani, c'è il ricatto dei falchi della destra oltranzista, pronti a far cadere il governo Netanyahu se "Bibi" dovesse "cedere alle imposizioni americane".
L'altro scoglio su cui si è arenato il negoziato riguarda la spinosa questione della Grande Gerusalemme. "Gli accordi di Oslo - spiega Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi. - dicono chiaramente che lo status di Gerusalemme è parte integrante della fase finale della trattativa. Ma con la sua politica di massiccia colonizzazione della città - aggiunge il dirigente dell'Anp - Netanyahu sta svuotando di ogni significato questa trattativa, mettendoci ci fronte al fatto compiuto". E questo fatto è, per l'appunto, la "Grande Gerusalemme". Un piano ambizioso, fortemente voluto dal sindaco della città, il "falco" Ehud Olmert, destinato ad estendere i confini municipali di Gerusalemme e a incrementarne la presenza ebraica. Sostenuto dal leader storico della destra ultranazionalista, il potente ministro delle infrastrutture Ariel Sharon, e con il via libera di Netanyahu, Olmert ha fissato perfino le "quote etniche" della "Grande Gerusalemme": i residenti devono essere per il 70% ebrei e per il restante 30% ara
bi. Questo piano è stato formalmente condannato dall'ONU, e ritenuto "un grave ostacolo" al rilancio del processo di pace degli Usa. Ma il governo israeliano ha deciso di infischiarsene e di andare avanti, contro tutto e tutti. Come se non bastasse, a rendere ancor più tormentate le relazioni tra lo Stato ebraico e la Comunità internazionale c'è la costituzione del Tribunale Penale Internazionale. Israele si è dichiarato "indignato" per l'inclusione nello statuto della costituenda Corte di un articolo che considera la colonizzazione di territori occupati come un crimine di guerra. Israele interpreta questo articolo come un siluro indirizzato contro gli insediamenti ebraici sorti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Durissimo è il comunicato diffuso ieri dal ministro degli esteri israeliano: "non possiamo - recita la nota - non esprimere la nostra indignazione nel vedere che la colonizzazione è posta sullo stesso piano dei crimini di guerra più odiosi". "Questa disposizione - prosegue il ministro - non r
iflette la realtà giuridica internazionale e rappresenta un nuovo tentativo dei paesi arabi e dei loro sostenitori di trasformare questo Tribunale internazionale in uno strumento politico destinato a condannare Israele" circa 150mila israeliani vivono negli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania e altri 160mila a Gerusalemme est, che Israele si è unilateralmente annessa dopo la vittoriosa guerra dei sei giorni (1967).