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Conferenza Partito radicale
Giachetti Roberto - 27 novembre 1989
Digiuno e nonviolenza
Il comunicato con il quale Marco, Gino e Giovanni hanno proposto l'apertura di un dibattito all'interno del Partito ha il merito di 'imporre' a ciascuno di noi di render pubblici alcuni disagi, dubbi e critiche che altrimenti non avrebbero trovato alcun altro terreno di dibattito se non quello del mugugno nei rapporti interpersonali.

E' questo a mio avviso il grande valore di un comunicato rispetto al quale per il resto mi trovo spesso in disaccordo, a volte incerto.

Mi rendo conto che questo da solo non sarebbe stato sufficiente ad aprire un dibattito così importante e "delicato" per chiunque ha imparato ad essere nonviolento entrando nel partito radicale; era necessario anche l'intervento di Roberto Cicciomessere che ancora una volta è riuscito ad esprimersi con molta lucidità e ad individuare alcuni dei punti cardine sui quali indirizzare il dibattito.

La prima questione sulla quale credo sarebbe bene riflettere è quella che ci porta ad affermare che lo strumento del digiuno va modificatao perchè così com'è è assolutamente inadeguato difronte alla sempre maggiore chiusura degli spazi di informazione che, per la possibile riuscita di un digiuno, sono indispensabili.

E' un approccio secondo me sbagliato per due ragioni. Innanzitutto perchè sono convinto che l'informazione nei confronti del Partito Radicale e delle sue battaglia non è mutata rispetto agli anni '70, primi anni '80, anni in cui l'impatto del digiuno era fortissimo (e semmai lo fosse, se non altro per il suo insediamento nelle istituzioni è aumentata); e poi perchè impostando il dibattito in questi termini si rischia di eludere completamente la discussione sulla degenerazione alla quale anche ed in primo luogo nel partito si è arrivati nel mettere in atto azioni di questo tipo.

Abbiamo sempre detto che il digiuno era l'ultima estrema arma nonviolenta ma dopo quello di Marco del 1981 questo è divenuto nella maggior parte dei casi, il mezzo più utilizzato perchè nell'immediato sembrava essere quello che più rendeva alla causa, che più riusciva a catturare attenzione, senza rendersi conto che eravamo noi i primi ad utilizzarlo spesso e volentieri come unica arma nonviolenta e non come l'estrema.

Sempre meno (fino al nulla degli ultimi tempi) siamo stati capaci, o forse abbiamo avuto il rigore, di usare il massimo di iniziative nonviolente (di cui -è bene ripeterlo- il digiuno è l'estrema) contribuendo così alla introduzione e formazione di una cultura nonviolenta e sempre più abbiamo puntato sul digiuno, per altro nella continua confusione di questo con lo sciopero della fame, come scorciatoia per il raggiungimento di determinati obiettivi, contribuendo così ad una sorta di crescente inefficacia o assuefazione sia nel suo esercizio che nel suo valore.

Mi pare che sia entrata nel partito la convinzione che digiunare comunque è una buona iniziativa, utile a caratterizzarci come non-violenti, o a caratterizzare come tali le nostre battaglie, ed comodo anche perchè non si paga alcun "prezzo", perchè tanto un modo per uscirne ed interrompere c'è sempre.

Mi ha colpito la riflessione di Roberto sui militanti dell'IRA, perchè ricordo perfettamente come questa discussione girava nel Partito in coincidenza con un digiuno in corso di Marco. In molti, credo ci siamo domandati se quelle morti, "quei gesti di disperazione" non avrebbero messo in serio pericolo la credibilità della azione di Marco rispetto all'opinione pubblica.

La distinzione tra un atto di speranza ed uno di disperazione, tra uno di dialogo (il digiuno di Marco) ed uno di chiusura ed indisponibilità (lo sciopero della fame di Boby Sands) fu un argomento davvero forte e anche convincente. Ma, credo, non adeguatamente approfondito, non analizzato in tutti i suoi aspetti.

E' giusto che il digiuno non può essere un atto di disperazione, perchè sarebbe la sua stessa negazione, ma credo che dovremo iniziare ad interrogarci anche sul fatto che non è possibile immaginare una sorta di perpetua e costante "impunità", di esenzione dal trarre le conseguenze dal fallimento di un digiuno.

Ricordo che nel corso di una riunione di segreteria a Montesilvano nel 1982 si sviluppò un'ampia discussione sul digiuno che stava conducendo Marco, sulle difficoltà e sulle possibilità di vittoria di quella iniziativa. Marco alla fine della riunione disse una frase che tagliò la testa al toro e che in quel momento rappresentò la chiarezza dei possibili sbocchi del digiuno; disse infatti che il suo digiuno poteva terminare (era già iniziato da parecchie settimane) solo in due modi: o con il raggiungimento dell'obiettivo o con il suo fallimento il chè si sarebbe potuto determinare o con la sua morte fisica o con la sua fine politca, il suo uscire della politica.

Nei fatti l'obiettivo, allora almeno, non fu raggiunto e non si verificarono neanche le altre due ipotesi. Di questo ovviamente umanamente siamo tutti ben felici ma allo stesso tempo politicamente da questo dobbiamo partire per spingerci in una ulteriore riflessione: è possibile, è immaginabile che il fallimento di un digiuno e quindi la non realizzazione dell'obiettivo al quale era legato possa non comportare alcuna coseguenza per chi lo ha condotto? O peggio considerare come unica conseguenza il fallimen-to dell'obiettivo?

E' certamente vero che le azioni come quelle degli irlandesi rischiano di togliere credibilità al senso autenticamente nonviolento del digiuno. Ma davvero possiamo pensare che rispetto al nostro modo di condurre i digiuni la totale assenza di "conseguenze da trarne" dopo il loro puntuale fallimento non abbia in nulla intaccato la credibilità dello strumento ed a maggior ragione non neghi al nostro interno come all'esterno la credibilità di quella "arma estrema" così come noi troppo spesso lo abbiamo solo a parole considerato?

Non sono molto d'accordo con le considerazioni espresse nel comunicato di Marco, Gino e Giovanni ed in qualche modo neanche nella lettura che ne da Roberto proprio nella parte nella quale ho la sensazione che si scarichi su altro o su altri il peso di nostre inadeguatezze e certo anche sbagli.

Mi spiego.

Io sono convinto (ed anche su questo credo sarebbe importante iniziare ad aprire un dibattito nel partito... già ma poi quale partito? Anche questo sarebbe un bel dibattito) che troppo spesso ormai il nostro attacco all'informazione quando non si trasforma in un inutile e consunto pianto, pecca spesso di troppo facile ed abitudinario modo di scaricare sul "mostro" tutte le nostre grandi ed enormi inadeguatezze, la nostra avvenuta trasformazione che però non abbiamo il coraggio di guardare in faccia, o la nostra sostanziale incapacità di tornare ad essere protagonisti con l'iniziativa politica, piuttosto che con la polemica più o meno politica. Seppure convinto che su questo è necessario innanzi tutto fare chiarezza ed esprimersi, certo non ritengo che il pro-blema dell'informazione nel nostro paese non rappresenti uno dei problemi più drammatici e sicuramente uno dei momenti di più evidente non democraticità del nostro paese.

Sono d'accordo con quanto dice Manconi, sono d'accordo anche con una parte delle conseguenze che ne trae Roberto. Ma anche in questo caso vorrei porre una domanda: è lecito pensare che l'atteggiamento dei padroni dell'informazione nei nostri confronti non sia punto mutato e che invece profondamente mutato è il nostro modo di affrontare e combattere contro questo?

Non è forse vero che non c'è più uno tra noi disponibile a mettersi in gioco, a scendere in campo, a mobilitarsi su una cosa che crede e ritiene importante, decisiva e vitale per la vita democra-tica nel nostro paese? Che non ci sia più uno che abbia la fantasia e l'urgenza interiore di decidere e condurre un "attacco democratico" sull'informazione, per esempio? C'è uno solo di noi, Marco compreso, che davvero è così convinto di iniziare una battaglia fondata sulla attività quotidiana, ponderata sui tempi e sui metodi, capace di organizzarsi ed organizzare un percorso che comprenda la messa in atto di tutte le forme nonviolente per arrivare se necessario all'estrema, al digiuno, impegnandosi a che estrema sia e non l'ennesima scorciatoia?

Negli ultimi tempi mi pare, invece, che il Partito viva delle infelici contraddizioni di cui l'ultimo più eclatante esempio sono le iniziative di Silvia Bizzarri che prima si avventura in un digiuno che ha come originario obiettivo quello di imporre a Craxi un dibattito con lei sulla droga e poi -è cosa di pochi giornimette in atto un'azione di disobbedienza civile che fa acqua da tutte le parti.

E Silvia è una compagna del partito radicale che, a prescindere da quelle che possono essere le sue personali inadeguatezze, a mio avviso ha scontato anche la "degenerazione" del nostro comune agire di nonviolenti.

Non entro nel merito della parte dell'articolo di Roberto nella quale si e ci pone la domanda su come potrebbe o dovrebbe oggi organizzarsi la conduzione del digiuno (sulla quale indubbiamente vi sarebbe molto da dire) perchè credo che questi siano dettagli e che prima vadano presi in considerazione i punti che ho cercato di trattare, altrimenti sarebbe un altro modo di intervenire, operare e cercare di migliorare le conseguenze di un male e non le sue cause (o almeno la parte più consistente di queste).

Avrei voluto terminare qui ma rileggendo l'articolo di Roberto mi rendo conto che davvero ci sarebbe moltissimo da scrivere.

Mi sia consentito di chiudere dicendo che a mio avviso il problema non è davvero quello di dove fisicamente svolgere un digiuno, o di quale sia l'interlocutore più adeguato in questo momento politico.

Questo è un problema che si risolve dopo. Già dopo cosa?

Dopo aver deciso se siamo disponibili dopo non pochi anni a iniziare una credibile battaglia nonviolenta fondata su tutto quel che ben conosciamo e che semplicemente abbiamo scelto di non scegliere da molto tempo. In sostanza credo che l'unico modo di ridare credibilità al digiuno e -scusatemi ma su questo insisto- a tutte le iniziative nonviolente è quello di mettersi "intorno ad un tavolo" e dirsi francamente quanto si è disposti a mettere in discussione la condizione di "apatia politica" nella quale stiamo navigando da tempo e puntare su una battaglia (e certo quella per l'informazione ne avrebbe tutte le caratteristiche) che meriti l'impegno di tutto l'armamentario nonviolento e che, se necessario, comporti anche un digiuno ad oltranza che possa essere altro da quello intrapreso il 30 giugno da Marco, Giovanni e Gino.

Una battaglia della quale fosse ben chiaro e leggibile l'obiettivo e contemporaneamente limpide e certe le conseguenze che comporterebbe in caso di sconfitta o di vittoria, sarebbe certo un modo, se non l'unico, di ridare credibilità al digiuno ed alla nonvio-lenza e, se concesso, anche un modo di tornare ad aggregare intorno al partito energie che ci siamo persi per strada.

Lo so, caro Sergio, che tutto questo rischia di scontrarsi contro i deliberati del Congresso e dei Consigli Federali più recenti, ma intanto non è scritto da nessuna parte che questo debba essere l'impegno degli organi statutari e poi forse potrebbe essere l'occasione per tentare di definire meglio il senso del partito trasnazionale.

 
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