PREMESSA (salti chi ha letto l'annuncio)
Un intervento al seminario sulla noviolenza promosso su Agora' simpaticamente richiesto ma
tardivamente spedito:
A mezzanotte e tredici della passata notte , fra il 2 e il 3 aprile 90, ho completato e spedito in Agora'unmio intervento per la conferenza Nonviolenza richiestomi nei giorni passati dalla gentile L.Terni.Purtroppo, poiche' la conferenza si e' conclusa definitivamente al termine del giorno 2, l'organizzatricedel seminario ha preferito non inserire il testo fra gli altri pervenuti prima, ed ha agito giustamente,secondo me, perche' se avesse fatto altrimenti, essendo chiusa la discussione, nessuno avrebbe potuto replicare.
L'amica Terni, pero', mi ha fatto molto onore con un messaggio ed un suggerimento che metto
senz'altro in pratica. Quindi, chi volesse leggere il mio "mancato" intervento al seminario sulla
nonviolenza si trasferisca sulla conferenza Partito Radicale, ove lo trovera' con il titolo "Visti
dall'esterno" e preceduto da questa breve premessa. In questo modo, anche se il testo non sara'
inserito nella eventuale pubblicazione curata dal Gruppo Sathyagraha, non andra' del tutto perduto.
INTERVENTO
Visti dall'esterno
E' da qualche giorno, ormai, che ricevo dei solleciti molto cortesi da parte di L.Terni ad intervenire in questo seminario promosso dal Gruppo S. . All'inizio, per la verita', ho avuto forti dubbi se farlo o meno, poiche', come ho riferito alla Terni stessa, affrontare un tema delicato quale la nonviolenza nell'ambito di un seminario gestito da un gruppo "di parte" (nel senso che si proclama uniformemente nonviolento, in contrapposizione ad entita' ed individui "violenti" o comunque di altro pensiero) comporta l'assunzione di diversi rischi: cio' che si dice e' facilmente strumentalizzabile da parte del gruppo che gestisce il seminario (e controlla quindi il dibattito). Inoltre, i moderatori, o gestori del dibattito hanno la possibilita' di influire pesantemente, con opportuni commenti o semplicemente mantenendo l'ultima parola, sulla percezione da parte del pubblico del pensiero espresso da ogni intervenuto. Alla mia reticenza L.Terni ha replicato assicurandomi che, se in futuro gli interventi del seminar
io dovessero esser raccolti in una pubblicazione, cio' avverrebbe previo consenso dei singoli autori dei testi della conferenza, e che, inoltre, non e' costume dei radicali far proprie alcune pratiche di azione politica e di dialettica connotate da scarso "fair play". Devo ammettere che questa risposta me la sono meritata, visto che come utente di un servizio di informazione promosso e gestito dai radicali ho sempre avuto modo di esprimermi liberamente e non ho mai notato episodi di censura o strumentalizzazione ne' dei miei scritti, ne' di quelli altrui. Fatta questa premessa, che e' un dovuto omaggio agli organizzatori del seminario ed all'ente che lo ospita, passo in qualita'di esterno al PR ed al Gruppo S. al tema del dibattito.
Il seminario e' arrivato in pochi giorni a contare piu' di sessanta interventi. L'impressione generale che da essi si ricava e' quella di una sostanziale unanimita' di vedute nel tributare alla nonviolenza una valenza positiva: la nonviolenza e' un "valore positivo" per tutti gli intervenuti. Ovviamente, ciascuno dei partecipanti al seminario attribuisce alla nonviolenza diverse sfumature di opportunita' e di adeguatezza nel contesto della "lotta" o prassi politica. Accanto a questa positivita'di giudizio appare diffuso un senso di perplessita', a volte di aperta sfiducia, nei confronti dell'efficacia della prassi nonviolenta applicata in maniera generale, senza tener conto delle circostanze storiche, dei luoghi e dei tempi tempi diversi.
Curiosamente, proprio il riconoscere alla nonviolenza il carattere di tattica applicabile a seconda delle opportunita' ne sminuisce drasticamente la valenza sacrale di cui essa si circonda quando si manifesta con successo: la nonviolenza (ed il digiuno quale sua manifestazione emblematica) perde quel connotato di valore assolutamente positivo e ritorna ad essere, piu' realisticamente, uno strumento di dialogo o di lotta come tanti altri. Del resto, sono in molti, fra gli intervenuti, coloro che non hanno difficolta' alcuna a riconoscere nella prassi nonviolenta ne' piu' ne' meno che un arma qualsiasi. E discutono della sua applicazione con parole da manuale di combattimento.
A questo punto, una volta sgretolatasi quell'aura di santita' della nonviolenza, cui il mito di Gandhi ha contribuito e di cui esso stesso si e' alimentato, si nota negli interventi l'ansia di recuperarne comunque il valore positivo, di rigenerarlo in versione secolarizzata, mediante un procedimento di legittimazione che passa attraverso la valutazione degli obbiettivi che con essa di volta in volta ci si prefige. Si notera' infatti, che in piu' di un intervento ci si richiama ad un uso della nonviolenza quale strumento subordinato al rispetto delle opinioni altrui nel rifiuto della logica del "ricatto". Si afferma ad esempio che non si e' digiunato per imporre il divorzio agli antidivorzisti, ma per costringere il Parlamento a legiferare in merito al divorzio. La nonviolenza - si proclama e si raccomanda - e' giustificata quale legittimo richiamo al dovere del legislatore, o del potere. Si innalza la nonviolenza a strumento di sublime senso civico onde recuperarne il valore positivo. Ma cosi' facendo
si compie il passo inevitabile di introdurre il concetto del fine che giustifica i mezzi. Si sposta la valutazione sul fine. E poiche' sulla "bonta'" del fine non si puo' essere tutti d'accordo (chi e' l'arbitro assoluto che indica inequivolcabilmente a quali doveri il potere sia venuto meno e quali priorita' essi abbiano ? Chi si puo' ergere ad interprete esatto delle leggi e loro finalita' ?) ecco che la positivita' della prassi nonviolenta puo', di volta in volta, esser messa in discussione in maniera indiretta, ma decisiva, disconoscendo la validita' del fine che essa si propone. La scelta nonviolenta e' quindi discutibile e opinabile al pari della scelta di una qualsiasi altra arma di lotta ed e' subordinata alla ideologia, all'idea politica a beneficio della quale viene messa in pratica.
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Questa relativizzazione del valore positivo della nonviolenza, la sua totale dipendenza dai valori di chi la proclama, apre la porta a tutta una serie di distinzioni, di interpretazioni fra nonviolenza corretta o "scorretta", fasulla e "doc", che poi non sono altro che il primo passo verso la distinzione fra lotte "giuste" e "ingiuste". Esse emergono in abbondanza in numerosi testi della conferenza, per esempio laddove si dice che "non si puo' definire nonviolento un digiuno fatto a fini personali o nell'interesse ristretto di un gruppo (e chi giudica quando un fine e' personale, di gruppo, valido o meno ?)", oppure quando si dice candidamente che gli scioperi della fame all'Est sono stati condotti in maniera funebre e narcisistica - in un certo senso da incompetenti, magari anche ideologicamente- e si dimentica che la fame all'Est, e non solo di cibo, e' durata settant'anni .
Il peso della propria cultura e dei propri valori determina, quindi, anche la percezione individuale della prassi nonviolenta ed arriva a creare situazioni paradossali. Valga per tutti i casi un esempio: di tutti gli interventi del seminario, non uno ha sfiorato il concetto che esiste una contraddizione stridente fra il proclamarsi da un lato attenti vigilatori delle liberta' civiche, fautori del sacrificio personale ai fini del progresso morale e civile, fustigatori degli oppressori veri e presunti (ancora una volta le multinazionali e le concentrazioni dei mass-media sono stati chiamati a far da spauracchio in un paio di interventi), protettori dei poveri, degli affamati, degli animali e della natura, e poi , dall'altro lato, assumere una posizione generalmente di fredda indifferenza difronte alla soppressione legale o illegale, pulita o clandestina, di centinaia di migliaia di esseri umani non ancora nati per ragioni raramente dipendenti dallo stato di salute della madre. Dei tanti fautori della no
nviolenza non ce ne e' stato uno, in questo seminario, che abbia ricordato che, non tanto una qualsiasi religione, ma piuttosto la prudenza stessa - che deriva dalla non conoscenza e non determinabilita' di cio' che in ultima analisi e' l'essenza dell'uomo e la sua dignita'nello stadio pre o post natale - impone anche all'individuo non credente di inorridire al pensiero della possibilita' che ogni aborto sia davvero, come sostengono "alcuni" un omicidio. Questa contraddizione spaventosa viene semplicemente ignorata.
Subordinare la nonviolenza all'idea politica e alla morale facendone un'arma come tante altre equivale a privare chi ne fa uso di un autentico primato morale rispetto ad altri. La storia recente e meno recente dimostra ampiamente che la nonviolenza asservita, anche involontariamente ed inconsapevolmente, all'ideologia, al sistema morale o politico non produce meno lutti e danni dell'azione violenta. Si ricordi, tanto per dirne una, che la protesta pacifista nei confronti dell'intervento francese e poi americano in Indocina, efficacissima al punto da costringere le due potenze al disimpegno militare, ha precipitato milioni di abitanti del Sud-est Asiatico in un vero inferno inimmaginabile di orrori e brutalita'. A questo tema si riallaccia peraltro una considerazione anch'essa tragicamente assente da tutti gli interventi (una debole eco se ne ha in quello dell'On.Negri): quale e' l'effettivo contributo dato dai fautori della nonviolenza al crollo dei paesi socialisti ? Se si escludono pochi casi sporad
ici, la generalita' dei fautori della nonviolenza non hanno minimamente contribuito a sradicare i regimi del'Est. Semmai, la pressione esercitata sull'opinione pubblica e sui governi occidentali per un disarmo accelerato, per lo smantellamento degli eserciti e l'abolizione delle forze armate hanno avuto l'effetto contrario. Malgrado le buone intenzioni, anche l'obiettore di coscenza, nonviolento, radicale, gandhiano che dir si voglia, ha contribuito cosi' piu' di quanto immagini al perdurare di situazioni di tirannide e di oppressione i cui connotati erano ben noti da decenni, riuscendo tremendamente efficace nel suo intento di ridurre la volonta' di difesa e la capacita' di perseguiere una politica di pressione sull'Est delle democrazie occidentali. Appare evidente che la nonviolenza come prassi di lotta politica non trova nemmeno attraverso l'operato globale - visto in ampia prospettiva storica - dei suoi fautori una dignita' realmente distintiva rispetto alla violenza. Tantomeno, e' triste constatarl
o, quando l'attivita' nonviolenta e' coronata dal successo.
Aldila' della positivita' in senso assoluto della nonviolenza o della subordinazione di tale caratteristica alla bonta' dei fini prospettati, aldila' dell'efficacia tattica e del successo della nonviolenza in diversi frangenti , non si puo' sfuggire alla considerazione che pensiero e cultura di sinistra e nonviolenza sono molto probabilmente in intima ma decisa antitesi fra loro. Non si puo' essere autenticamente di sinistra e autenticamente nonviolenti. La sinistra europea ha percorso in simbolici duecentoeuno anni un percorso lastricato di azioni violente. Non ha mai avuto la capacita' di esprimere regimi stabili e governi che non facessero uso della coercizione e della repressione. I modelli di cultura, di societa', di regime promossi dalla sinistra, e che la sinistra stessa caratterizzano, si basano nei loro elementi essenziali su assunti che penalizzano caratteristiche della natura umana stessa (quali la ricerca del vantaggio individuale, la diversa gradazione e distribuzione delle qualita' perso
nali, l'attaccamento alla proprieta'). Non stupisce quindi, che l'imposizione di un modello di uomo di volta in volta astratto ed utopico abbia generato continui attriti fra la cultura di sinistra quando e' andata al potere e la societa' civile. La violenza non e' un fatto accidentale o un prodotto casuale del pensiero e della cultura di sinistra. Ne e' l'inevitabile conseguenza. Stupisce quindi l'indifferenza dei fautori della nonviolenza, dei seguaci ideali di Gandhi nei confronti di questa situazione equivoca e compromettente. Essi continuano a chiamarsi compagni e compagne, continuano ad utilizzare linguaggi e strumenti dialettici frutto di un ampio ventaglio di esperienze della tradizione intellettuale di sinistra. Continuano a volersi piu' o meno consapevolmente confondere con il fallimento stesso di una cultura, che e' passata trionfante per la Bastiglia per naufragare in Lituania. Poi si stupiscono a loro volta se la societa' civile procede senza di loro, se l'eco delle loro azioni e' sempre piu'
fievole o distorto. Mi ha colpito a riguardo un intervento dai toni di vera "disperazione " di un iscritto al partito radicale, che imputa all'incapacita' del partito del "contatto con le domande del nostro tempo" cio' che egli definisce il deperimento del PR . Uno sfogo spontaneo, fatto forse con una certa inconsapevolezza, ma sintomatico del disagio cui molti militanti probabilmente non sfuggono. E, d'altra parte, perche' meravigliarsi se chi si e' aggrappato ad una barca culturale che affonda ha l'acqua alla gola ?
Ascanio Salvidio