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Agora' Agora - 8 maggio 1990
QUALCHE OCCASIONE PERDUTA

di Susanna Ronconi

La legge 663, com'è noto, è stata una sorta di 'work in progress'.

E' nata dall'urgenza di stabilire norme certe sull'applicazione dell'articolo 90, che nel periodo più buio dell'emergenza, era sfuggito a qualsiasi dignitosa verifica di legalità.

Ha, poi, via via 'raccolto' indicazioni, stimoli e domande provenienti da diversi ambiti, a cominciare dalla stessa popolazione detenuta che negli anni 80 più volte si è espressa con nuove forme di lotta, dialogiche e non violente, e, in alcune città, con progetti e sperimentazioni originali.

Se da un lato è stato positivo, questo 'raccogliere stimoli e volontà, dall'altro ha segnato la legge con una non forte coerenza progettuale e, soprattutto, con molte occasioni perdute per una reale riforma.

Ne indico qui una specificatamente tra le tante, e cerco di tratteggiarne i contorni guardandoli dall'osservatorio della detenzione femminile.

Il tema è quello dell'affermazione e della difesa della integrità e della dignità della persona in relazione alle pratiche quotidiane che riguardano, governano o manipolano il corpo.

E' un tema che certamente non riguarda solo le donne, ma ogni persona detenuta. Tuttavia, assumere la femminilità come punto di osservazione e di proposta consente di parlarne con concretezza, evitando quella genericità che spesso caretterizza il discorso sui diritti e sulle garanzie. Consente, inoltre, di contribuire ad un dibattito sui diritti fondamentali riferendoci al patrimonio della cultura delle donne, per le quali il corpo è sempre il corpo sessuato, ed è elemento fondante dell'identità di ognuna/o.

Se è lecito aspirare ad un cambiamento positivo della cultura della pena, è conveniente che il dibattito che vuole promuoverlo viva dell'apporto delle culture più vivaci e profonde, ed accetti la sfida di uno scambio, che sottragga questo dibattito alle 'discipline' specifiche o agli specialisti.

DIRITTI E GARANZIE: UN TERRENO INCOLTO.

Con la legge 663 sono aumentate le occasioni di permeabilità del carcere. Le pene alternative teoricamente più accessibili ed i permessi hanno aumentato il flusso delle uscite e dei rientri ed hanno spostato in molti casi l'esecuzione penale, o alcuni suoi momenti, fuori dalle mura.

Generalmente, il dibattito, quello 'in avanti' e quello allarmistico, si è concentrato attorno a questa permeabilità e al tema della flessibilità della pena.

Pochi sembrano accorgersi che, in questi anni, la qualità della vita interna ha subito spesso un deterioramento, a volte poco visibile ma profondo.

I meccanismi della flessibilità della pena hanno enfatizzato il 'comportamento' e le sue regole, senza porre in discussione la cultura e la formazione - separata, interna all'istituzione, autoreferenziale - dei suoi criteri. Le norme disciplinari si autolegittimano e si alimentano delle quotidiane necessità di funzionamento, ordine e gestione dell'istituzione.

La legge non ha posto mano a quest'ordine di problemi, né lo ha fatto il recente regolamento di esecuzione, che nel complesso appare come un' occasione mancata di rilancio del tema del rispetto di alcuni diritti fondamentali.

L'operazione culturale da compiere sarebbe, del resto, piuttosto radicale: il meccanismo della flessibilità ha oggi i caratteri di una accentuata premialità, e colloca alcuni diritti nel gioco premio-punizione.

Il ribaltamento necessario perchè si possa non retoricamente parlare di rispetto dei diritti deve stabilire uno 'zoccolo' oggettivo, non malleabile, di diritti riconosciuti, estraneo ai meccanismi punitivi. La flessibilità della pena, insomma, andrebbe giocata 'oltre', al di sopra di questo 'zoccolo' duro.

Al di sotto e prima di questo ribaltamento, si rischia l'uso mistificato e giaculatorio del tema dei diritti.

L'INVIOLABILITA'DEL CORPO, DIRITTO FONDAMENTALE, CONDIZIONE NECESSARIA PER ARGINARE LA MANIPOLAZIONE DELLE INDIVIDUALITA'.

Che la carcerazione lavori sul corpo, è cosa ovvia. Non c'è riforma, nemmeno la più radicale, che possa evitare questo lavoro, finchè sussiste l'istituzione totale.

Tuttavia, c'è un terreno da contendere all'esercizio "legittimo della violenza istituzionale" in nome della difesa sociale, ed è questo terreno che può ospitare il rispetto dei diritti fondamentali.

Il corpo della donna detenuta viene quotidianamente violato dalle pratiche del controllo e della terapeutizzazione forzata.

Attraverso questa violazione si impone una certa gestione del carcere, si previene e si reprime, si tranquillizza e si governa.

La cessazione di queste pratiche di violazione implicherebbe un totale sconvolgimento delle modalità di governo delle sezioni femminili.

Qui, l'affermazione di un diritto spingerebbe a mutamenti radicali.

IL CONTROLLO 'TERAPEUTICO' SUL CORPO: GLI PSICOFARMAACI.

Il corpo della donna detenuta è drogato, reso muto, dalla somministrazione massiccia di psicofarmaci.

La percentuale elevata di donne tossicodipendenti ha reso l'uso degli psicofarmaci ancor più "legittimato", sia "scientificamente", sia per il rapporto di complicità che si instaura tra medico e paziente; l'uno somministra, per il quieto vivere e/o per convinzione, l'altra chiede per eccesso di sofferenza e per mancanza di alternative.

Il corpo, addormentato, non fa più esperienza, né della sofferenza, né della resistenza, né della ricerca di un equilibrio. E' muto, e il silenzio è rotto solo in modo violento, eccessivo, 'femminile': anoressia, isteria, autolesionismo, crisi violente, depressione.

Il corpo non ha voce, solo grida, che rientrano in fretta nel meccanismo "terapeutico": più psicofarmaci, e più potenti, più silenzio.

Contrariamente a quanto accade in altri paesi europei, non ci sono dati né statistiche, tantomeno pubbliche e controllabili, che rendono conto di questa pratica, delle sue cifre.

Non c'è trasparenza sulle cartelle cliniche né una sede in cui è possibile discutere le politiche medico-sanitarie seguite in ogni carcere. E' forse uno dei settori più opachi e nascosti dell'amministrazione penitenziaria.

Introdurre pratiche e terapie alternative, rispettose del corpo e della volontà della donna, ha prezzi elevati: investimenti in personale e strutture, rapporto positivo con il servizio pubblico sul territorio, un lavoro approfondito con le donne.

Non si può chiedere ad una legge tutto questo, un vero ribaltamento di culture che non riguarda solo il carcere; ma un impegno alla trasparenza del sistema sanitario interno ed una controllabilità dei suoi meccanismi, questo sì, si può chiedere.

IL CONTROLLO SUL CORPO: LE PERQUISIZIONI PERSONALI.

E' uso nelle sezioni femminili italiane - con più o meno frequenza e meticolosità - perquisire il corpo della donna detenuta in occasione del rientro dai permessi, dopo i colloqui con i familiari, spesso dopo gli spostamenti da un luogo all'altro del carcere.

La generica affermazione del 'rispetto della dignità della persona umana' subisce degli spostamenti a seconda del luogo, del tempo, della tipologia dei reati della donna, del personale di custodia.

Il corpo della donna detenuta viene denudato, palpato, spesso sono obbligatorie delle flessioni sulle gambe, davanti agli occhi di una o più vigilatrici.

Pratica un tempo usata prevalentemente nelle carceri speciali sulle detenute politiche, è oggi diffusa in nome della lotta alla droga, al suo traffico e spaccio interni.

IL CRITERIO DELL'EMERGENZA MISURA E SANCISCE I GRADI DI VIOLABILITA' DEL CORPO DELLA DONNA.

La legge no ha considerato la possibilità di stabilire una soglia al di sotto della quale non sia consentito andare con le pratiche della perquisizione, né si prospetta una sede cui, credibilmente e non teoricamente la donna detenuta possa rivolgersi in caso di aperta offesa alla sua integrità e dignità.

IL CONTROLLO NEL CORPO: LE VISITE GINECOLOGICHE COATTE.

La magistratura di sorveglianza, cui la detenuta potrebbe rivolgere la sua domanda di rispetto ed integrità, è la stessa magistratura che, nel caso di detenute definitive, può ordinare una perquisizione più approfondita, un controllo ginecologico coatto. Il medico ginecologo che riceve una simile disposizione non può sottrarvisi.

Le visite ginecologiche coatte non sono così infrequenti come si pensa. E' sufficiente un sospetto da parte del personale o una soffiata, vera o falsa che sia.

La lotta alla droga è un imperativo capace di tacitare le coscienze più scrupolose.

La visita ginecologica è innanzitutto un deterrente: è in uso, tra il personale di custodia, minacciare la donna 'sospettata' in questo senso, giocando sulla paura e sul pudore. Perchè la minaccia abbia effetto, ogni tanto deve verificarsi.

A volte la donna preferisce autodenunciarsi, nel caso abbia con sè della sostanza, piuttosto che esporre il proprio corpo ad una sorta di "stupro legale".

Il più delle volte l'esito della perquisizione - almeno nel carcere di Torino - è stato negativo, una inutile violenza.

Se ci fossero dei dati, sarebbe interessante vedere quanta della droga circolante in carcere è stata portata all'interno in questo modo. E' probabile che si scoprirebbe un rapporto ridicolo tra la droga scoperta e la quota di violenza inflitta alle donne detenute.

La legge si accontenta di legare la visita ginecologica coatta al nulla osta di un magistrato, pensando in questo ndo di fornire sufficienti garanzie. E' invece necessario affrontare questa misura alla radice, impedendone assolutamente l'utilizzo. E' necessario promuovere una cultura per certi versi simile a quella contro la tortura: non è l'efficacia repressiva (peraltro non dimostrata) il criterio cui delegare l'utilizzo di una simile misura.

IL CONTROLLO NEL CORPO: LE ANALISI CLINICHE COATTE.

le analisi coatte delle urine - su ordine del magistrato - solitamente al rientro dai permessi, è una pratica in vigore soprattutto nelle sezioni maschili, e non è possibile quantificare in che misura viene adottata nelle sezioni femminili.

Anche qui, un po' di trasparenza sulle pratiche e sui dati consentirebbe di parlarne con più precisione.

Il magistrato di sorveglianza dispone il controllo delle urine, evidentemente secondo la prassi di un trattamento sanitario obbligatorio (e se non è così, come ?) per verificare se durante il permesso si è fatto uso di sostanze stupefacenti.

Contraria ad ogni più elementare garanzia sulla volontarietà delle pratiche mediche (ed il prelievo è da considerarsi tale), l'analisi coatta appare inspiegabile anche da un punto di vista repressivo, in quanto a tutt'oggi non è reato l'uso personale di droghe. E' quindi una misura che accerta solo una indisciplina (il/la detenuto/a non viene più ammesso ai permessi) e pertanto il suo utilizzo è ancor più grave perché non giustificato nemmeno dalla prevenzione o dalla sanzione di un reato.

E' necessario promuovere un'inchiesta conoscitiva sulle modalità e la diffusione di questa pratica, ed invitare il legislatore ad una maggiore chiarezza nella tutela dei diritti fondamentali nel campo della salute.

IL CORPO ESPOSTO

E' prassi costante ed acquisita che non venga rispettato il diritto alla riservatezza e alla dignità.

Durante le visite mediche, sia in carcere che - sotto scorta - all'ospedale, è spesso motivo di conflitto e scontro la 'pretesa' di restare sole con il medico e di essere visitate senza la presenza di vigilatrici o, anche, carabinieri.

In questi casi, la donna è affidata totalmente all'atteggiamento del medico, il quale può pretendere la riservatezza o adeguarsi ai motivi di sicurezza addotti dalla custodia.

In questi casi, il corpo della donna diventa asessuato: non è più una donna, tutti si comportano come se il suo corpo fosse un oggetto. Il pudore - in altre situazioni dote tanto osannata - diventa scandalosa pretesa.

Al Repartino detenuti dell'Ospedale Molinette di Torino, si viene denudate sia per la perquisizione, all'arrivo, sia per le visite mediche, sotto l'occhio di una telecamera puntata 24 ore su 24 sul letto.

Nella sala dei monitor, da 3 o 8 agenti di PS o carabinieri assistono, in diretta, all'avvenimento. Porre la questione è cosa inutile: nessuno prende in considerazione questo aspetto della situazione.

La riservatezza, infine, non è rispettata nemmeno per quanto concerne le malattie di cui il corpo soffre.

La cartella clinica è reperibile in infermeria, dove lavorano vigilatrici, in matricola, per gli spostamenti e le visite in ospedale, durante le traduzioni. Tutti hanno accesso alla cartella clinica di ogni donna - legalmente o no - possono leggerla e non sono tenuti al segreto.

La trasparenza che è negata alla donna rispetto alla sua stessa cartella clinica (arduo poterla leggere), è ampiamente concessa a chiunque lavori in carcere.

 
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