I radicali sono interventisti?
In proposito, sembrano parlar chiaro le posizioni espresse in Parlamento riguardo l'invio della Nina, della Pinta e della Santa Maria a sostegno della forza multinazionale, i ringraziamenti di Francesco Rutelli agli Usa per il loro intervento (che hanno fatto venire le madonne a qualche verde), i richiami alla 'nonviolenza attiva, dunque interventista', perfino le dichiarazioni di Roberto Cicciomessere sulla 'sconfitta della nostra politica per la vita del diritto e il diritto alla vita', seguite dal riconoscimento che solo Bush e la sua armata hanno evitato al mondo una nuova Monaco. Al di là del rispetto o meno degli statuti e dei preamboli, si tratta di posizioni che possono sconcertare quanti hanno seguito, più o meno da vicino, anni di iniziative radicali antimilitariste-nonviolente, quando non addirittura (in tempi meno recenti) disarmiste unilaterali.
Ma ha ragione Cicciomessere: i radicali oggi non si possono limitare a rispolverare gli archivi per documentare di essere stati tra i pochissimi a denunciare e a chiedere la fine dei traffici con Baghdad, e a mettere in guardia contro le sventure oggi puntualmente occorse. Non basta. Ma non basta nemmeno quello che i radicali hanno ottenuto dal Parlamento (impegno per il rafforzamento dell'Europa politica, per il controllo della produzione e del commercio di armi, per la convocazione straordinaria del Parlamento Europeo). Sarà anche 'un millimetro nella giusta direzione', ma non si può fare a meno di dire che, ad oggi, si tratta solo di chiacchiere, tuttalpiù di auspici. E l'attenzione del governo a queste 'ragioni dell'opposizione' non può dunque essere invocata come motivo per avallare una operazione che fa fare a tutto il mondo un paio di metri, almeno, e nella direzione sbagliata.
Il Parlamento Europeo, ammesso fosse in grado di esprimere una posizione compiuta e sensata, doveva farlo tre settimane fa, mentre è fin troppo chiaro che OGGI, nel fermento delle cancellerie, la presidenza delle comunità non è interlocutore di nessuno più di quanto non lo siano i singoli stati. Ad esempio la Francia, con la sua posizione e le sue iniziative diplomatiche ben distinte da quella che genericamente definamo 'occidentale'. Roma, al di là delle buone intenzioni, si colloca oggi indiscutibilmente fuori dalle rotte della diplomazia, e basta leggere qualunque giornale o ascoltare qualunque radio o tv non italiani per rendersene conto senza ombra di dubbio. La promessa fatta dal Parlamento di un maggiore sforzo per controllare la produzione ed il commercio di armi è poi davvero ammirevole. Peccato che intanto il muscolo nordamericano dispiegato in Arabia Saudita, a Dubai e altrove costituisca un colossale show-room non solo per i produttori, ma ancor più per chi vende armi e affini (basta guardare a
cosa succede in Israele in questi giorni), e innesca fatalmente una corsa al riarmo. Tanto è vero che tutto il settore, dai grandi contractors americani, ai produttori emergenti del terzo mondo, fino alle fabbrichette di maschere antigas della padania, ha buoni motivi per attendere con ansia un periodo meno grigio del presente. E' un millimetro nella giusta direzione anche questo?
Inoltre non è possibile ringraziare Bush per averci evitato una nuova guerra mondiale, chiudendo entrambi gli occhi sugli aspetti disastrosi dell'operazione americana. Una operazione che fatalmente risponde alla necessità impellente per gli Usa di trovare un nemico che sostituisca l'orso sovietico ed il narcotrafficante sudamericano nell'immaginario televisivo nordamericano, alla necessità di restituire smalto ad un giocatore di golf che non mandava una pallina in buca da tempo, infine alla necessità di far dimenticare agli americani che questo nuovo nemico-mostro baffuto è divenuto tale, in fondo, anche grazie agli strateghi del Pentagono. Sono già buoni motivi per prendere con le molle lo 'scudo del deserto' di Bush, e gli ultimi sviluppi ce ne suggeriscono altri. Lo scopo della missione Usa non è mai stato eccessivamente chiaro (ristabilire il governo di Al-Sabah, ricacciare indietro Hussein, evitare che l'Arabia Saudita venga aggredita...) Ma oggi diventa sempre più evidente che una mobilitazione di uomi
ni e mezzi così massiccia 'deve' in qualche modo dare i suoi frutti, commisurati naturalmente all'investimento. Ed ecco che si parla sempre più spesso di rovesciamento del regime di Saddam Hussein, di inibizione delle sue capacità militari, di risistemazione degli equilibri della regione... Tutti obiettivi ai quali anche altri stati arabi dell'area finiscono oggi con l'essere inconfessabilmente interessati, complicando ancora di più un quadro già preoccupante e difficilmente controllabile. Un quadro che, comunque vada a finire, vedrà accresciuto l'odio antiamericano delle masse arabe, rendendo più difficile la ricomposizione dei delicati equilibri della regione, ed inevitabilmente accrescendo la distanza tra nord e sud. E' anche a questi sviluppi, del resto prevedibili, che il Parlamento italiano ha dato il suo avallo, con i voti 'antimilitaristi' dei radicali. E non è tutto. Per dare un giudizio su quanto sta avvenendo è indispensabile tentare di astrarsi dal contesto italiano e dai luoghi comuni spesso
proposti da stampa e tv. L'isolamento internazionale di Saddam Hussein, tanto strombazzato qui, risulterebbe già diverso se leggessimo, ad esempio, i quotidiani jugoslavi, o indiani, o di altri paesi non allineati, del terzo e anche del secondo mondo, che hanno fatto sulla crisi tutti i distinguo che ritenevano necessari. Sulla applicazione dell'embargo contro l'Iraq esistono, in seno alla stessa Lega Araba, differenti scuole di pensiero e sfumature di interpretazione. Basta solo leggere le notizie di Inter Press Service, utilmente pubblicate da Agorà, per rendersi conto che esistono sulla crisi del Golfo angolazioni di giudizio anche molto diverse da quelle a senso unico che, ad esempio, Carmen La Sorella offre cortesemente ogni sera a ben sette milioni di italiani che con la 'guerra' hanno ripreso gusto a guardare il TG. Sono tanti i risvolti nascosti di una crisi che non è più solo 'del Golfo'. Per dirne una il governo turco sta approfittando della situazione per spostare con la forza dalle zone di conf
ine con l'Iraq migliaia di curdi, provocando, secondo fonti curde, centinaia di morti. Intanto solo un migliaio di chilometri più a sud, ma ad anni luce dall'attenzione delle telecamere, in Eritrea, nel Tigrai e nel Wollo si sta ripetendo la crisi di mortalità per fame di cinque anni fa. La carestia di quest'anno, secondo fonti attendibili, è ben peggiore di quella di allora e la situazione di instabilità militare nelle province eritree, come anche in Angola, Mozambico, Sudan meridionale e Darfur (la sterminata regione del Sudan occidentale) peggiora. Il risultato è che da due a quattro milioni di persone (secondo le diverse stime) rischiano quest'anno di morire di fame. Che c'entra? Si potrebbe sostenere che con i soldi dello 'scudo del deserto' si sarebbe potuta finanziare agevolmente una operazione 'cibo nel deserto'. Naturalmente non è così semplice, ma i radicali, che dieci anni fa ponevano la questione della salvezza di vite umane in alcune aree africane in termini ultimativi, pressanti, oggi sembrano
come rassegnati, compresi nel loro ruolo di cassandre in servizio permanente effettivo e appiattiti spesso su posizioni sostanzialmente funzionali proprio a quel codice di relazioni nord sud che produce le tragedie che essi ritengono di combattere.
Naturalmente non credo si possa dire che tali posizioni coinvolgano tutti gli iscritti al Partito Radicale, nè mi sembra che in proposito si sia sviluppato niente di simile ad un 'dibattito interno'. Ed è per questo che ad Agorà, oltretutto sistema non 'radicale' ma aperto, va il merito di aver innescato una discussione che sarà interessante seguire.
Non rispondo alla domanda di rito: 'allora come fermare Saddam?'. Ma alle riflessioni esposte fin qui voglio aggiungere qualcosa, proprio in favore di quella 'ricerca dei termini di dialogo e di accordo' invocata a ragione dagli stessi radicali. Con la stampa italiana quasi tutta mobilitata nella costruzione del grande affresco bellico, con i buoni da una parte e i cattivi (anzi il cattivo) dall'altra, con i repertori delle definizioni più abbiette ormai esauriti per dipingere tutti insieme la caricatura del nuovo mostro baffuto, sarebbe interessante per una volta un approccio un po' meno convenzionale. Per dirne una, ascoltare la voce delle migliaia di arabi e musulmani che sono in Italia, che, oltre ad essere mano d'opera a basso costo e occasione di polemica per i partiti, hanno anche molte e diverse cose da dire. Forse è solo uno spunto giornalistico, ma una occasione di intervento e di confronto offerta agli iracheni in Italia e in Europa, ad di fuori dagli schemi rigidi della propaganda, potrebbe es
sere sollecitata utilmente e contribuire ad una comprensione più completa. Stesso discorso, in un quadro dialettico il più possibile esente da pregiudizi, può essere imbastito con la variegata e qualificata comunità musulmana residente in Italia e negli altri paesi europei.
La retorica di guerra, in assenza di guerra combattuta, è ancora più pericolosa, e va rintuzzata con il dialogo e con la ragionevolezza. Chi poi vuole dire che è solo grazie alle armi di Bush che si è evitata la terza guerra mondiale, oggi ha buon gioco a dirlo. Ma non ci venga a raccontare questa fola della 'nonviolenza interventista'. Non la capirebbe neanche l'unico tra i nonviolenti che nella crisi del golfo è già intervenuto, e di persona: Jesse Jackson.
Guido Votano