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Conferenza Partito radicale
Cicciomessere Roberto - 27 settembre 1990
Riunione degli eletti radicali - Giorgio Inzani
Sintesi dell'intervento di Giorgio Inzani svolto il 28.7.90 durante il seminario degli eletti iscritti Pr su situazione istituzionale e politica italiana e prospettive Pr, tenutosi il 27, 28, 29 luglio 90 presso l'Hotel Ergife.

1. Questo mio intervento, primo e ultimo, vuole essere propedeutico ad un eventuale prossimo Consiglio Federale. Ed è perciò che non ritengo ozioso iniziarlo con una parafrasi di una parafrasi che vuole essere un auspicio. Ora, se è noto a tutti che L.Wittgenstein concluse il suo Tractatus con la frase: "Di ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.", meno nota è la parafrasi di F.Fortini che suona: "Certo, di ciò di cui non si può parlare, è sempre meno possibile tacere." Di qui, allora, il mio auspicio, non solo per i contenuti di questo seminario, ma anche per le scadenze che verranno. Auspicio che formulo nel seguente modo: "Certo, del PR, e quindi di ciò di cui non si può parlare, sarà sempre meno possibile tacere."

2. L'ultimo intervento di Teodori (ore 16 del 28.7; Ndr) mi ha consolidato l'impressione (che mi era derivata anche da precedenti interventi di persone che stimo molto, per es. Tessari, Negri, Calderisi, Corleone) di trovarmi di fronte ad un disco rotto. Un disco rotto che ci ripete da due anni lo stesso refrain senza riuscire a superare il solco nel quale costringe la puntina del giradischi. Cosa ci ripete Teodori? Le stesse cose che ci aveva detto due anni fa durante il CF tenuto a Gerusalemme. (E non è un caso che anche Corleone senta la necessità di ripeterci le cose dette in quell'occasione senza nemmeno - e dimostrando in questo caso più onestà intellettuale - riverniciarle di nuovo. Esordendo quindi "Due anni fa, a Gerusalemme..."). Questo dato, che è sintomo di una profonda "impasse" del gruppo dirigente radicale, voglio sdrammatizzarlo dicendo che mi ha richiamato alla mente una scena di un film nella quale Totò e P. De Filippo, rivolgendosi a un vigile per chiedergli informazioni, in P.Duomo a Mila

no, gli formulano la seguente domanda: "Per andare dove dobbiamo andare, vogliamo sapere: dove dobbiamo andare?". I due si incavolano poi per la reazione irata del vigile, senza rendersi conto che per porre un quesito intelleggibile (e quindi per ottenere una possibile risposta) gli elementi a loro disposizione c'erano. Per uscir di metafora: Teodori e gli altri summenzionati hanno esperienza e intelligenza politica sufficiente del partito per incentrare il dibattito sulle reali difficoltà della trasformazione transnazionale, perché allora persistono sulla strada della critica pre-confezionata ai quattro gestori attuali del PR?

3. Ma adesso voglio entrare più nello specifico del mio personale contributo a questo seminario scusandomi anticipatamente per la difficoltà necessaria, a chi mi ascolta, nell'individuare il filo logico della mia argomentazione. Posso solo confessare, a discolpa, che l'elaborazione stessa del mio intervento mi è costata non poche tribolazioni, e quindi mi auguro che possa essere di una qualche utilità per voi.

Punto di partenza è la profonda perplessità provata nel leggere un giudizio di Altiero Spinelli su Ernesto Rossi nel 1955 (vedi Diario 1948-1969) "Rossi diventa sempre più insopportabile. Ha fatto una lunga diatriba in direzione per spiegare che non c'è nulla da fare, a meno che un ministro in Italia si decida a volere la Costituente europea. Strano uomo. Il miglior giudizio su lui l'ha dato una volta a Ventotene Eugenio Colorni. E' dinamico, attivo, sempre eccitato. Sembra l'espressione stessa della vita e del pensiero. In realtà è un uomo che ha paura della vita e del pensiero, perché recano in sé il mistero dell'avvenire. Lui vuole essere sicuro. Non pensare cose nuove, ma ripetere sempre instancabilmente, come una formula magica di scongiuro, le cose vecchie che già sa. (..) La sua infinita, puerile paura dinnanzi alla vita lo porta a comportarsi rispetto agli altri come un bambino che vuole essere amato. (..)" Era il 1955, Ernesto Rossi insieme a Carandini stava allontanandosi dal MFE (favoriti, in ques

to loro distacco, e il Diario lo dimostra in abbondanza, da una intolleranza di fondo di Spinelli) per dar vita, insieme a Pannunzio e agli altri, ad un nuovo strumento politico che sarebbe proprio nato in quell'anno: il Partito Radicale. Essendosi forse reso conto che il MFE si stava trasformando in una chiesuola con poco incidenza sulla realtà, cercava forse di mantenere vitali i principi federalisti attraverso questo nuovo strumento politico. Spinelli non dedica un rigo, nel suo diario, alla nascita del PR. Vuol solo togliersi dai piedi Rossi e Carandini nell'imminenza del Congresso di Ancona del MFE, senza rendersi conto che forse questa operazione avrebbe in parte contribuito - non a rendere il MFE, come lui pensava, più efficiente - ma a trasformare il movimento federalista in gruppuscolo marginale. Di ciò si rese conto, ma troppo tardi ormai, lo stesso Spinelli e cercò di porvi riparo - 30 anni dopo - scrivendo, a proposito dell'influenza di Rossi sul suo pensiero politico: "Mi resi conto che il pensi

ero illuminista col suo razionalismo radicale, è in realtà l'unico vero pensiero rivoluzionario, perché l'unico capace di unire, alla condanna di una cosa ingiusta, la precisa proposta di una cosa migliore". Un anno dopo, nel 1985, partecipò - a Firenze - al Congresso del PR e tenne un intervento che può essere considerato un vero lascito testamentario federalista nelle mani di quel partito che nel corso di quel trentennio aveva con coerenza lavorato - e forse meglio del MFE - nella direzione da Spinelli indicata. Perché ho voluto ricordare questo episodio? Per dimostrare come la discussione attorno a temi quali "la durata nel tempo; la forma e l'organizzazione della durata" non sia solo una fisima nella testa di Pannella, ma abbia una precisa collocazione su spezzoni della storia altrui oltre che sulla nostra.

4. Per contribuire in qualche modo ad uscire dalla logica del "disco rotto" voglio mettere a disposizione di ciascuno di noi un contributo metodologico estremamente interessante. Si tratta del modello di sviluppo di Piaget che cercherò di riassumervi molto grossolanamente.

1) periodo senso-motorio (dalla nascita ai due anni)

L'individuo passa da un livello neonatale, di puro riflesso, caratterizzato dalla completa assenza di differenziazione sé-mondo, ad una organizzazione relativamente coerente che lo rende capace di azioni senso-motorie entro i suoi ristretti limiti ambientali. Nell'ultimo stadio di questo periodo viene stabilita la permanenza dell'oggetto.

2) Periodo pre-operazionale (dai due ai sette anni)

Il bambino comincia a distinguere tra significanti e significati. Il pensiero è sincretico, egocentrico, centralizzato. Dai 4 ai 7 anni il pensiero è intuitivo. Un aspetto critico del pensiero in questo periodo è la sua irreversibilità (e cioè l'incapacità a considerare una serie di operazioni inverse che possono reinstaurare una situazione originaria). Esperimenti classici di Piaget sono quelli di versare la stessa quantità di acqua in due recipienti diversi e l'incapacità del ragazzo a capire il fenomeno della conservazione.

3) Periodo delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni)

Viene gradualmente conquistata la capacità di spiegare la reversibilità, di decentrare, di assumere il punto di vista altrui e di concettualizzare le relazioni di classe.

4) Periodo delle operazioni formali (dagli 11 ai 15 anni)

L'individuo comprende che la realtà è solo una di una serie di infinite possibilità. Il ragionamento dell'adolescente è ipotetico-deduttivo.

L'epistemologia genetica, per usare le parole di Piaget "si occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente umana passa da un livello di conoscenza inferiore ad uno giudicato superiore. (..) La natura di questi passaggi, che sono storici, psicologici e talvolta anche biologici, è un problema reale. L'ipotesi fondamentale della epistemologia genetica è che ci sia un parallelismo tra il progresso compiuto nell'organizzazione razionale e logica della conoscenza e i corrispettivi processi psicologici formativi."

Questo modello teorico può essere uno strumento di lavoro molto importante se lo si applica alla psicopatologia non solo individuale, ma anche di gruppo. A differenza degli altri approcci (psicanalitico, fenomenologico, skinneriano, ecc.) esso pone in particolar modo l'accento sul concetto biologico di omeostasi (e non è un caso che l'ottimismo di fondo piagettiano gli derivi dalla sua precedente formazione biologica), e, suo punto centrale, è l'aumento dell'ambito della "ragion critica" (Morin E.) o del "razionalismo radicale" (vedi sopra Spinelli) nei confronti delle tendenze irrazionali o regressive. Se si cerca di applicare questo modello all'attuale situazione del PR, ritengo si possa evidenziare una regressione di buona parte del suo gruppo dirigente al periodo pre-operazionale con una fissazione del suo pensiero attorno al concetto di irreversibilità (applicato, per es. alla partitocrazia).

5. Sui rapporti PCI-PR vorrei far notare a Teodori che non c'è stata solo l'esperienza abruzzese, ma oltre al caso di Agrigento, Bra, e numerosi e diffusi esempi di convergenze elettorali, c'è stato il "caso-Milano" (di cui esiste documentazione, per cui chiunque fosse interessato può richiederne copia a me o a RR) che posso così riassumere: a partire dal documento Stanzani-Occhetto del maggio '89 è iniziata una serie di incontri dapprima con membri della Segretaria provinciale, poi con la stessa segretaria Barbara Pollastrini, propedeutici ad una assemblea di iscritti radicali e iscritti comunisti sul tema: "Come costruire insieme una nuova internazionale federalista, democratica, nonviolenta". Dopo continui rinvii questo incontro si realizza (grazie ad un consapevole ma dissimulato sabotaggio del PCI) tra una quarantina di iscritti radicali, zero iscritti comunisti; i relatori del PCI erano Sergio Scalpelli, Bruno Marasà, Janicki Cingoli, per i radicali A.Taschera e G.Inzani, è intervenuto - a latere - L.S

.Lievers (perché era stata richiesta una rappresentanza "locale"). Questo "caso" dimostra la profonda malafede, nei nostri confronti, della dirigenza comunista. E allora a me viene in mente (ed ecco perché sono in profondo disaccordo - anche se ne percepisco l'onestà d'intenti con quanto detto poco fa da W.Bordon..) quanto ebbe a scrivere Mussi su Rinascita a proposito di Pasolini nel giugno del '74: "Le opinioni di Pasolini (e lo dicon anche Maurizio Ferrara, Ferrarotti, Calvino, Moravia, Facchinelli, Colletti, Fortini... a parte la larga benevolenza di Sciascia) sono frutto dunque di clamorosi abbagli, e anche di un ritardo sulla storia, di un modo trasognato di vivere gli avvenimenti, che conduce facilmente all'equivoco."

Questo ritengo sia ancora, nella sua essenza, l'atteggiamento dei dirigenti comunisti nei nostri confronti. D'altro canto rivolgersi direttamente alla base comunista saltandone le strutture dirigenziali è pressoché impossibile a causa della strutturazione organizzativa di questo partito.

6. Sul lavoro all'interno delle istituzioni. Devo innanzitutto confessare un mio profondo disagio che mi deriva dalla consapevolezza che il mondo si va sempre più organizzando in un orribile universo concentrazionario. Certo, c'è solo da dire che magari la prospettiva nostra non è quella dei deportati (che oggi sono i milioni di morti di fame del terzo mondo), noi probabilmente svolgiamo il ruolo dei kapò o delle SS non del tutto degenerate (e c'erano anche queste..), ma dall'interno dei comuni, delle province, delle regioni, com'è possibile mantenere le nostre coerenze senza rimanere schiacciati o divenire complici? Voglio allora mettervi a disposizione una riflessione di Bruno Bettelheim, che ha vissuto in prima persona la tragedia dei campi di concentramento nazisti cercando però di capire e di studiarne i meccanismi. Nel capitolo "Comportamento in condizioni estreme" lui inserisce un paragrafo dal titolo "l'ultima libertà umana" che credo possa rappresentare per ciascuno di noi un utile riferimento. Lui

scrive: "Questo giudizio costante e consapevole sulle proprie azioni - questa distanza minima dal proprio comportamento e la libertà di giudicarlo, permetteva al prigioniero di rimanere un essere umano. Quei prigionieri che riuscivano a non chiudere ermeticamente né il proprio cuore, né la ragione, né i sentimenti, (..) ebbene, quei prigionieri sopravvissero, e arrivarono a comprendere le condizioni in cui vivevano. Arrivarono anche a rendersi conto di ciò che prima non avevano intuito: che essi conservavano ancora l'ultima, se non la massima, delle libertà umane: quella di scegliere l'atteggiamento da assumere in qualsiasi circostanza. I prigionieri che compresero pienamente questo fatto poterono rendersi conto che qui stava la differenza cruciale fra il conservare la propria umanità (..) e l'accettare la morte come persone umane (..): conservare la libertà di scegliere autonomamente il proprio atteggiamento verso condizioni estreme, anche quando sembrava non esserci alcuna possibilità di influire su di ess

e."

7. E infine le cifre sul partito. Delle tabelle distribuiteci dalla Tesoreria emerge che la situazione è certamente drammatica ma non più tragica. Si è cioè in una situazione di assestamento della situazione economica che può consentire il rilancio di una campagna di iscrizioni con qualche possibilità di riuscita. Sulla situazione gestionale del partito certo, si può essere tentati di percorrere una scorciatoia affermando che se prima c'era una dittatura di fatto, dopo il congresso di Budapest c'è una dittatura di diritto, ma in realtà esiste Agorà che rappresenta un vero e proprio meccanismo omeostatico di riequilibrio in senso orizzontale delle conoscenze all'interno del partito. E quindi la situazione è molto più complessa di quanto possa apparire alla superficie. A proposito di Agorà, inviterei i partecipanti a questo seminario a formalizzare i loro interventi all'interno della Conferenza PR di Agorà, perché ci possa essere una crescita del dibattito che vada oltre la contingenza attuale.

 
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