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Cicciomessere Roberto - 15 gennaio 1991
Ancora su Golfo e nonviolenza
"Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra codardia e violenza, io consiglierei la violenza"

M.K.Gandhi

In queste ore bisogna limitarsi all'essenziale:

1) Le alternative sulla vecenda del Golfo sono sempre state chiare fin dal 2 agosto: accettare, in nome della "pace", della realpolitik, del sostanziale disprezzo del diritto, l'occupazione del Kuwait o invece contrastarla con ogni mezzo. Terze posizioni non ci sono.

Per la prina volta nella storia dell'umanità la quasi totalità dei governi e la maggioranza dell'opinione pubblica mondiale si è trovata d'accordo nel respingere l'occupazione del Kuwait e nel ricondurre nell'ambito delle Nazioni Unite le procedure per ristabilire il diritto violato. Gli USA hanno fornito l'impegno indispensabile perché le decisioni dell'ONU non si riducessero a vuoti auspici ma fossero rese esecutive e coercitive.

Non m'interessa discettare su quali siano i "veri" (o presunti tali) interessi per questo impegno americano; giudico i fatti, oggi.

Ogni recriminazione sul fatto che in passato o in altre occasioni non è stato così possono essere utili per discussioni storiche non per sentirsi autorizzati a non sostenere le decisioni delle Nazioni Unite in questa specifica occasione. Costituiranno comunque un precedente che non potrà essere facilmente rimosso in futuro.

2) L'opzione della nonviolenta politica è in estrema sintesi la volontà di affermare la non ineluttabilità della guerra, della violenza sulle persone, per affermare il diritto. L'impegno del nonviolento è dimostrare che la nonviolenza è più forte e maggiormente efficace della violenza per affermare giustizia e libertà. Non, come pensano i "pacifisti", semplice rifiuto della violenza, da qualsasi parte venga e a qualsiasi costo: neutralità quindi o peggio obiettiva complicità con chi ha causato l'esplosione della violenza, chi ha violato il diritto.

La nonviolenza politica è quindi affermazione della necessità, della urgenza e della possibilità di sostituire alla forza della violenza la forza del diritto. In politica internazionale significa operare per il superamento del concetto di difesa nazionale per sostituirlo con quello della difesa collettiva affidata ad organi sovranazionali dotati sia di legittimità giuridica che di potere coercitivo.

Nella vicenda del Golfo si è affermato per la prima volta questo ruolo di "governo mondiale" dell'ONU (anche se privo di strumenti propri di "polizia" per l'esecuzione delle sue decisioni) e la sua capacità, almeno fino alla risoluzione 678, di utilizzare gli strumenti della pressione politica ed economica per ricondurre alla ragione l'Iraq.

Con la risoluzione n.678 chi si è assunto il maggior onere di questa azione di polizia, gli USA, non essendo uno stato che risponde alle leggi della nonviolenza ma solo a quelle della democrazia, ha fissato una scadenza per il passaggio all'uso della forza militare. Io penso che non è stato fatto tutto quello che era possibile fare per rendere più efficace l'embargo e soprattutto non sono state neppure tentate le forme di "guerra" e di destabilizzazione nonviolenta che pur era possibile sperimentare. Ma nessun governo o forza politica di peso significativo ha purtroppo concretamente operato per non rendere ineluttabile il ricorso alle armi.

Potremmo discutere a lungo perchè oggi non esiste ancora una forza nonviolenta nel mondo capace di confrontarsi con il pensiero prevalentemente militare. Come radicale posso dire che questa scommessa è la ragione costitutiva del partito trasnazionale. Ma in queste ore i fatti c'impongono purtroppo altre scelte e altre decisioni. Almeno ad alcuni di noi.

3) Cosa può fare in questa precisa situazione, così come l'ho descritta e non come vorremmo che fosse, un nonviolento?

La risposta l'ho già data nel passato ed è riportata nel titolo, attraverso le parole di Gandhi.

Ma prima, a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum delle Nazioni Unite, mi assumo anche la responsabilità di esprimere la mia valutazione su quello che può accadere, qualcosa di più di semplici speranze.

Io non credo che Saddam Hussein possa prendere in seria considerazione l'ipotesi di affrontare realmente la guerra con gli Usa. Fino all'ultimo momento Saddam Hussein deve portare avanti il suo bluff e verificare l'effettiva determinazione degli USA a porre fine, con la forza, all'occupazione del Kuwait. Se non vi saranno cedimenti nel fronte anti-Iraq, un minuto prima della scadenza, quando avrà preso atto che non vi sono alternative alla sconfitta, Saddam dovrà cedere. Credo inoltre che gli Usa, a prescindere dalla obbligata manifestazione di intransigenza, siano pronti a cogliere qualsiasi segno di una effettiva disponibilità di Saddam a ritirarsi dal Kuwait, pur di rinunciare al confronto militare.

La ragione mi spinge quindi a sperare in questo esito, perchè siano guadagnate vite umane e tempo prezioso a quella aspirazione di milioni di persone che semplicemente vorrebbero abitare in un mondo in cui nessuno ci chiede di morire né per la patria, né per la giustizia e neppure per la rivoluzione.

Questo tempo sarebbe anche guadagnato alla possibilità di costruire quel partito internazionale e trasnazionale della nonviolenza, della tolleranza, dell'antimilitarismo capace d'impedire che l'unica, drammatica scelta a cui i fatti ci costringono ancor oggi sia ancora quella fra codardia e violenza.

 
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