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Conferenza Partito radicale
Cicciomessere Roberto - 20 gennaio 1991
Guerra e pace

Provo a fare chiarezza sulle ragioni del mio voto a favore dell'impiego della missione militare italiana nel Golfo per l'attuazione della risoluzione n.678 e ne approfitto per parlare anche d'altro..

Non sarò breve, ben 22 Kbyte, e quindi invito, chi non è disposto a tollerare questa mia totale, palese e confessa incoerenza con le mie stesse convinzioni a proposito della lunghezza accettabile dei testi telematici, ad usare il TAB.

Ecco i titoli degli argomenti:

1. Dieci anni di denunce contro l'Iraq e il governo italiano.

2. Cosa proponevano i radicali per ripristinare il diritto violato dall'Iraq.

3. Il voto dei radicali dopo l'inizio del conflitto armato.

4. Perché ho votato SI.

5. Guerra o azione di polizia.

6. Nonviolenza e conflitto nel Golfo.

7. Lo statuto del Pr: ...non uccidere neppure per legittima difesa.

1. Dieci anni di denunce contro l'Iraq e il governo italiano.

Da dieci anni abbiamo tempestato il governo italiano con decine di mozioni e interrogazioni, interventi nei dibattiti parlamentari da noi provocati, campagne di stampa e querele per avvertirlo della drammatica situazione che si andava creando nell'Iraq con la complicità e la miopia di tutto il mondo industrializzato Denunciavamo il governo italiano che nulla faceva per impedire il riarmo dell'Iraq, per vietare, nonostante l'embargo, l'esportazione di armamenti, munizioni, tecnologia per la produzione di armi chimiche verso il regime di Saddam Hussein; denunciavamo il silenzio del governo italiano nei confronti della violazione dei diritti del popolo iracheno e curdo, quest'ultimo sterminato proprio con la tecnologia chimica fornita dall'Italia. Ancora la compromissione della Banca d'Italia nello scandalo della Banca Nazionale del Lavoro di Atlanta. Solo due anni fa ritornammo alla carica per il coinvolgimento di industrie italiane nella vendita all'Iraq delle bombe "cluster". Per due legislature la Commissio

ne Inquirente del Parlamento italiano ha discusso una denuncia da me presentata nei confronti di vari ministri per le tangenti connesse alla vendita all'Iraq di un'intera flotta navale: 135 miliardi di lire.

Per anni, inascoltati, abbiamo denunciato il comportamento suicida dell'occidente che pensava di fare un buon affare barattando i diritti umani degli arabi, dei somali, degli etiopi, dei curdi in cambio dei petrodollari o delle commesse militari.

Quando denunciavamo i milioni di arabi sterminati dalle polizie o dagli eserciti dei dittatori arabi non eravamo confortati dalle manifestazione di massa del Pci, dalle proteste dei pacifisti. I "democratici" erano troppo impegnati ad esaltare e sostenere la rivoluzione di Khomeini contro lo Scià.

Saddam Hussein, Siad Barre, Haile Mariam Menghistu, Affez Assad rappresentano esattamente il volto dell'occidente nel sud del mondo. La guerra è la condizione necessaria di sopravvivenza per questi dittatori che devono difendersi innanzitutto contro il proprio popolo, affamandolo, mandandolo in guerra, sterminandolo.

2. Cosa proponevano i radicali per ripristinare il diritto violato dall'Iraq.

La posizione dei deputati e dei senatori del Gruppo parlamentare federalista europeo sulla crisi del Golfo era indicata con estrema precisione nei due documenti presentati in questi giorni, che sono riportati nei testi n. 3614 e 3634 del settore NOTIZIE RADICALI. Nel dispositivo si chiedeva sostanzialmente di non utilizzare la forza militare, come era pur legittimo secondo il diritto internazionale (art.42 della Carta delle Nazioni Unite), ma di usare fino in fondo la forza non militare ed in particolare di attivare una grande offensiva d'informazione rivolta al popolo iracheno ed arabo. Non si trattava cioè solo di prolungare l'embargo ma di porsi chiaramente l'obiettivo di una rivolta del popolo iracheno, di una parte della sua classe dirigente, contro Saddam Hussein. L'embargo, anche se aveva ottenuto risultati importanti per quanto riguarda l'isolamento politico ed economico dell'Iraq, non era in grado di produrre questo risultato e la presenza militare degli USA, intervenuti su richiesta dei paesi arabi

per impedire l'operazione iniziata con l'invasione dell'Iraq, non poteva durare all'infinito, anche per scadenze di ordine religioso.

Chiedeva inoltre al governo di annunciare la convocazione non di una conferenza di pace sul Medio Oriente e cioè esclusivamente legata al problema palestinese, ma di una "Conferenza sui diritti della persona e sulla sicurezza nel Mediterraneo e nel Medio oriente", e cioè di affrontare le vere cause d'instabilità di questa area che risiedono innanzitutto nell'assenza di democrazia. Si chiedevano poi impegni precisi per giungere ad un trattato internazionale per la limitazione e il controllo del commercio delle armi.

Era purtroppo solo una proposta, solo la testimonianza di una posizione, perché non abbiamo ancora lo strumento politico trasnazionale adeguato per trasformarla in una opzione effettivamente presente nel dibattito politico internazionale, per organizzarla attraverso una lotta da portare nelle piazze e nei parlamenti dei maggiori paesi del mondo.

Era questa una posizione integralmente nonviolenta che si contrapponeva alla posizione "pacifista" perché si schierava senza equivoci contro Hussein, con tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite (la 678 chiedeva di usare tutti i mezzi per... e quindi non necessariamente la forza militare) e proponeva di usare la forza contro questo dittatore. Forza quindi e non gli strumenti diplomatici, come chiedono i "pacifisti", che non hanno sortito alcun effetto. La strada diplomatica, la "trattativa" che oggi viene evocata nelle piazze, era perseguibile ad una sola condizione: cedere sulla questione del ritiro dal Kuwait che Saddam Hussein non voleva neppure prendere in considerazione e quindi premiare il dittatore. Credo che solo i disinformati o chi è in cattiva fede può mettere in discussione un fatto: sono state tentate tutte le strade diplomatiche possibili ed anche i tentativi di "amici" di Saddam, come Arafat o re Hussein di Giordania sono falliti.

3. Il voto dei radicali dopo l'inizio del conflitto armato.

Quando gli USA, l'Inghilterra, l'Arabia Saudita e il Kuwait hanno deciso di dare esecuzione, con l'impiego della forza militare, alla risoluzione n. 678 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la proposta centrale della nostra mozione veniva a cadere.

Questi paesi, e in particolare gli USA, da una parte hanno valutato che l'embargo non avrebbe avuto l'effetto desiderato e dall'altra hanno ritenuto che Hussein non avrebbe ingaggiato uno scontro militare che lo avrebbe visto con certezza perdente. Anche io, sul piano strettamente razionale, ho ritenuto, fino all'ultimo, che Saddam alla fine si sarebbe ritirato evitando una ulteriore tragedia al proprio popolo. Evidentemente i suoi valori e le sue logiche sono diverse dalle mie.

Il Partito radicale, attraverso le parole del suo segretario, non poteva certamente prendere posizione sul voto ma certamente l'ha fatto per quanto riguarda il giudizio sulle responsabilità dell'occidente e dell'Iraq. Gli iscritti al Pr hanno assunto diverse posizioni da quelle del NO di Bordon (pci), Mattioli, Lanzingher e Andreani (verde), Tessari, Corleone, Modugno (gruppi federalisti della Camera e del Senato), all'astensione di Mellini e Strik Lievers (gruppi federalisti) e al SI di Stanzani, Bonino, Zevi, Staller, Calderisi, Negri, Cicciomessere (gruppo federalista).

La questione delle dichiarazioni di voto di dissenso sollevata da Roberto Giachetti è molto semplice: poiché il regolamento prevedeva una sola dichiarazione per gruppo e questa era stata utilizzata da Stanzani, per parlare erano necessario usare l'artificio di dichiararsi "in dissenso dal gruppo". Così ha fatto Emma Bonino. Ma in effetti il gruppo non aveva votato alcuna posizione lasciando (come sempre) ad ogni deputato la facoltà di votare secondo le proprie convinzioni.

4. Perché ho votato SI.

Se fossi stato un deputato del congresso americano avrei votato contro la decisione di usare la forza militare per attuare la risoluzione 678. In quella sede e in quel momento era infatti almeno teoricamente possibile imporre con il voto la scelta dell'uso della forza non militare. Se il voto alla Camera dei deputati italiana fosse intervenuto prima dell'inizio del conflitto avrei votato la mozione radicale e respinto quella della maggioranza. Era infatti questo l'orientamento della maggioranza dei deputati radicali il 16 gennaio.

Quando siamo stati chiamati ad esprimerci, purtroppo la decisione di passare all'uso della forza militare era stato già preso.

Ci si chiedeva di decidere se l'Italia doveva associarsi ai paesi che in piena legittimità dal punto di vista del diritto internazionale stavano dando esecuzione ad una risoluzione delle Nazioni Unite o invece doveva dissociarsi.

Credo che sarebbe stato molto facile e "popolare" nei confronti dell'elettorato "radicale" votare no. Il mio impegno, da quattro legislature, contro il sostegno militare, politico ed economico del governo italiano all'Iraq mi avrebbe ulteriormente dato buone ragioni per dire al Governo italiano: "sono fatti vostri", "siete voi gli unici responsabili dell'ascesa politica e militare di Hussein", "avete seminato vento e oggi raccogliete tempesta". Insomma la comoda posizione del "né aderire, né sabotare".

Ma purtroppo quando c'è la guerra non si può essere neutrali.

Io penso che la storia cammina proprio quando si ha il coraggio di prendere posizioni impopolari. Solo allora, da una parte e dall'altra, si è costretti ad usare l'intelligenza, a superare la pigrizia dei luoghi comuni, a smantellare le solide convinzioni e a praticare le strade del vero dialogo.

Io mi sono determinato al voto a favore della mozione di maggioranza essenzialmente sulla base di un solo quesito: cosa avrei fatto se oggi, in questo frangente, non ieri o l'altro ieri, avessi avuto per intera la responsabilità di decidere sull'atteggiamento dell'Italia?

Avrei scelto, avrei dovuto scegliere, senza ombra di dubbio, di schierarmi dalla parte di chi usa la violenza per affermare il diritto contro chi usa la violenza per violarlo. Non mi sarei dimesso dalle mie responsabilità nel momento in cui l'Italia ha condiviso, anche con il mio consenso, tutte le risoluzioni, dalla 660 alla 678, approvate dall'ONU.

Mi sono fatto carico delle responsabilità di governo che appartengono, in forme diverse, sia alla maggioranza che all'opposizione.

Insomma, non sarei stato molto in pace con me stesso, se avessi scelto per codardia, per opportunismo, peggio per calcolo elettorale di votare no. E' il sentimento che ho letto negli occhi di tanti deputati comunisti che, dopo il voto, sono usciti dall'aula senza la solita baldanza e senza la solita ostilità con chi non è d'accordo con loro.

Sono perfettamente consapevole delle contraddizioni difficili fra questo voto e le mie convinzioni nonviolente ma da laico non credo che la verità passi attraverso le granitiche coerenze e le granitiche certezze. Come laico era, lo ripeto, il Mahatma Gandhi quando, in occasione della seconda guerra mondiale, viveva sicuramente il dramma del suo essere nonviolento e nel contempo la sua profonda convinzione di non poter alzare un dito per impedire che gli indiani combattessero contro il nazismo.

Non per questo ha smesso di professare e di praticare la nonviolenza.

Anche se non intendo neppur lontanamente paragonarmi a Gandhi, non smetterò, dopo il voto del 17 gennaio, di professare e di praticare la nonviolenza, di rivendicare il mio antimilitarismo, di affermare che la guerra è sempre un crimine contro l'umanità, che gli eserciti sono tutti neri, che i mezzi devono essere adeguati ai fini e che anche le cosiddette "guerre giuste" lasciano dietro di sé non solo l'ingiustizia dei morti incolpevoli, ma la mortale convinzione che la guerra sia una continuazione della politica, che ancora dovremmo armarci per la paura o per l'alibi di altri Hussein. Ma soprattutto non smetterò di rischiare anche l'incoerenza per tentare di guadagnare un millimetro alla speranza di costruire un mondo dove nessuno sia più costretto a morire per affermare giustizia.

5. Guerra o azione di polizia.

Nel linguaggio comune quella che si sta combattendo nel Golfo è guerra. Ma siamo sicuri che questo sia il termine più adatto per definire, dal punto di vista giuridico, del diritto, quello che sta accadendo oggi?

Capisco che è difficile convincersi che, secondo il diritto internazionale accettato da tutti i paesi rappresentati all'ONU, compreso l'Iraq, scaricare 18.000 tonnellate al giorno di bombe non deve essere considerata azione di guerra ma azione di polizia. Anche molti compagni radicali, primo Mauro Mellini, sembrano rifiutare questa distinzione che appare a prima vista inaccettabile. Ma non sempre le cose che appaiono scontate sono poi vere.

Una delle maggiori conquiste dell'umanità è stata quella di trasferire ad un potere superiore il legittimo uso delle armi e il diritto di fare giustizia. Al singolo non è consentito, se non eccezionalmente per legittima difesa, di usare le armi contro un'altra persona, di farsi giustizia. Il diritto all'autodifesa è stato interamente trasferito allo stato, alle forze di polizia e al potere giudiziario. Le conseguenze sul piano giuridico e semantico sono in questo caso chiare a tutti: se un cittadino spara ed uccide un ladro compie il reato di omicidio e nella coscienza comune è un assassino; se lo fa la polizia non è reato e nessuno ritiene che il poliziotto, se ha usato le armi come estrema ratio, sia un assassino.

Il secondo passo storico in questa direzione è quello di trasferire ad un organo di diritto sovranazionale e democratico la tipica prerogativa degli stati nazionali, quella della difesa militare. La carta delle Nazioni Unite lo prevede espressamente anche se fino ad oggi nessuno stato ha delegato e trasferito completamente questa sua prerogativa alla all'autodifesa militare all'ONU.

La Costituzione italiana esclude in assoluto la possibilità di ricorso alla guerra, se non in caso di legittima difesa intesa nel senso stretto della reazione all'aggressione armata sul suo territorio. In questo caso lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, così pure quando l'Italia sia obbligata ad intervenire in un conflitto armato in virtù di un patto militare, come per esempio la NATO, per difendere un paese alleato da una aggressione militare. Se invece l'intervento è compiuto su mandato delle Nazioni Unite, con la bandiera dell'UNU, con contingenti nazionali attribuiti, ai sensi dell'articolo 45 della Carta dell'ONU, al Consiglio di Sicurezza, non solo non è richiesta la dichiarazione dello stato di guerra ma neppure il voto di autorizzazione del Parlamento italiano. Nel caso del Golfo è stata necessaria una delibera delle Camere (non la dichiarazione dello Stato di guerra) sia perché non esistono ancora contingenti italiani (e relativi accordi) assegnati all'ONU, sia perché la risoluzio

ne 678 era facoltativa e non vincolante.

In conclusione, quando l'ONU intraprende ai sensi dell'art.42 della sua carta, "con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale", i paesi che forniscono i contingenti militari non agiscono per proprio conto contro un altro paese, ma sono solo il braccio armato delle Nazioni Unite. Come è evidente in questo caso le Nazioni Unite non fanno la guerra contro un altro paese ma impongono con la forza militare il rispetto del diritto internazionale violato.

Oggi, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite almeno per quanto riguarda uno scontro così drammatico (se non sbaglio, l'unico precedente confrontabile è quello della Corea) ci troviamo esattamente nell'attuazione piena dell'art.42 della Carta. Dal punto di vista strettamente formale i paesi che operano nel Golfo lo fanno su mandato e in rappresentanza delle Nazioni Unite. Non sono in guerra contro l'Iraq.

Queste considerazioni nulla tolgono all'orrore della "guerra" in atto. Ma l'obiettivo del nonviolento non può essere quello di screditare e delegittimare l'ONU perché usa i soli strumenti di forza che conosce, quelli militari, ma di operare perché possano essere sostituiti con altri e più efficaci strumenti di forza non militare. Deve quindi farsi carico d'inventarli e non può confonderli con i normali strumenti dell'iniziativa diplomatica.

Si pongono poi enormi problemi in relazione al carattere non pienamente democratico delle Nazioni Unite, al diritto di veto, alla necessità che l'Europa politica possa controbilanciare il potere degli Usa, ma non mi sembra che questi aspetti modifichino le questioni di fondo oggi in gioco. Così ancora nulla aggiungono le considerazioni sul diverso comportamento che l'ONU ha avuto in altre violazioni del diritto. Chi utilizza questi argomenti sembra dimenticare che solo da un anno si è conclusa la guerra fredda e con essa il gioco dei veti incrociati delle due superpotenze e la spartizione del mondo per aree d'influenza.

6. Nonviolenza e conflitto nel Golfo.

L'aspirazione di un democratico e federalista, di un vero pacifista, dovrebbe essere quella di giungere a trasferire tutte le prerogative nazionali in materia di difesa e di sicurezza alle Nazioni Unite, di attuare tutte le parti della Carta, di trasformare in senso democratico il Consiglio di Sicurezza, di abolire insomma la guerra, intesa come scontro militare fra entità nazionali.

E' questo anche l'obiettivo di un nonviolento?

La nonviolenza politica si propone in estrema sintesi di sostituire alla violenza il diritto. Nell'ambito internazionale, il nonviolento lotta perché non sia considerato ineluttabile, anche per la difesa di interessi legittimi come il territorio nazionale o le istituzioni democratiche, l'uso della guerra e l'uso della violenza. Non quindi la pace a tutti i costi, soprattutto a costo del diritto, ma il diritto a tutti i costi.

L'obiettivo del nonviolento coincide quindi con quello del "democratico" (io credo che non si possa essere democratici senza essere nonviolenti!) per quanto riguarda il trasferimento dei poteri di uso delle armi dallo stato nazionale ad un ente sovranazionale. Sa che sostituendo alla legge della giungla, della legittima difesa, il diritto e il dovere dello Stato di farsi carico della sicurezza dei cittadini, si abbassa drasticamente il livello di violenza. Così nel caso della sicurezza nazionale, sa che se effettivamente le Nazioni Unite fossero dotate dei pieni poteri di polizia internazionale, la conflittualità fra stati si ridurrebbe considerevolmente. Ma il nonviolento lotta anche perché deperisca, soprattutto nelle istituzioni, la necessità di ricorrere alla violenza. Vuole insomma progressivamente convertire le armi militari dell'autorità legittima in armi nonviolente.

Oggi, se il primo obiettivo, quello del trasferimento ad un potere sovranazionale delle prerogative della difesa e della sicurezza degli stati trova un primo, parzialissimo - ma decisivo come precedente - riscontro, non si può dire certo che ci troviamo davanti a segni che mostrino tendenze alla conversione degli strumenti bellici.

Ma, mi chiedo, a che titolo possiamo pretendere che questa conversione si realizzi quando la nonviolenza politica, quella che oggi è espressa solo dal Partito radicale, non è, almeno a livello internazionale, un punto di riferimento di alcuno?

Cosa possiamo aspettarci quando le uniche culture che si confrontano nei mass media occidentali, attraverso le immagini della guerra e delle manifestazioni pacifiste, sono da una parte quelle che affidano l'affermazione del diritto alla tremenda potenza militare e dall'altra quelle, da sempre perdenti, che sarebbero disponibili a mettere sotto i piedi qualsiasi diritto, la stessa vita di milioni di iracheni e arabi sterminati per anni da altri arabi, pur di tutelare la propria tranquillità e il proprio benessere dell'oggi?

Ecco, sta proprio in questi interrogativi la scommessa del Partito radicale: organizzare la cultura della nonviolenza - che è cultura di forza, d'intervento e non di debolezza e di rassegnazione - per potersi opporre alle due sole culture, quelle della forza della violenza e quella della debolezza della neutralità, che quotidianamente sono rappresentate nelle televisioni di tutto il mondo attraverso le immagini della tremenda efficienza militare e della protesta incapace di proposta delle marce "pacifiste".

7. Lo statuto del Pr: ...non uccidere neppure per legittima difesa.

Non voglio cavarmela dicendo, come ho già scritto prima, che pensare alla nonviolenza come ad un percorso senza contraddizioni, senza sconfitte, senza ambiguità, è profondamente sbagliato e velleitario. E chi esige una presunta coerenza ai suoi presunti dogmi nonviolenti, mostra un furore catechistico che è estraneo alla paziente religione del dialogo, all'umile ricerca, perfino nell'orrore della guerra, dei piccoli varchi che possano far avanzare, anche solo di un millimetro, le speranze di vita, di diritto.

Neppure ricordando, come è vero, che parliamo di preambolo allo statuto e non di statuto, affermazione quindi di volontà politica, di progetto politico e non condizione pregiudiziale per l'adesione al Partito Radicale.

Non è infatti contestabile che la nonviolenza, il simbolo gandhiano, rappresenta il tratto caratteristico del Partito radicale. Così nessuno può pensare che l'azione militare nel Golfo compiuta in esecuzione di un mandato dell'ONU, anche se rappresenta una legittima espressione del diritto internazionale, possa essere esaltata come espressione e successo della nonviolenza. Di altro si tratta, come ho cercato di scrivere nei precedenti 6 punti. Non c'è bisogno quindi di scomodare il "preambolo" per rendersi conto di tutto questo, per sapere di quante contraddizioni, speriamo feconde, è fatta la vita di un radicale, di chiunque si avventuri nelle strade sconosciute della ricerca, di chi ha abbandonato le calde ed accoglienti certezze dell'ideologia, di chi, come me, ha scelto la bestemmia della guerra piuttosto che accettare la sconfitta della rassegnazione e della complicità.

Per chi è interessato veramente a capire il preambolo radicale e non solo a servirsene per cercare le nostre contraddizioni (tutte in bella mostra e in diretta!) deve innanzitutto calarlo nel concreto scontro politico della nostra società e nell'area della politica e non scambiarlo per una rilettura del quinto comandamento.

Con il preambolo di vuole affermare che l'imperativo cristiano del non uccidere deve divenire anche un imperativo pienamente politico che non deve trovare eccezione neppure di fronte alle ragioni della legittima difesa. Neppure per legittima difesa deve essere possibile ad uno stato nazionale impiegare gli strumenti di guerra.

Su questo ho già scritto: anche il principio della guerra di autodifesa deve essere ricondotto ad un diritto sovranazionale, trasferito come prerogativa esclusiva delle Nazioni Unite.

Il preambolo ha un grande e chiaro significato: i radicali che condividono l'obiettivo politico e il metodo della nonviolenza politica s'impegnano ad organizzarsi per la sua affermazione. In quanto tempo? nei tempi della lotta e della volontà politica e non in quelli della fantasia. Nessuno, spero, può pensare che i radicali siano così presuntuosi da credere che per il solo fatto di adottarlo in un proprio congresso, il preambolo sia divenuto legge della comunità internazionale. Dopo cinque anni di lotta per affermarlo contro lo sterminio per fame abbiamo dovuto prendere atto che lo strumento organizzativo, il Pr, di cui allora disponevamo non era sufficiente ed adeguato. Ciò nonostante siamo andati avanti e stiamo cercando di dotarci di uno strumento politico trasnazionale nuovo, da nessuno mai concepito, in grado d'ingaggiare la lotta nonviolenta nel maggior numero di paesi possibile.

Che c'entra, mi chiedo, il preambolo allo statuto radicale con il voto del 17 gennaio? L'obiettivo del preambolo non è stato realizzato né la notte del 17 gennaio quando sono cadute le prime bombe su Bagdad, né il 2 agosto quando Hussein ha ritenuto di poter invadere impunemente il Kuwait, né quando la comunità internazionale non ha ascoltato la richiesta dei premi Nobel, del Partito radicale per un impegno prioritario contro la fame nel mondo, né lo sarà per molto tempo.

Il percorso della nonviolenza politica non è semplice, non è breve, e non si può imporre per decreto. Non è una strada adatta per chi ha fretta, per chi cerca scorciatoie e soprattutto alibi per convincersi che la nonviolenza è per sempre sconfitta.

 
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