L'Unità 5 febbraio 1991di Augusto Barbera
Perchè non condivido l'intervento di Ingrao sul Golfo e l'appello dei giuristi. Temo che il Pds liberatosi dal pacifismo marxista finisca per adagiarsi su quello cristiano.
I nuovi scenari aperti dalla organizzazione delle Nazioni Unite furono presenti ai nostri padri Costituenti che "ripudiarono la guerra" non per mera ripulsa morale, ma proprio in vista dell'adesione italiana all'Onu, del riconoscimento del monopolio legittimo della forza a questa organizzazione internazionale.
Di fronte alle perplessità del relatore, il demolaburista Cevolotto, il quale obiettò che non si poteva preannunciare una limitazione di sovranità prima di aderire all'organizzazione delle Nazioni Unite (saremmo stati ammessi solo dopo qualche anno), fu proprio Palmiro Togliatti (Prima sottocommissione, 3/12/1946; atti dell'Assemblea Costituente, volume VI p. 753) a insistere perché l'art. 11 tenesse insieme il ripudio della guerra come "strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" e l'adesione ad organizzazioni sovranazionali volte ad assicurare la pace. Le guerre non sarebbero state da allora in poi "giuste" o "ingiuste", ma tutte bandite tranne quelle "legali", volte a fermare le aggressioni o contro l'Italia o contro qualsiasi membro delle Nazioni Unite. La Carta di S. Francisco aveva alla base, non dimentichiamolo, non solo il rafforzamento della Società delle Nazioni, ma anche il tentativo di prolungare l'esperienza delle Nazion
i Unite in guerra contro il nazifascismo (sistema di sicurezza collettiva); perchè l'aggressione di un solo Paese fosse considerata aggressione a tutte le Nazioni Unite dal patto di pace.
Ed è questa la ragione che mi porta a non condividere né l'appello dei giuristi pubblicato da Il Manifesto del 29/1 né un punto specifico dell'intervento di Pietro Ingrao (l'Unità del 20/1/91). L'intervento militare deciso dal Parlamento, questo in sintesi il ragionamento, "ha infranto" un elemento fondamentale del "patto che fondava la vita della Repubblica": "il ripudio della guerra". Ed è "mistificante", aggiunge Ingrao, richiamarsi a quella parte dello stesso art. 11 che prevede "il vincolo derivante dalla partecipazione a organizzazioni internazionali" per due motivi, perchè "mancano le condizioni di legittimità scritte nella Carta dell'Onu" e perché sulle decisioni dell'Onu "pesa il privilegio del diritto di veto per i cinque grandi". In questa situazione "il vincolo a partecipare alla guerra è infondato e incostituzionale". Di qui la conferma che "siamo ormai verso il tramonto della Prima Repubblica", che è stato "dato un colpo alla coesione nazionale, a un legame comunitario".
Le parole sono terribilmente pesanti. Le conseguenze da trarre sarebbero ancora più pesanti: la disobbedienza civile, la diserzione, l'organizzazione di quel diritto di resistenza da far scattare allorché vengono violati i principali fondamenti del patto di cittadinanza. E non sono mancate, come è noto, preoccupanti voci al riguardo, e non solo all'interno del movimento pacifista. Ma a tanto i giuristi firmatari dell'appello (e non solo perché alcuni di essi sono magistrati) non hanno avuto, per fortuna, il coraggio di giungere. Però il pericolo che altri arrivino a quelle logiche conclusioni partendo da quelle errate premesse è tutt'altro che un'ipotesi remota.
Non è comunque questa la linea che abbiamo sostenuto in Parlamento: siamo stati contrari all'intervento militare perché altre strade ci sembravano possibili. Non abbiamo delegittimato la maggioranza che ha assunto quella decisione; abbiamo denunciato il merito della decisione assunta chiedendo che fosse proseguito e intensificato l'embargo (che peraltro avremmo dovuto sostenere fin dall'inizio in Parlamento con ben altra forza che non con un'impacciata astensione).
La riforma delle Nazioni Unite.
Tengo a sottolineare questo non soltanto perché la delegittimazione della maggioranza rischierebbe di tradursi in una autodelegittimazione dell'opposizione, ma perché non si delegittimerebbe solo la maggioranza ma la stessa organizzazione delle Nazioni Unite.
Ed altre voci si sono aggiunte in questa direzione: non solo l'Onu sarebbe già di per sé delegittimata perché fondata sull'ingiustizia del diritto di veto riconosciuto alle grandi potenze, ma addirittura porterebbe secondo Barcellona (l'Unità del 23/1) il peccato originale di vedere rappresentati "i governi e non i popoli", "le maggioranze governative e non le opposizioni".
Isolati dagli altri partiti sul piano interno, isolati dalle altre nazioni, in compagnia di Cuba e dello Yemen, l'alternativa per noi sarebbe dunque fra la disperata rivolta morale contro l'Onu e la passiva complicità con i presunti attentati al diritto interno e internazionale?
Che esista un problema di riforma dello Statuto delle Nazioni Unite non par dubbio. Il diritto di veto è il prodotto del clima in cui nacque nel '45 la Carta di S. Francisco.
E su di esso si è basato l'equilibrio bipolare Usa-Urss che ha paralizzato di fatto le Nazioni Unite (anche se va ricordato che l'Unione Sovietica trovò modo, prendendo a pretesto il problema cinese, di assentarsi in occasione della deliberazione sulla guerra di Corea, evitando così che le Nazioni Unite fossero travolte da un grave conflitto interno).
La strada della riforma non è facile, non potendosi limitare ad auspicare una generica democratizzazione atteso tra l'altro che la meccanica applicazione del principio democratico "one State, one vote" porterebbe l'Onu ad essere dominata da una maggioranza di piccoli Stati non democratici. Ma il problema esiste e va affrontato.
Ma proporre riforme non significa certo delegittimare le istituzioni che si vogliono riformare.
In ogni caso il costituente ebbe presente - lo accennavo prima - il diritto di veto riconosciuto alle quattro potenze vincitrici allorché procedette all'approvazione dell'art. 11 nel testo attuale e, ciò nonostante, ha statuito che l'Italia "favorisce" le organizzazioni internazionali, costituite "in condizioni di parità con gli altri Stati", volte ad assicurare "la pace e la giustizia fra le Nazioni". Non voglio entrare nell'interpretazione
di quella disposizione. La migliore interpretazione mi sembra però quella di Antonio Cassese: ragionevoli differenze di trattamento possono essere giustificate proprio per assicurare il valore della pace e l'esistenza delle stesse organizzazioni sovranazionali. E' comunque un argomento che trovo anche sgradevole, essendo stato utilizzato dall'opposizione missina nell'estate 1968 proprio per opporsi al Trattato di non proliferazione nucleare che avrebbe posto in condizione di non parità gli Stati che sarebbero rimasti privi dell'arma atomica rispetto agli altri.
Il governo mondiale.
Più consistenti mi paiono gli altri argomenti: l'Onu non è riuscita a darsi gli strumenti previsti dallo Statuto proprio come embrione di un possibile governo mondiale: gli accordi per la messa a disposizione delle forze armate, di cui all'art. 43, il Comitato di stato maggiore militare di cui all'art. 47. Il perchè non si sia riusciti è noto (le ragioni sono richiamate da Bobbio in "Il terzo assente", Edizioni Sonda 1989, p. 100). Ha giocato soprattutto il bipolarismo della guerra fredda. Ma da ciò è sbagliato far discendere tanto la conseguenza che tale obbligo sia caduto in desuetudine (come invece dice Conforti in "Le Nazioni Unite", Padova 1975, p. 180) tanto la delegittimazione di ogni possibile intervento "autorizzato" dalle Nazioni Unite. Se proprio appaiono necessari riferimenti testuali, possono ricordarsi due cose: che l'art. 106, nella parte relativa alle disposizioni transitorie, consente di procedere mediante accordi ad hoc fra i membri delle Nazioni Unite e che in ogni caso può operare i
l diritto di autotutela collettiva riconosciuto dall'art. 51 (che certo per le sue origini è esso stesso una falla nel disegno dell'organizzazione sovranazionale).
Anche ammettendo per mera ipotesi teorica la validità di tale argomento, ne discenderebbe una situazione paradossale: ogni Stato avrebbe il diritto di difendere se stesso, ma nessun intervento di altri Stati in nome delle Nazioni Unite potrebbe essere legittimo. Ne conseguirebbe che i Paesi più forti, capaci di reggere da soli o grazie ad alleanze militari, riuscirebbero ad esercitare una dissuasione seria o almeno a difendersi, mentre i più piccoli e non allineati sarebbero abbandonati a loro stessi. Sarebbe questa la solidarietà internazionale? O non si è invece di fronte ad un isolazionismo mascherato di formalismo giuridico?
Tanti sono i pacifismi: quelli di ispirazione marxista puntano sul superamento del capitalismo e dello stesso Stato, quelli di ispirazione cristiana puntano sul trionfo del principio evangelico della non violenza, quelli di ispirazione illuminista.
In termini di etica pubblica purtroppo i risultati dei primi due sono stati scarsi; quello che finora ha dato qualche sia pur magro risultato è il pacifismo democratico che dallo "Zum Ewigen Frieden" di Kant alla "Paix perpetuelle" dell'Abbé Saint Pierre alla "Société européenne" di Saint Simon al generoso patto Kellog-Briand del 1928 ai principi di Th. Wilson e di F.D. Roosevelt ha dato vita prima a quel "profeta disarmato" che fu la Società delle Nazioni, poi alla Organizzazione delle Nazioni Unite. Non vi è in essa l'utopia della fine dell'uso della forza nei rapporti internazionali, ma l'assunzione del monopolio dell'uso legittimo della forza da parte di un'organizzazione sovranazionale. E il diritto, i giuristi firmatari lo sanno bene, si afferma regolando l'uso della forza. In ogni caso "meglio un diritto ingiusto che nessun diritto", fu giustamente obiettato a quanti dall'interno della Terza internazionale bollarono la Società delle Nazioni come "Santa Alleanza degli Stati capitalisti". Il mio t
imore è che il Pds, liberatosi positivamente delle illusioni del pacifismo marxista, finisca per adagiarsi su una forma radicalizzata del pacifismo cristiano (non potendo per altro come partito far propri né valori trascendenti, né le prospettive meta-politiche che lo alimentano) ignorando che il "proprium" di un grande partito della sinistra non può che consistere nel vivificare il pacifismo democratico, nel pensare strumenti concreti per svilupparlo. Non può più consistere solo nel predicare la non violenza, ma nel pretendere che la forza sia regolata dal diritto e monopolizzata da istituzioni sovranazionali.
Si possono attingere motivazioni all'azione nel pacifismo religioso, ma esso non dà soluzioni politiche. Esso piuttosto ci richiama ad una proporzionalità tra il bene da difendere (il diritto internazionale) e il male che si procura difendendosi.
Ed è su questo che ci interroghiamo tutti quanti in questi giorni con angoscia crescente.