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Conferenza Partito radicale
Caravaggi Caterina - 14 febbraio 1991
Congresso Pr: Marco De Andreis

DISARMO E NONVIOLENZA

La prova che la guerra è la negazione della ragione sta anche nel fatto che dal 16 gennaio scorso molti hanno smesso di usare la propria - ragione - e sono entrati in un'altra guerra, una guerra di concetti, princìpi e scelte assolute, con i propri amici e compagni. La Guerra del Golfo ha già rovinato un Congresso di partito. Io vorrei evitare il rischio che ne rovini un altro, questo, e preferisco perciò concentrarmi sul dopo, sulle opportunità che si apriranno e i problemi che rimarranno quando, spero presto, questa guerra si sarà conclusa con la cacciata degli occupanti e la restaurazione del governo legittimo del Kuwait.

Io sono ottimista. Credo che le possibilità che la nonviolenza si affermi, attraverso il diritto, come l'elemento regolatore delle relazioni internazionali stiano aumentando. La guerra del Golfo è un incidente di percorso, su un percorso che però c'è, esiste: la revulsione generalizzata per il ricorso alla forza, la ricerca del consenso, il primato della democrazia nella politica interna agli Stati e quello del diritto nelle relazioni tra gli Stati. L'errore di Saddam Hussein è stato proprio questo: comportarsi come se questa tendenza non esistesse. Come se nulla fosse accaduto tra il 1989 e il 1990.

E invece qualcosa era accaduto: le dittature comuniste in Europa orientale erano crollate una dietro l'altra - in modo sostanzialmente nonviolento, e comunque largamente incruento - per essere sostituite da governi democratici. La Germania era di nuovo unita. L'Unione Sovietica si stava muovendo nella stessa direzione - più timidamente, certo, con resistenze assai più forti; ma sostanzialmente nella stessa direzione. Nel frattempo erano stati conclusi alcuni importanti accordi di disarmo - sulle Forze Nucleari a raggio Intermedio (INF), sulle Forze Convenzionali in Europa (CFE) - ed altri si stavano avviando a conclusione - Armi Nucleari Strategiche, Armi Chimiche. Il segnale al mondo era, e resta, chiaro: le armi, il ricorso allla forza contano sempre meno; la sicurezza non è a somma zero (tanto maggiore la mia, tanto minore la tua); la sicurezza è sicurezza comune; la ragione, la democrazia, il diritto si affermano.

Io vorrei che noi evitassimo di fare lo stesso errore di calcolo fatto da Saddam Hussein e trascurassimo di vedere non solo quello che ho appena ricordato. Ma anche quanto di positivo s'è realizzato negli stessi mesi scorsi, tra agosto e gennaio: un consenso larghissimo, espressosi in una lunga serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, all'interno delle Nazioni Unite; un embargo all'Iraq di un'efficacia senza precedenti; un sostegno alla prosecuzione dell'embargo e al non ricorso alla forza, nello stesso Congresso degli Stati Uniti, che alla vigilia della guerra ha sfiorato la maggioranza.

Io penso che queste siano basi solide sulle quali sviluppare una politica nonviolenta. Tanto solide che se me le avessero preannuciate cinque, sei anni fa, avrei stentato a crederci.

Detto delle opportunità, andiamo subito a vedere i problemi. Per comodità di esposizione, li dividerò per grandi aree: il disarmo, i conflitti regionali, la riforma delle istituzioni internazionali, il contenzioso globale.

Il disarmo. Come dicevo poco fa, il disarmo e il controllo degli armamenti sono finalmente usciti da un impasse che si trascinava dal 1979, data delle firma del SALT 2. Ma i due accordi conclusi nello scorso triennio - INF e CFE - riguardano l'Europa o, comunque, il Nord del mondo. La guerra del Golfo ha d'un colpo riportato in primo piano i rischi connessi alla proliferazione di tutte le armi: quelle nucleari, chimiche e batteriologiche, certo. Ma anche quelle convenzionali che, è bene non dimenticarlo, rappresentano sempre il grosso degli sforzi militari di ogni paese del mondo.

Per le armi di sterminio di massa, la comunità internazionale ha da tempo ritenuto opportuno creare regimi che impediscano la loro proliferazione. Il Trattato di Non Proliferazione (TNP) nucleare del 1970 è il caso tipico. Sulla sua efficacia si potrebbe discutere a lungo: ad esempio molti paesi che hanno o intendono avere un arsenale nucleare non hanno aderito (i casi più noti: Israele, Sud Africa, India, Pakistan, Brasile, Argentina etc.). Altri paesi, che invece hanno aderito, hanno continuato a perseguire, più o meno occultamente, programmi nucleari militari: l'esempio più eclatante è proprio l'Iraq. Tuttavia, non va sottovalutato il fatto che il TNP è stato sottoscritto da più di 140 paesi e che in vent'anni non si sono dati casi di violazione o di ripudio tra gli aderenti. Nel 1995 si porrà il problema di rinnovare il TNP, che altrimenti scadrà. Si tratta di lavorare perché esso venga non solo rinnovato, ma anche rafforzato. E' possibile farlo e mi limito a due casi particolarmente promettenti: il

governo di Israele ha più volte ripetuto di essere pronto a discutere la creazione di una zona denuclearizzata in Medio Oriente. Lo smantellamento dell'apartheid e il passaggio a una democrazia piena in Sud Africa finiranno per influire, si spera, sulla politica estera e militare di quel paese. Infine l'accordo sulla riduzione delle armi nucleari strategiche tra Usa e Urss, che sembra imminente, darà certamente impulso al ripudio generalizzato dell'armamento atomico.

Per quanto riguarda le armi chimiche, la conclusione positiva di negoziati che si trascinano da decenni è anch'essa imminente. L'accordo che si profila ricalcherà per molti versi il regime del TNP: i paesi aderenti rinunceranno allo sviluppo, alla produzione e allo stoccaggio di agenti chimici, accettando nel contempo di sottoporre le proprie attività industriali nel settore al controllo di un'agenzia internazionale che vigili sulla non diversione a fini militari.

Dico un'ovvietà: che la conclusione dei trattati che ho appena menzionato sia imminente non significa che li si debba dare per conclusi. Al contrario: mi preme sottolineare che sarebbe assurdo se quelle forze politiche, prima tra tutte il partito radicale, che per anni si sono battute perché si arrivasse ad accordi come questi, non si impegnassero ora perché i governi rimuovano gli ultimi ostacoli rimasti.

Non esiste niente - ma proprio niente: trattati, negoziati, colloqui - che riguardi invece la proliferazione delle armi convenzionali. Questo è assurdo: è sotto agli occhi di tutti l'insensatezza delle politiche indiscriminate di esportazioni di armamenti. Abbiamo visto con quanta facilità esse vengano puntate contro i fornitori medesimi, fino al paradosso che i francesi nel Golfo debbono ora guardarsi dai caccia Mirage e dai missili Exocet che loro stessi hanno venduto a Saddam Hussein, mentre i nostri alleati americani rischieranno di saltare sulle mine dell'italiana Valsella.

Il paradosso aumenta se si considera che le esportazioni di armamenti aggiungono poco o nulla alla ricchezza prodotta annualmente nel Nord del mondo: si può stimare che esse incidano attorno allo 0,1% del Prodotto Interno Lordo (PIL) italiano, all'1% di quello francese e così via per tutti gli altri con la sola eccezione, forse, dell'Unione Sovietica. Questa realtà è completamente rovesciata se uno la guarda dal lato di chi le armi le importa: le spesi militari di paesi come Arabia Saudita, Siria, Iraq, Yemen, Libia, Israele non sono mai scese, negli ultimi dieci anni, sotto il 10 percento dei rispettivi PIL, con punte di quasi il 30 percento. Dunque, per noi questi traffici sono un'inezia economica, mentre per i destinatari sono una tragedia che falcidia il soddisfacimento dei bisogni primari e lo sviluppo.

In un'altra professione di ottimismo, dico che l'aver reso espliciti questi paradossi - tanto espliciti che Ronchey vi ha dedicato recentemente un suo editoriale - è forse l'unico effetto positivo della guerra del Golfo. Si tratta ora di colmare il vuoto e di creare un'iniziativa. Noi lo stiamo già facendo: un gruppo di deputati federalisti europei ha presentato nei giorni scorsi una mozione al riguardo, il cui dispositivo riprenderò alla fine, perché mi pare rientri a pieno titolo sotto la voce "contenzioso globale".

I conflitti regionali - La guerra e il riarmo nel Terzo Mondo hanno le loro cause politiche in una serie di rivalità e di problemi locali (inclusi problemi irrisolti di identità nazionale, il più drammatico dei quali è quello palestinese). Anche a questo proposito, si sono aperte grandi opportunità: prima della fine della guerra fredda, la soluzione dei conflitti regionali era subordinata alle sfere di influenza dei due campi avversi. Ciò valeva in entrambe le direzioni: sia le superpotenze che i loro clienti si schieravano secondo il gioco a somma zero dell'aumento della propria influenza a scapito di quella del rivale. L'Iraq aveva un trattato di amicizia e cooperazione con l'Urss non perché preferisse le armi sovietiche a quelle occidentali (tant'è vero che appena poteva le comprava da noi), ma per bilanciare la protezione accordata dagli americani ai suoi principali rivali: l'Iran e Israele. Dal canto loro i sovietici chiudevano tutti e due gli occhi di fronte all'eliminazione fisica dei loro compagni c

omunisti iracheni - per non parlare dell'eliminazione di tutte le altre forme di opposizione al regime di Hussein - pur di bilanciare la presenza americana nell'area.

Il dittatore iracheno ha erroneamente concluso che la fine della logica bipolare si traducesse in una sorta di via libera all'uso della forza per la soluzione dei propri problemi. La reazione della comunità internazionale, a prescindere dal giudizio di ognuno sulla guerra in corso, dimostra chiaramente che Hussein s'era sbagliato. Ma se le sfere di influenza sono cadute largamente in disuso e la forza militare non è uno strumento accettabile per risovere le controversie regionali, l'unica altra strada praticabile è il ricorso al diritto e al dialogo.

Per restare nell'ambito mediorientale, la fine della guerra nel Golfo deve essere immediatamente seguita dalla convocazione di quella conferenza resa impossibile dal collegamento, affacciato da Hussein, col ritiro delle truppe irachene dal Kuwait. Solo che il negoziato non può limitarsi alla questione palestinese, per quanto importante e urgente essa sia. Esso deve abbracciare, sul modello dei vari cesti della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, in primo luogo la questione dei diritti e umani e della democrazia in tutti i paesi dell'area - non dobbiamo dimenticare il principio che la democrazia è il più efficace anticorpo alla guerra, se è vero, come è vero, che le democrazie non entrano in guerra tra loro. Per poi sciogliere, in parallelo, i nodi della sicurezza e del disarmo e quelli della cooperazione all'interno e all'esterno della regione.

E' un modello, questo delle conferenze sulla democrazia, la sicurezza e la cooperazione che può essere esportato ad altre regioni e aree, oltre a quella mediorientale. Anzi, esso potrebbe servire a rilanciare organismi regionali (come l'Organizzazione degli Stati Africani o, nel dopoguerra, il Consiglio di Sicurezza e Cooperazione del Golfo) dormienti o in crisi, o a crearne di nuovi laddove non esistono - organismi che possono rappresentare, come vedremo subito, un nucleo importante per la riforma delle istituzioni internazionali.

La riforma delle istituzioni internazionali - Un obiettivo che sembra oggi certo più realistico che in passato è l'attuazione piena della carta delle Nazioni Unite e la conseguente trasformazione di questa organizzazione in una vera e propria federazione mondiale di Stati. Una federazione cui sia demandato il monopolio dell'uso della forza nella risoluzione delle controversie internazionali secondo le regole del diritto - così come nelle democrazie la polizia è la sola istituzione autorizzata all'uso delle armi per il ripristino e il rispetto della legalità.

E' interamente pensabile, secondo me, che parallelamente alla riduzione degli eserciti nazionali - o agli impegni militari delle alleanze - l'ONU metta in piedi non solo un comando militare, ma anche delle forze armate proprie. Si tratterebbe non più di accettare, integrandole alla meglio, unità provenienti da paesi membri, ma di creare un'apposita agenzia con un proprio sistema di reclutamento. L'ONU impiega in agenzie specializzate economisti, demografi, agronomi e quant'altro, traendoli, per lo più senza intermediazione, da tutti gli Stati aderenti. Perché non seguire lo stesso principio anche per la creazione di un corpo di polizia internazionale?

Più in generale, il processo di rafforzamento delle Nazioni Unite finirà per porre all'ordine del giorno la questione della riforma del Consiglio di Sicurezza, che ora affida alle cinque potenze nucleari il ruolo di membri permanenti con diritto di veto. E' stato già osservato da molti, che se oggi si passasse di colpo al principio di uno Stato-un voto, l'ONU finirebbe per essere governata da una maggioranza di paesi non democratici. Dunque, di nuovo, il principio della democrazia nella vita interna degli Stati, diventa un elemento fondante dell'ordine internazionale.

Ma non c'è solo questo: qualsiasi organismo rappresentativo, se non vuole essere scavalcato e ignorato nei fatti, deve tenere in qualche modo in conto i rapporti di forza reali. Si tratta, in questo caso, di bilanciare il puro principio di rappresentatività con fattori come la popolazione, il reddito e così via. Ma anche simili soluzioni, più realiste, finscono inevitabilmente per creare risentimenti e accuse di discriminazione. Una via d'uscita, allora, potrebbe essere quella di affidare, in prospettiva, il ruolo di membri permanenti all'interno del Consiglio di Sicurezza agli organismi regionali. Il primo candidato a un seggio di questo genere potrebbe essere proprio la Comunità europea.

In definitiva, il punto sembra essere quello di favorire ovunque possibile un processo di allargamento progressivo delle giurisdizioni, che stemperi sino ad annullarle le spinte e i rigurgiti nazionalisti. Spiace ripetersi, ma le chiavi sono sempre le stesse: la nonviolenza, il diritto, la democrazia. Per quanto tortuosa, incerta e debole, l'integrazione europea sta marciando su queste basi. Viceversa, mezzo secolo di violenza, di negazione del diritto e di assenza di democrazia rendono inaccettabile a lituani, estoni e lettoni l'idea di demandare parte della propria sovranità a una giurisdizione più ampia denominata Unione Sovietica.

Il contenzioso globale - Confesso che si tratta di una brutta etichetta: ma non ho trovato di meglio. Quello che vorrei farci entrare è lo scontro di interessi sulle risorse globali, i global commons, siano esse le materie prime o le fonti energetiche, l'ambiente o la tecnologia. Sono tutti elementi fondamentali della qualità della vita, la cui abbondanza o la cui scarsità determina in larga parte la ricchezza o la povertà della gente.

Un'altra conseguenza positiva - è l'ultima che menziono: giuro - della fine della guerra fredda è la scomparsa, salvo presso qualche irriducibile, dell'aspettativa della palingenesi. Adesso sappiamo, praticamente tutti, che l'economia di mercato è l'unico meccanismo praticabile di distribuzione della ricchezza. Possiamo emendarlo, compensarlo, stemperarlo, ma dobbiamo tenercelo. Di conseguenza, i problemi è meglio affrontarli subito, non appena si presentano, piuttosto che rimandarne la soluzione al giorno del giudizio.

Questo ha importanti conseguenze pratiche: dovrebbe essere ormai chiaro, ad esempio, che le ragioni di scambio tra il Sud produttore di materie prime e il Nord consumatore non possono venir mutate con un fiat. Altrimenti i soggetti privati dell'economia si adeguano riducendo la domanda. A quel punto, i produttori o stimolano la domanda abbassando i prezzi o si rassegnano ai minori introiti conseguenti alla sua contrazione. Questo - detto grossolanamente - è quanto è accaduto col mercato petrolifero.

Il tramonto della palingenesi chiamata Nuovo Ordine Economico Internazionale non deve, tuttavia, portarci ad accettare la miseria, la fame e l'ingiustizia, né ad accettare l'assurda situazione per cui il Sud - principalmente a causa del debito - è oggi un esportatore netto di risorse finanziarie che si dirigono al Nord. Qui tocca agli Stati stemperare gli effetti del mercato e invertire la direzione del flusso di capitali.

Lottare contro la povertà e il sottosviluppo del Sud del mondo significa, per noi ricchi e industrializzati, investire in sicurezza. Dunque è giusto che i quattrini neccessari a questo scopo provengano dal cosiddetto peace dividend - dai risparmi conseguenti alla fine della corsa al riarmo Est-Ovest. L' Economist (che non è certo l'organo dei pacifisti inglesi) sosteneva nel suo numero del primo settembre 1990 che la NATO potrebbe tagliare di circa 100 miliardi di dollari l'anno le sue spese militari - pur rimanendo in grado di intervenire nel Terzo Mondo e, allo stesso tempo, di difendersi dal risorgere della minaccia sovietica.

Solo quattro anni di questi risparmi permetterebbero di ricomprare al valore nominale il debito dei paesi del Terzo Mondo più esposti. In dollari correnti, i crediti a lungo termine associati al Piano Marshall - quello che ha rimesso in moto le economie dell'Europa occidentale distrutte dalla seconda guerra mondiale - ammontano a circa 150 miliardi: un anno e mezzo dei risparmi che l'Economist ritiene realistici per la NATO. E infine con sette anni di questi stessi risparmi si conseguirebbe quello che il Worldwatch Institute chiama "uno sviluppo compatibile con l'ambiente".

Chiudo con un altro esempio di come disarmo e soluzione del contenzioso globale possano integrarsi l'un l'altro. Si tratta della mozione appena presentata alla Camera da alcuni deputati radicali.

Dicevo all'inzio dell'assurdità palese del commercio indiscriminato di armamenti convenzionali. Come porvi fine? Dal lato della domanda è ovvio che occorre rimuovere le cause politiche, locali e regionali soprattutto, dei conflitti. Ma cosa si può fare dal lato dell'offerta? Qui è necessario spezzare la logica (apparente) del vecchio adagio: "tanto se non esporto armi io, lo farà il mio vicino". Come farlo?

Si potrebbe seguire l'esempio del Trattato di Non Proliferazione nucleare. Esso si basa su uno scambio esplicito: i paesi che rinunciano a dotarsi di armi nucleari ricevono in cambio assistenza e trasferimenti di tecnologia qualora vogliano percorrere la strada dell'uso pacifico dell'energia atomica.

Questo modello potrebbe venir applicato ai trasferimenti dei maggiori sistemi d'arma (aerei, elicotteri, navi, veicoli corazzati, missili, apparati elettronici e cannoni di calibro superiore ai 100 mm) e della tecnologia necessaria alla loro fabbricazione. I paesi produttori potrebbero offrire garanzie di trasferimenti di tecnologia civile (contestualmente alla creazione di salvaguardie per impedirne la diversione a fini militari) e aiuti economici a quei paesi che: a) rinuncino a dotarsi di armamenti convenzionali sofisticati e alla relativa tecnologia; b) riducano le proprie spese militari; c) conformino la propria politica interna ai princìpi della democrazia e del rispetto dei diritti umani.

Da tutto quello che ho detto finora si deduce che le soluzioni per alcuni dei problemi globali più pressanti esistono, sono realistiche e praticabili. In più, con il tramonto della contrapposizione in blocchi, si sono create le migliori opportunità politiche dalla fine della seconda guerra mondiale perché il diritto, la democrazia e la nonviolenza regolino le relazioni internazionali.

Eppure ci tocca assistere a una guerra. Eppure vediamo che la soluzione effettiva di tutti i problemi che ho ricordato viene continuamente rimandata, o arriva drammaticamente tardi - quando altre questioni, magari ancora più complesse, sono sorte e reclamano risposte tempestive. Vediamo, in tutti i paesi democratici, la classe politica alle prese con faccende non più lontane della punta del naso, costantemente schiacciata dai tempi brevissimi intercorrenti tra elezione e rielezione. Pensare sul lungo periodo o in modo globale è totalmente alieno a questa classe politica - specie quella italiana.

E' chiaro che occorre qualcosa di nuovo e diverso: uno strumento politico commensurato alla natura e alla scala dei problemi. Quali caratteristiche deve avere questo strumento politico?

Intanto deve essere nonviolento. Con buona pace di Machiavelli, i mezzi finiscono sempre per essere coerenti con i fini. E se vogliamo un ordine internazionale fondato sulla nonviolenza e il diritto è con la nonviolenza e il diritto che dobbiamo costruirlo.

Poi deve essere transpartitico: non c'è nessuna etichetta ideologica che porti con sé alcuna particolare inclinazione a quello che ho appena chiamato "pensare sul lungo periodo e in modo globale". Se si tentasse, nei paesi democratici in cui l'alternanza ha funzionato, una correlazione statistica tra il buon governo e la collocazione ideologica dei vari esecutivi, si finirebbe per scoprire che non ce n'è alcuna. Lungimiranza e miopia attecchiscono ovunque quasi nella stessa misura, purtroppo sfavorevole alla prima, e di occhiali è meglio che si muniscano tutti.

Infine deve essere transnazionale: quasi niente si lascia più racchiudere dentro i confini di un solo paese e quasi niente si può così risolvere. Prendiamo, ad esempio, la mozione sul commercio delle armi convenzionali di cui ho parlato prima: anche se la sottoscrivessero tutti i deputati italiani e il governo la facesse propria in piena buona fede, tutti gli scopi che si prefigge andrebbero disattesi senza il sostegno di altri parlamenti e di altri governi. Di qui la necessità di avere uno strumento che si possa muovere presso tutti i parlamenti e tutti i governi.

Nonviolento, transpartitico e transnazionale: questo strumento c'è: è il partito radicale. Solo che è piccolo. Non è un nano, certo. Ma è un bambino della politica. Sbrighiamoci a farlo crescere.

 
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