SICUREZZA, DIFESA, AFFERMAZIONE DI COSCIENZA
(Bozza di relazione)
La coscienza era placata, avevo fatto la domanda di servizio civile parecchi mesi prima dello scoppio della guerra del Golfo. Io, almeno a parole radicale nonviolento, mi ero posto il problema; avevo scelto in tempi non sospetti di non uccidere o meglio: avevo scelto di rifiutare di addestrarmi a farlo. Ma poi la domanda è stata rifiutata ed io, ritenendomi ancora radicale e nonviolento, mi sono dovuto porre seriamente il problema.
Cosa significava realmente obiezione di coscienza? Perchè non siamo riusciti a far capire alla gente il significato dell'affermazione di coscienza? Ma sopratutto quale è il senso della nonviolenza e dell'assunto "nonuccidere" con una guerra in atto?
Mi sono reso conto che per molti l'imperativo "Nonuccidere" è diventato un alibi dietro il quale ripararsi, nascondersi, per non prendere atto della latitanza che quotidianamente viviamo rispetto alla violenza ed alle cause che l'innescano.
Abbiamo demandato agli eserciti il compito di salvaguardare i nostri diritti - quando qualcuno minaccia di usurparli in nome dei propri - assumendoci il diritto aggiuntivo di rivendicare come nostra anche la cultura (quale valore della coscienza collettiva) del "Nonuccidere". Essa viene relegata e delegata alla catechesi sulla vita e sulla morte di pochi "santi" che, eletti tali dalla collettività, si fanno carico da soli della scelta del non uccidere.
Il "Non uccidere" non e' una entità astratta, e' un obiettivo che si persegue nei comportamenti personali e collettivi e che deve diventare una categoria politica, deve trovare la sua organizzazione all'interno degli ordinamenti statuali.
Se puo' essere semplice per la collettività sostenere il peso della coscienza del singolo, purché rimanga tale, e' sicuramente difficile organizzare il "precetto" del non uccidere come diritto e legge della collettivita'di fronte ad un pericolo di guerra.
Il prezzo di non avere organizzato una risposta nuova alla guerra del Golfo e' ciò che ha reso impossibile la scelta del nonuccidere. Un nonviolento lo sa, perché sa di avere fallito, come sa che il suo primo dovere e' di concorrere a disarmare quel "nemico" che la sua latitanza sostanziale ha contribuito ad armare.
Stiamo vivendo la prima disfatta di una politica estera inesistente, legata tuttora a logiche tardocolonialistiche che hanno delegittimato ogni tentetivo di contrapporre, ai regimi totalitari, gli unici fattori in grado di farli crollare. La democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, politici e civili, avrebbero si "destabilizzato" i dittatori, gli oppressori, i Saddam di turno.
In nome di una miope politica di non-ingerenza (e non so se miope per concreti problemi di vista o per scelta politica) siamo riusciti ad innescare una bomba che ci e' scoppiata fra le mani. Abbiamo venduto di tutto. Navi ed aerei, carri e canoni, veri o di plastica, gas mortali, tecnologia nucleare, fino alla gamma completa delle armi dette "personal" o "anti-personal", tutte piu' micidiali le une delle altre. Abbiamo incoraggiato, favorito questo proficuo commercio con prestiti statali, con garanzie statali all'esportazione, fino al nostro, quasi unanime, silenzio di fronte alla violazione sistematica dei diritti dei cittadini irakeni, allo sterminio per gas di intere popolazioni quali i curdi ... fino al nostro silenzio di fronte alla guerra contro l'Iran.
Durante l'oramai decennale regno del terrore instaurare e sviluppato da quel Hitler del Medio Oriente, abbiamo taciuto, quasi tutti. Hanno taciuto i cittadini, hanno taciuto i movimenti pacifisti, hanno taciuto gli obiettori di coscienza, hanno taciuto le forze politiche, di governo e di opposizione. Tutti, salvo uno, il Partito radicale. Un partito che da 8 anni, e' riuscito ad intervenire per ben 77 volte, solo per i problemi dell'Irak, nelle piu' alte istituzioni nel tentativo di riportare ad una politica della ragione, del buon senso e quindi ad una politica di pace, il governo del nostro Paese.
Non sono bastate, certo. Non abbiamo, soli come eravamo, potuto imporre alla classe dirigente dell'Italia (e tanto meno a quella degli altri paesi) questa nostra politica di difesa e di promozione del diritto, questa nostra politica nonviolenta. Ha vinto ancora una volta, e quindi ha straperso, la loro "real-politik".
Abbiamo, nonviolenti che eravamo e che piu' che mai oggi siamo e vogliamo essere, perso una battaglia. Non certo la guerra. La follia che e' sorta con tutto il suo orrore dall'Irak, ma che continua ad essere coltivata dalla maggiore parte dei regimi della regione e di tante altre regioni del mondo, con la benedizione - immutata - dei nostri governanti, ci rafforza nella nostra convinzione che fuori da una lotta nonviolenta feroce, intransigente, perseguita giorno dopo giorno, per la democrazia, per il diritto alla vita e la vita del diritto, in tutti questi paesi, non c'e' pace possibile, ne' li, ne' qui da noi. Ma ci rafforza anche nella nostra convinzione che questo non sara' possibile se non riusciamo ad organizzarci al di la ed attraverso le nostre rispettive frontiere, "culture", lingue, dotandoci di uno strumento nel quale sia effettivamente possibile associare le nostre volontà, energie, intelligenze.
Ma qualche passo in avanti e' stato fatto. Persino il capo di stato maggiore dell'esercito, gen. Goffredo Canino ha dichiarato quello che noi sostenevamo e sosteniamo nella battaglia per lo sterminio per fame. Il generale, come noi e' convinto che il problema e' nello spaventoso divario che esiste fra Nord del mondo ricco e consumista e Sud povero ed affamato, quindi anche lui ha compreso che nessuna politica di difesa puo' prescindere da questo principio. Che, in altre parole, va spostato il baricentro dei compiti dell'esercito in funzione di queste nuove minacce. Non dell'esercito, diremo noi, ma dell'intera politica di difesa. Sterminio per fame quindi, ma anche catastrofe naturali o ecologiche, congiunturali ed strutturali come la deforestazione, la diminuzione della fascia d'ozono, la morte delle foreste, ..., catastrofe tecnologiche (guasti alle centrali nucleari, incendio di pozzi, maree nere, ...) , e, last but not least, catastrofe in termini di democrazia, di rispetto dei diritti umani, civili pol
itici. Un raggio nuovo, e molto ampio, di necessari, anzi indispensabili interventi di difesa e di sicurezza.
Accade invece che le cose continuano a svolgersi sempre secondo gli stessi schemi. Si innescano i germi della violenza, si lascia che si sviluppino in un ricco terreno di coltura, e quando la violenza scoppia, dilaga, si interviene con una "chirurgica" operazione militare da una parte, mentre si manifesta per la pace, per la sospensione delle ostilità dall'altra. Nella "ricca" cultura occidentale e' previsto tutto: se si e' molto sensibili si puo' "per inderogabili principi morali, etici, o religiosi" scegliere di non partecipare alle "guerre chirurgiche" abdigando al dovere di difesa, scegliendo una strada che e' tutto tranne che nonviolenta. Cosi' chi ha scelto di partecipare alla difesa dello stato e del Diritto con le armi della nonviolenza è stato costretto a lavorare in realtà che hanno scarsissima relazione con la difesa stessa.
Seppure e' vero che qualsiasi campo di ricerca e di sviluppo, che non sia quello relativo agli armamenti, e' comunque riconducibile ad un programma di integrazione con gli altri paesi, specie in via di sviluppo, e' pur vero che questo si traduce in un rapporto di "normalizzazione" che lascia gli affermatori nonviolenti da una parte lontani da quei problemi di sicurezza per i quali "sacrificano" un anno della propria vita, mentre i militari rimangono gli unici depositari dei compiti di difesa dello Stato e del Diritto.
Gran parte degli obiettori hanno cosi' svolto il loro servizio presso istituti per anziani, per handicappati, in polverose biblioteche o in comode sacrestie, facendo talvolta un rispettabilissimo servizio sociale (che tante volte risulta essere l'unica risposta della collettività ai problemi delle categorie piu' deboli) che pero' non ha alcuna relazione con i compiti di "difesa" ai quali, anche la sentenza della Corte Costituzionale (n. 165 del 1985) chiede che essi siano destinati. Il loro e' divenuto una sorta di volontariato coatto che e' andato a supplire ai servizi ed ai doveri che ogni Governo dovrebbe garantire.
Non riesco a capire come si puo' collaborare alla difesa della "Patria" del diritto se si lavora per un anno in un istituto per anziani. Lavorare come accompagnatori ad un handicappato, riordinare una biblioteca della Caritas, fare i guardiani ecologici per il WWF, sedere in un ufficio di una qualunque delle ARCI, o altro ancora, puo' essere piu' o meno interessante ma non ha nulla a che fare con la nonviolenza.
In realtà il disegno e' preciso: delegittimare tutte le spinte nonviolente che vogliono lavorare per costruire la pace. Cosi' ci si divide i compiti: Da una parte le associazioni che utilizzano gli obiettori di coscienza non fanno nulla perche' il problema venga posto nei termini di "difesa": il loro fine, rispettabilissimo, e' quello di organizzare un volontariato che offra aiuto, menti ed energie a chi soffre; nella stessa ottica inquadrerei chi si occupa di "aiutare" a sopravvivere il patrimonio culturale ed artistico (o l'ambiente) della nazione nella quale si esercita il servizio civile. Dall'altra i militari, e tutta la cultura militarista che ancora pervade le strutture dello Stato, contengono le spinte al rinnovamento, ad una nuova cultura della difesa per delegittimare la scelta non-violenta, relegando la pratica della non-violenza in ambiti assistenzialistici e proponendosi quindi come unica alternativa credibile al problema della difesa.
Per i militari porsi concretamente il problema di un nuovo modello di difesa comporterebbe ripensare globalmente al loro ruolo, ipotizzare uno schema di sviluppo che preveda una costante laicizzazione degli eserciti, facendoli assurgere ad un ruolo nuovo, sovranazionale, di Polizia. Questo comporterebbe per loro la perdita di un'identita' costruita sulla coercizione e sulla violenza fine a se stessa, identita' che per molti militari e' ancora motivo di vita. Solo alcuni hanno compreso lo spessore, la qualita', l'importanza che il nuovo ruolo gli assegna: i militari come parte di un sistema integrato di difesa del Diritto, dove diverse entità, invece di prepararsi ad una guerra armata, lavorano e si addestrano per prevenire ed evitare tutte le guerre.
E' necessario insomma concepire una nuova e complessiva politica di difesa, una politica comprensiva quindi di un insieme di tecniche, di strumenti, di competenze.
Niente piu' servizio militare o servizio civile ma un servizio di difesa il cui svolgimento puo' rivestire diverse forme, civili o militari, nazionali od internazionali, "interne" od "esterne" a secondo della propria coscienza (sulla quale non va indagato) ma anche a secondo della propria competenza e, certamente, anche a secondo dei bisogni della difesa stessa. Una difesa che va quindi ricondotta interamente ad una istituzione esecutiva (un ministero) ed, al di la' di essa, alle istituzioni responsabili della definizione delle minacce e quindi dei compiti della politica di difesa (il parlamento o il parlamento europeo).
Ma i passi in avanti che riusciamo a realizzare nella "coscienza collettiva" si concretizzano quando riusciamo a proporre strumenti chiari, comprensibili. Le proposte ci sono: l'organizzazione della Difesa Popolare Non-violenta e' già contenuta in alcune proposte di legge al parlamento italiano e oggetto di studio di alcune commissioni in altre nazioni. L'idea e' quella di addestrare la popolazione alla disobbedienza civile, alle tecniche della nonviolenza, nella convinzione che nessun oppressore puo' mantenere il potere senza il contributo del popolo dominato.
Il destinare gli obiettori alla predisposizione di questo strumento di difesa puo' essere una prima valida alternativa al mero assistenzialismo a cui sono attualmente condannati. La D.P.N. piu' che prefigurare a breve un reale modello difensivo, ritengo possa contribuire alla costruzione, all'interno della coscienza collettiva, di una nuova logica difensiva, che vede nella collaborazione, nell'integrazione fra le genti, un'alternativa al ricorso alle armi per far valere il Diritto.
L'obiettore/affermatore si porrebbe come esempio e il suo lavoro diverrebbe l'alternativa alle logiche della prevaricazione, della violenza; la concreta dimostrazione che si puo' lavorare per il "nonuccidere" senza essere "santi". Anche in questo caso la laicizzazione delle logiche militari da una parte, e quelle pacifiste dall'altra porterebbe alla conquista, nelle coscienze dei piu', di un'etica della nonviolenza bagaglio culturale delle massa e non mistico obiettivo di elitarie congregazioni.
Un'ulteriore proposta di tecnica non-violenta e' quella Presentata dai Radicali alla Camera il 17 gennaio 1991 Anche in questo caso chi sceglierebbe di collaborare alla difesa della "Patria" im modo nonviolento potrebbe essere utilizzato. Al punto 5 di tale mozione si chiede di impegnare il governo " Allo studio e alla predisposizione degli strumenti legislativi necessari per la costituzione di una Brigata delle Forze Armate italiane specializzata per operare su mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e dotata di tutti i mezzi per condurre operazioni di informazione attraverso propri mezzi di comunicazione di massa e interventi in caso di emergenze alimentari o di catastrofi naturali".
Questa Brigata, una volta operativa, potrebbe contribuire non poco alla prevenzione delle guerre, spostando la soglia del conflitto armato sempre piu' lontano, e dotando le nazioni Unite di un ulteriore strumento di pressione. Quando uno stato viola la sovranità di un'altro, o addirittura nel caso di palesi violazioni dei diritti degli uomini, le Nazioni Unite potranno ricorre, contestualmente alle sanzioni, agli embarghi, anche a questo potente strumento di pressione e quindi allontanare il momento in cui risultera' inevitabile l'uso delle armi. Ricordiamo il ruolo fondamentale che ha avuto Radio Londra durante l'ultimo conflitto, pensiamo quanto stanno condizionando le scelte militari delle forze alleate nel Golfo i servizi che i giornalisti occidentali diffondono ogni giorno nell'etere.
Credo sia chiaro che queste sono solo due possibilita', delle tante, di lavoro per chi vuole lavorare, da nonviolento, per creare i presupposti per la pace, per sentirsi realmente utile nella difesa del diritto, ovunque questo venga violato.
Sono quindi "volontario" ovvero pronto a lavorare in una Brigata non militare - almeno nell'accezione corrente del termine militare - italiana, ma meglio se europea o dell'ONU per "bombardare" di informazione democratica del Diritto, sul Diritto, per il Diritto, tutti i paesi dove questo e' negato. Ripresentero' contestualmente al mio arresto, la mia domanda di servizio civile, accettando solo delle mansioni che siano riconducibili ai principi della nonviolenza ed utili per far fare un passo avanti alla stessa. Solo in questo caso accettero' di lavorare in un servizio alternativo a quello militare, viceversa il rifiuto di prestare il servizio militare andra', ancora una volta, letto come estremo gesto nonviolento di chi, impossibilitato a fare altro, sceglie l'affermazione dell'obiezione, piuttosto che l'omologazione delle coscienze.
Francesco Buonfantino